La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



lunedì 26 gennaio 2009

27 GENNAIO
Il dovere etico di ricordare ed informare

sabato 24 gennaio 2009

Diario concertato di un'adolescenza


Ieri sera ho partecipato, con una massa sterminata di persone, al concerto romano di Francesco Guccini, un cantautore che amo dal tempo del ginnasio. Me lo fece conoscere il ragazzo con cui ho condiviso il banco scolastico per cinque anni. Ho canticchiato i suoi motivi più celebri nelle ore più malinconiche, nei momenti chiaroscuri della mia adolescenza, nel corso delle cospirazioni tentate dalle sommosse d'animo. Quando viaggio in treno, mi torna spesso in mente la strofa finale di Incontro (1972):



E pensavo dondolato dal vagone



<<cara amica, il tempo prende, il tempo dà,



noi corriamo sempre in una direzione,



ma qual sia e che senso abbia chi lo sa>>.



Restano i sogni senza tempo



le impressioni di un momento



le luci nel buio



di case intraviste da un treno;



siamo qualcosa che non resta



frasi vuote nella testa



e il cuore di simboli pieno.



Non ho dubbi sul fatto che Incontro sia la canzone che, nel corso di un anno, ascolti più spesso. Si è infiltrata nei canali esistenziali della mia soggettività. La prima strofa della stessa canzone mi fa rivivere col pensiero certe esperienze mattutine, precedenti l’inizio delle lezioni universitarie delle 9. Storie, ormai, di diversi anni fa, incontri nella nebbia, scenario di una presenza insondabile:




E correndo mi incontrò lungo le scale



quasi nulla mi sembrò cambiato in lei;



la tristezza poi ci avvolse come miele



per il tempo scivolato su noi due.



Il sole che calava già



rosseggiava la città



già nostra e ora



straniera e incredibile e fredda;



come un istante déjà vu,



ombra della gioventù,



ci circondava la nebbia.








In realtà, il passo della canzone prefigura una cornice crepuscolare; il discorso emotivo resta, in ogni modo, lo stesso. E poi, i motivi narrativi dell'incontro con l'amica si intrecciano con vicende reali della mia adolescenza. Incontro è così l'inno del mio cuore senza costituzione e a sovranità limitata.




Un concerto di Francesco Guccini non è un semplice concerto. Il Maestro dialoga col pubblico, come se si trovasse nell’Osteria delle Dame, piuttosto che in un palasport. Graffia gli animi con le sue pungenti riflessioni sulla miseria dei nostri giorni, scatena risate collettive sfoderando il suo leggiadro umorismo da taverna. Condensa nei suoi testi elementi “alti”, accessibili esclusivamente ad un uditorio d’elite (penso alla seguente strofa di Bisanzio, incisa nel 1981:




Sentivo i canti osceni



degli avvinazzati



di gente dallo sguardo pitturato e vuoto



ippodromo, bordello e nordici soldati



Romani e Greci urlate dove siete andati.



Sentivo bestemmiare in alamanno e in goto





oppure alla struttura compositiva complessiva di Via Paolo Fabbri 43 del 1976) ed elementi “bassi”, per i quali l’erudizione raffinata del dotto si converte nell'espressione immediata e cruda dello stato d’animo (mi viene in mente, al riguardo, la strofa finale di Quattro stracci del 1996:




Per rifiutare sei stata un genio, sprecando il tempo



a rifiutare me



ma non c'è un alibi, non c'è un rimedio, se guardo bene no,



non c'è un perché;



nata di marzo, nata balzana,



casta che sogna d' esser puttana,



quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre



i passati amori



ed hai annullato tutti fuori che te).




Il canzoniere di Guccini è l’enciclopedia della mia anima, il registro polisemantico e polifonico dei miei umori. Conosco a memoria tutte le sue canzoni e credo che per dare senso ad ogni possibile oscillazione del mio temperamento sia sufficiente mettere sul nastro una sua determinata canzone. Ci tenevo ad incontrarlo, a fare i conti con lui e con la storia personale dei miei ultimi dieci anni. Pur di partecipare all’evento di ieri sera, per il quale non avevo affatto biglietti a disposizione fino a due giorni fa, mi sono messo nella condizione di incontrare un ragazzo in piazza Bologna, un ventenne dall’aria trasognata, che mi ha ceduto a caro prezzo il diritto di accesso ad un viatico di emozioni, tuffo introspettivo senza paracadute.





