La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 31 marzo 2009

L'incapacità di saper scegliere
Se si potessero calcolare le assurdità che coinvolgono questo povero vecchio mondo e se il mondo stesso potesse alzare la voce e diffondere il suo monito contro la banalità quotidiana che l’opprime e che tende ad attribuirgli, di nuovo, la posizione al centro del sistema solare, penso che l’intero blog di Pieghe libertarie non sarebbe in grado di contenere l’immenso calderone di sterilità morali e falsità mediocre che si librano nel cielo modesto dell’universo umano.

Telegiornali, giornali, programmi televisivi e talk show elaborati all’occorrenza martellano i sensi dell’udito e della vista con quella che sta diventando (o lo è già?) la piaga sociale per eccellenza. A cosa mi riferisco? No, non alla droga. E nemmeno alla delinquenza giovanile. Niente di tutto questo, sebbene costituiscano entrambe questioni delicate e gravi. Ciò a cui mi riferisco è qualcosa d’altro: la facilità con la quale gli adolescenti scoprono il mistero che avvolge la sessualità. Dico, gli interessati spesso non hanno ancora raggiunto la maggior età che entrano già a far parte di quell’universo lontano, di quell’universo strano che non può ancora appartenergli seriamente e che andrebbe scoperto lentamente. Bambine-madri che sconvolgono la propria esistenza e quella di eventuali figli-fratelli che vengono messi al mondo. Non ci si crede. Quasi fosse la storia inventata di un regista avanguardista e anche un po’ folle. Invece. E invece, no.
Dunque, tutti ne parlano. Nessuno risponde. E già, perché i genitori degli adolescenti mascherati da adulti fanno finta di non ascoltare, fanno finta di non guardare e quando, poi, il pericolo bussa alla porta di casa lo allontanano rispondendo che non hanno tempo di rimproverare, non hanno modo di recuperare. C’era una volta un libro di Moravia intitolato Gli indifferenti e il titolo ci sta tutto, è perfetto. Sono ‘indifferenti’ i genitori moderni? Sì, lo sono ma non basta. I genitori moderni sono quasi impalpabili: sono assenti, che è peggio. Ma poi!, lasciatemi sfogare contro quella scatola magica che propone scempiaggini megagalattiche! A parte qualche rarità (la famiglia Angela, i format giornalistici e qualche buon film), la televisione è davvero un immondezzaio cosmico (e con tutto il rispetto per la categoria degli operatori ecologici)! Io mi chiedo, come si possono mandare in onda quelle porcherie tanto poco intelligenti che fanno rima con volgarità e sudiciume cerebrale? E sì, avete capito bene che mi riferisco alle pareti corrotte di quelle quattro mura che fanno capolino ogni lunedì sul quinto canale della macchina infernale. Ma la sanità di mente come si arriva a stabilirla oggi? Mi dicono che i pazzi sono rinchiusi in manicomio. Credo che non sia vero. Credo che i pazzi siano i veri sani.
Restiamo sempre sul quinto canale o facciamo zapping? Mhh…, restiamo ancora un po’ sul quinto ma cambiamo giorno. Il venerdì va in onda un altro programma che potrebbe anche definirsi divertente se non fosse per quegli intermezzi diseducativi che, manco a farlo apposta, hanno per protagonisti dei ragazzini. E rieccoci di nuovo al problema iniziale: la sessualità come unico scopo degli adolescenti. Nel programma in questione non ci si fa proprio alcuno scrupolo nell’elaborazione dei testi e delle battute recitate con gran convinzione dagli attori-ragazzini. Non demonizziamo il quinto canale, però. Ricordo anche un’altra fiction andata in onda sul canale nazionale qualche tempo fa (Tutti pazzi per…) e che, mi pare, affrontava l’argomento non distanziandosi troppo da quella stessa linea di combattimento del filmetto del quinto canale.
Ma certo che non sono a favore della censura, è chiaro! Sono a favore, però, di quelle accortezze che vagano tra le righe e che andrebbero colte per assecondare la buona educazione.
Gli adolescenti, poi, dovrebbero imparare un concetto importante che oserei definire quasi pseudo-filosofico. È l’ideale della pecora nera. No, non ho bevuto, né tanto meno sono in preda a crisi d’astinenza da sostanze stupefacenti! Quello di cui parlo è un ideale di libertà, un ideale sacrosanto che permette d’andare in controtendenza. Perché l’adolescente può decidere di porsi controcorrente e di non seguire il gregge di pecore che si lancia nel burrone dell’idiozia. L’uomo veramente libero è colui che decide da solo senza condizionamenti esterni, senza proposte vessatorie che lo inducono a percorrere la strada più dissestata perché percorsa da chiunque. Non si deve aver timore di percorrere strade diverse, di scoprire terre incontaminate e conquistarle con la vera intelligenza. Dico agli adolescenti: non abbiate timore di urlare con una voce diversa da quella che imita il bee del gregge privo di carattere e personalità. Si ha sempre una possibilità diversa. Quella di saper scegliere.