L’emozione più forte è stata un’altra, però. Accanto a me, nel parterre, a pochi metri dal palco, c’era una giovanissima liceale. L’ho osservata in più di un’occasione. Ha cantato a memoria, con grida di rabbia, tutte le canzoni. Osservandola ho pensato che sapesse tutto su di me. L’ho vista orientarsi, con legale diritto di cittadinanza, nel mio mondo, presente come una passante sconosciuta, ma non clandestina. E' fantastico prendere coscienza visivamente della possibilità di condivisione dello schermo su cui proiettare pensieri, idee, progetti, isole non trovate. La ragazza, poi, ha sollevato con vigore il pugno, un antico gesto di speranze, mentre ribolliva La locomotiva nei nostri cuori. Pur non essendo un comunista, ho stretto anch’io le mie rabbie, la mia stanchezza, nel pugno innalzato al cielo nella notte piovosa romana. Era il nostro simbolo di riconoscimento, il segno della nostra aggregazione, della condivisione dello stesso tessuto di disillusioni e di attese da rinnovare. Questo è il valore del pugno chiuso, un gesto di amore e di rivendicazione di un riscatto da affermare disperatamente, costi quel che costi.


L’attualità è un’icona di miserie e di vergogne, rispetto alle quali non siamo neppure più tutelati da una barriera di pudore. Non proviamo più imbarazzo per la mostruosità che ci circonda e che penetra lentamente, giorno dopo giorno, nei nostri pensieri, nell’architettura delle nostre utopie, evaporate in un bicchiere di vino rosso sangue. Il disincanto è scalzato violentemente dall’incapsulamento mediatico, dall’assuefazione passiva.




Per tutte queste ragioni, ieri sera ho celebrato la mia festa di liberazione. Mi sono liberato della delusione per la deriva degli eventi del nostro bel paese, esorcizzandola in un coro comunitario di voci giovanili. Mi sono liberato del fardello della mia adolescenza complessa e barocca. Le canzoni e le emozioni sono le stesse, a variare è il modo di viverle sulla propria pelle. In definitiva, sono sempre fiero del mio sognare, di questo eterno mio incespicare e rido in faccia a quello che cerchi e che mai avrai.

lunedì 19 gennaio 2009

Parabola di stelle e stalle

Nei post che ho scritto finora non ho mai fatto i conti con Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio. Non l’ho mai citato, non ho sviluppato neppure una blanda allusione alla sua persona. Mi ha stancato. È una figura che entra violentemente nelle nostre case ogni giorno, ininterrottamente, dal lontano 1994. Ero un bambino di dieci anni allora, già animato da significativi conati di rivolta. Trovo nauseabondo il sistema di potere che è riuscito ad instaurare – bisogna riconoscerlo – magistralmente sulle ceneri calde dei furori degli anni di Tangentopoli. Il suo carisma seducente è talmente valido da far presa anche sugli avversari politici, riuscendo nell’intento di plasmarli; si tratta di una formula che ancora non è scaduta. Non ho nessuna intenzione di esporre pienamente il mio pensiero su S. B., perché se iniziassi a farlo probabilmente scriverei per molte ore, senza staccarmi dalla tastiera. È un personaggio politico estremamente complesso, sul quale si potrebbe scrivere una tesi di laurea di carattere antropologico, sociologico, filosofico, storico. Non è semplice resistergli, perché riesce ad affondare il suo modo esistenziale sul fondo oscuro delle attese e dei timori dell’italiano medio. Non riuscirà mai a convincere un intellettuale libero. Seduce ed ammalia lo spettatore passivo degli eventi non avvezzo all’esercizio dell’espediente critico. Mi fermo qui, per il momento. Mi rendo conto che se dovessi fare riferimento alla soluzione alchemica da cui risulta il suo trucco, o anche solo ai principali ingredienti che ne sono alla base (populismo, qualunquismo, paternalismo, retorica propagandistica, logica del sorriso ostentato, linguaggio fitto di luoghi comuni e di vuote banalità) ne avrei ancora per molto. È un despota da sistema democratico, le cui fortune derivano dalla confusione ricercata dei poteri politico, economico (relativamente agli interessi imprenditoriali di famiglia) e mediatico-culturale. La forma del nuovo dispotismo così codificata è penetrata a fondo nei tessuti socio-politici del paese; nelle nostre province, in diversi partiti, sono impegnati da funzioni preminenti di carattere amministrativo tanti S. B. in miniatura. Quando Sua Eccellenza toglierà il disturbo – un giorno accadrà di certo – sarà possibile fare i conti compiutamente con l’anomalia italiana, per comprendere le ragioni per cui una nazione democratica occidentale abbia seguito percorsi più consoni a realtà cambogiane.

Vengo al dunque. Mi ero ripromesso di non dedicargli le mie attenzioni per un pò, non per una resa o per manifestare una tentazione (più che legittima se penso al PD di Veltroni) di disimpegno, ma perché ho iniziato a pensare che sia sufficiente parlarne per incrementare il vento nelle vele delle sue libertà.

Ho cambiato idea. Un evento mi ha fatto cambiare idea. Riferendosi alla professoressa Margherita Hack, Sua Eccellenza ieri ha dichiarato: “L’altra sera in televisione c’era addirittura un’astrologa che mi attaccava”. Sono consapevole di essere fazioso; la mia parzialità eversiva può senz’altro avermi indotto a fraintendelo. In alternativa, la pigrizia innescata dalla domenica pomeriggio può avermi messo nella condizione di non trovare la chiave ermeneutica della sua dichiarazione. Sua Eccellenza confonde l’astrologia, su cui magari può essere preparato, con la ricerca astronomica. La professoressa Hack è una delle figure più note dell’astronomia italiana nel mondo. Professore emerito all’Università di Trieste, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, della Royal Astonomical Society, dell’European Society of Phisics, dell’Institute for Advanced Studi of Princeton, dell’Unione Astronomica Internazionale, ha compiuto ricerca sia per l’European Space Agency che per la Nasa. Rendendomi conto di non aver elencato satelliti di Confindustria, non posso pretendere che Lui conosca gli istituti citati. Sua Eccellenza ha confuso una delle più importanti scienziate italiane con una ciarlatana da trasmissione televisiva notturna, venditrice di presagi astrali.

Alcuni precedenti mi indurrebbero a pensare che il fraintendimento sia stato indotto da ignoranza. Citando, in un’altra occasione, un passo di Paolo di Tarso, Sua Eccellenza si preoccupò di informare l’uditorio con fare erudito del fatto che si trattava, in definitiva, di un filosofo greco. Non fu sfiorato dall’eventualità che l'autore del passo citato fosse “semplicemente” san Paolo.

In realtà probabilmente il fraintendimento è stato ricercato, come un colpo da cabaret, una battuta da Bagaglino. Sua Eccellenza sa bene che Margherita Hack ha il lusso di essere uno spirito libero. Ciò è massimamente inaccettabile per chi è stato abituato a considerarsi proprietario della vita di una nazione. Allo scacco subito il tiranno ha risposto con la deformazione della realtà. In alcuni casi, i colonnelli di Sua Eccellenza deformano i cognomi per affermare una vana superiorità verbale sul contendente dialettico. Il tiranno deve deformare la realtà.

Concludo la mia riflessione riportando un passo scritto da Norberto Bobbio nel 2001: “Berlusconi in fondo, come il tiranno classico, ritiene che per lui sia lecito quello che i comuni mortali sognano. La caratteristica dell’uomo tirannico è credere di potere tutto. Non solo, come abbiamo sottolineato, si è proclamato unto del Signore; addirittura, proprio in questi giorni, ha rivelato di aver fatto un miracolo. Ha ricordato di avere un amico malato, che lo è andato a trovare e gli ha detto: alzati e cammina. Berlusconi è un uomo che ha un’autostima di sé immensa, un vero e proprio complesso di superiorità. Egli si considera infinitamente superiore agli altri esseri umani: ha di sé l’idea di essere un’eccezione. Come potrebbe, altrimenti, avere il coraggio di fare tutti quei manifesti? Dovrebbero essere controproducenti, e invece, per lui, evidentemente non è così”.




Nell'interesse esclusivo del paese, esprimo l'auspicio che la professoressa Hack, avendone tutti i requisiti, possa essere insignita presto dell'onorificenza del titolo e della funzione di senatore a vita. Più di un sospetto mi porta a ritenere che perchè ciò avvenga sia necessario attendere la prossima legislatura.

martedì 13 gennaio 2009

Cronaca di un incontro al neon

Sono ormai diverse ore che penso ad un mio carissimo amico. Lo penso con insistenza perché sono consapevole del fatto di non avere l’opportunità di chiamarlo. Se digitassi il suo numero di cellulare, il nastro mi comunicherebbe che il cliente contattato non è al momento raggiungibile. Il mio amico non è mai raggiungibile. Non ha un contatto msn, né un indirizzo di posta elettronica. Non è, tuttavia, una proiezione immaginaria. Ormai non ho più l’età per coltivare un’amicizia da diario segreto. Il mio amico è in convento da un anno. Sta affrontando il noviziato. Per questa ragione subisce notevoli restrizioni: deve subire sulla sua pelle gli effetti comportati dalla vita monastica sull’equilibrio psicofisico. È un anno duro per lui, sottoposto ad un addestramento spirituale. M. deve in definitiva capire se è davvero compatibile con i rigori del regime cenobitico. Non c’è differenza fra il sabato sera e il giovedì mattina e il desiderio erotico deve evaporare in un amen, Deo gratia. Gli incontri con i familiari sono diluiti in un ricettacolo di occasioni non ricercabili. I contatti con gli amici carissimi sono battuti in comunicazioni epistolari sobrie e misurate. Sono attento quando scrivo una lettera al mio amico, peso le parole, seleziono i verbi, valuto gli aggettivi, perché so per certo che, prima dell’eventuale consegna al destinatario, la mia lettera è già stata sottoposta ad un raffinato processo di esegesi scritturale.
Sono ormai diverse ore che penso, dunque, a M. Ho qui davanti a me la sua ultima bellissima lette
ra, gli voglio molto bene, autenticamente bene. Mi comunicò con diversi mesi di ritardo la sua scelta di entrare in convento, di farsi francescano minore. Era il giorno di Pasqua. Non lo sentivo dal luglio precedente perché si era reso volutamente irreperibile. Stavo per scandire il mio biasimo. Mi interruppe, dicendomi, con un filo di voce, visibilmente imbarazzato: “C’è una novità. Devi sapere che ti sto chiamando dal convento di . . . Vivo qui da settembre”. In quel momento mi resi conto di non aver dato un’importanza significativa al suo crocifisso ostentato, alle sue posizioni politiche ultra-conservatrici (al cospetto delle quali la Binetti del PD sembrerebbe una socialist), alla sua passione esagerata per gli scritti di S. Tommaso d’Aquino e di Duns Scoto, all’attrazione che provava per la scolastica francescana. Sono cascato ingiustamente dalle nuvole. Il suo percorso era tracciato. Mi ricordo di avergli detto, più o meno: “M. hai fatto una scelta di vita difficile, tutt’altro che scontata. L’hai fondata sul tuo talento intellettuale e sull’analisi critica su cui ci siamo esercitati negli ultimi anni. Apparentemente la tua sembrerebbe una scelta contro il mondo, se per mondo intendiamo il teatrino delle vanità messo in scena ripetutamente in TV. In realtà, la tua è una scelta di libertà che non è appagata dalla sete di Dio che ti ha condotto nell’oasi spirituale di . . ., da cui mi chiami ora, posta in un deserto di valori e di emozioni, in cui anche io erro come un beduino. (Ti dico questo pensando a mio padre che l’altro giorno, dopo una delle frequenti discussioni, mi ha detto: ma non ti rendi conto, Francè, che stai facendo il deserto intorno a te?) Se i Greci avevano un pò ragione nel sostenere che la vita buona tende all’eudaimonia, la tua è allora anche una scelta di felicità, inclinata dalla piena valorizzazione del tuo essere profondissimo e ricchissimo. Soltanto ora posso dirti che la tua anima tende a Dio come la volta di una cattedrale gotica francese. La tua vita spirituale non avviene al buio. E’ risaputo che nelle strutture gotiche le ampie vetrate riflettono la bellezza del mondo. Sei anche entusiasta: la scintilla di Dio, di cui parla Meister Eckart, riluce in te e si riflette anche su chi, come me, ti vuole bene”. Non mi interruppe e rimase in un religioso silenzio.
Ripenso dunque a M., al nostro ultimo incontro, ovviamente casuale. È avvenuto a Roma, diverse settimane fa. Lui era lì per una settimana di ritiro spirituale in una struttura nei pressi di via Veneto. Avendo la necessità di reperire una recensione inedita di Leibniz, apparsa nel tardo ‘600 sul Journal des Savans, io ero diretto, invece, alla Biblioteca Casanatense, distante
due passi dalla chiesa di sant'Ignazio di Loyola. Ci siamo incontrati in un punto di snodo della metropolitana fra la linea A e la linea B, Stazione Termini. L’ho riconosciuto subito, nonostante fosse dimagrito visibilmente e avesse una barba da sacerdote ortodosso. Fra flussi di gente che ci spingeva, lo afferrai per un braccio fino a stringerlo fra le mie braccia, senza concedergli neanche il tempo di comprendere cosa gli stesse succedendo.
Il nostro incontro ha un carattere staordinariamente letterario. Ci siamo incontrati, infatti, in un non-luogo sotterraneo, in una fuga di transito, dove regna l’indifferenza più marcata, dove l’animo metropolitano afferma con decisione, fondandolo, il proprio carattere impersonale. In quelle caverne, nessuno guarda l’altro, nessuno ascolta l’altro, ognuno corre per il proprio sentiero di attese e disillusioni, negando ogni considerazione aggiuntiva. La massa fluente che entra ed esce dalla metro è una composizione aritmetica, oltremodo banale, di tanti satelliti solitari. Noi abbiamo infranto il senso o, per certi versi, il non senso di una metropolitana. Ci siamo incontrati, abbiamo parlato, ci siamo scambiati autentico affetto. Abbiamo interrotto il flusso dell’indifferenza, linfa di un individualismo sfrenato ed arrogante, che ha ormai del tutto contagiato la nostra società, riducendola ormai ad un corpo inerme su cui si accaniscono diversi avvoltoi, autoimmuni rispetto ai germi del nichilismo che diffondono agendo come untori pestiferi. È vero, come sostiene M., il mondo è davvero anarchico, regna ovunque la logica del disorientamento, della vertigine, asservita alla promozione delle scorciatoie che dovrebbero condurre ad effimere soluzioni di felicità che non sono altro che forme di alienazione e di decomposizione dell’autentica vocazione dell’anima.

In ogni modo, a variare sono la prospettiva e la funzione che si affidano al mondo, l'atteggiamento che si adotta sulla scena degli eventi. E' il registro interpretativo che assumiamo a renderci unici. M. combatte la sua battaglia ideale fra paternoster e giaculatorie notturne. Io preferisco la trincea, nella frontiera di periferia, proiettando lo sguardo ad altezza d’uomo, perché la volta celeste è troppo alta per le mie ali di cera e non so afferrarla intrecciando le mani. Vinta l'emozione dell'incontro, da lui collegata alla benevolenza del Creatore, da me ad un inganno del caso, M. si è voltato per raggiungere la Linea A, mentre io ho preso al volo l'ultima corsa della Linea B, pensieroso più che mai.

mercoledì 7 gennaio 2009

Una metafora del nostro tempo

Sono numerosi gli elementi che inducono o possono indurre a pensare che il nostro geoide bizzarro non sviluppi una successione formalmente logica di eventi, di fatti nudi e crudi. Oggi non c’è campo per una nuova ideologia o per un disperato tentativo di rifondazione della filosofia della storia. Quell’ammasso variegato di eventi che è la storia non è il prodotto di un disegno, di un piano, di un progetto, di un’architettura. La storia non è un piano inclinato nella prospettiva di un telos, di un fine ultimo imperscrutabile. Se così fosse, il regista occulto delle nostre miserie sarebbe un criminale masochista. Coltivo questi pensieri tutt’altro che rassicuranti dai tempi del liceo, quando ho preso coscienza del fatto che la conversione dell’ideale in ideologia non sia mai pacifica o priva di conseguenze nefaste. L’ideale comunista sciolto dalla struttura ideologica regolamentatrice di militanze e schematismi da sezione di periferia, è tutt’altro che stomachevole. L’ideologia comunista è, invece, la formula delle purghe e dell’arcipelago gulag. L’ideale teocentrico è molto distante dalla mia concezione del mondo, così come è distante dal nostro mondo. Eppure, quell’ideale, svincolato dalle catene auree di un’ideologia teocratica, è un fine per cui una vita può essere legittimamente spesa, in un chiostro o in un centro sociale underground. L’ideologia teocratica è il manifesto dei roghi, della violenza inquisitrice, della caccia alle streghe.
L’ideologia ha fallito, i sistemi religiosi vacillano. Dalle fratture della modernità si elevano i flussi di inquietudini da sedare, alimento di derive nichiliste, senza approdi certi.
La Striscia di Gaza è una metafora del nostro tempo, uno specchio fedele di interrogativi che scatenano un’eco di bisbigli incomprensibili. Non c'è anamorfosi, inganno mediatico.
Non voglio giocare con le parole. Sarebbe un passatempo stucchevole oltre che sterile. Ma, credo che dietro la sofferenza palestinese e i timori israeliani ci sia il senso ultimo di una logica del non senso, codice normativo e descrittivo inscrivibile.