domenica 29 marzo 2009

Invito alla visione di Fortapàsc
Non è il solito film centrato su tematiche mafiose, dalla trama narrativa scontata ed appesantita da futili ricami romanzeschi o volto alla mitizzazione indiretta della figura maledetta del criminale, sulla falsariga di robaccia come “Il capo dei capi”. Si tratta della storia nuda e cruda di un ventiseienne, apparentemente normale, che si chiamava Giancarlo Siani, e che aveva un contratto da precario, dipendente “abusivo”, presso la redazione del Mattino di Fortapàsc, una Torre Annunziata soffocata dalle lotte di potere che opponevano i clan camorristici Nuvoletta, Gionta e Bardellino, nella prima metà degli anni’80. Dobbiamo riferirci a Giancarlo con l’imperfetto. Ha pagato il prezzo della verità, scaturita da inchieste giornalistiche impeccabili, da “giornalista-giornalista”, piuttosto che da innocuo “giornalista-dipendente”, cronista di frontiera che si occupi esclusivamente si scippi, rapine, incidenti stradali, morti bianche. Viviamo sullo schermo le giornate di un ragazzo autentico che, comunque, non emergeva affatto per qualità straordinarie. Avrebbe voluto tanto partecipare al concerto napoletano di Vasco Rossi; pochi istanti prima di essere martirizzato, rientrando a casa con la sua inseparabile Mehari, ascoltava alla radio, canticchiando nervosamente, Ogni volta che viene giorno. L’eccezionalità di Giancarlo è da ricondurre, piuttosto, alla straordinaria tenacia con cui ha saputo essere se stesso, amare, disprezzare, ridere, temere in un Far West, dove la “legge” è riflesso dell’esercizio bruto della forza, dove la comunità è asservita alla buffoneria di gorilla analfabeti, segnati esclusivamente dalla capacità di maneggio del “ferro”.
Tre scene straordinarie lasciano il segno.
Durante uno scontro a fuoco fra i rappresentanti delle diverse cosche, nel cuore della città, nelle prime ore del pomeriggio, rese oziose dall’afa soffocante, seguiamo la passeggiata di una bambina, passo spensierato che diviene corsa disperata, poi pugni battuti contro il portale della chiesa barocca. La Casa di Dio è serrata. La bambina si accascia al suolo, punta da un proiettile. Ho inteso la figurazione della scena come una proiezione metaforica del disimpegno della Chiesa cattolica contro mafie, padrini devoti di Padre Pio e criminali pendolanti croci abnormi. Mai una parola spesa. La Curia è troppo presa dalla valutazione teologica dell’uso dei preservativi, del decorso naturale della vita, delle cellule staminali, per opporsi alla barbarie contagiante intere lande meridionali. Il coraggio della denuncia è affidato esclusivamente alla santa intrapredenza di pochi illustri sacerdoti, come l’eroico don Puglisi.
In seguito alla strage di piazza, nel contesto della quale la bambina resta ferita, il sindaco ha indetto un comizio pubblico per starnazzare la tesi secondo cui un'oscura minoranza non può oscurare la dignità di una comunità sana. Parole di un mafioso. Si elevano fischi di dusgusto dal cuore della città, un temporale impone il silenzio. Pioggia celeste che si converte in fango.
La discussione del dibattimento nel consiglio comunale a maggioranza DC-PSI, animato dalle urla disperatamente inutili degli oppositori berlingueriani, viene magistralmente sovrapposta da Risi ad un vertice congiunto dei tre clan di Torre. Metafora dei processi di criminalizzazione della politica e politicizzazione della mafia, ancora attivi, in Campania, Calabria e soprattutto Sicilia.
I tempi non sono semplici. Abbiamo bisogno di leggerezza. Ben vengano, pertanto, commedie come I mostri. Oggi. In ogni modo, proprio perché i tempi sono difficili, un film come Fortapàsc può svolgere un’eccellente funzione civica ed educatrice.
La sala era piena, soprattutto di coetanei di Giancarlo Siani. Si tratta di una straordinaria notizia.

venerdì 27 marzo 2009

Il tyrannus e le nuvole
Se un paio di anni fa qualcuno mi avesse preannunciato che avrei avuto l’occasione di riconoscere competenza, di lì a qualche anno, a Fini come Presidente della Camera, avrei reagito bruscamente, dicendo al malcapitato profeta di farsi ricoverare d’urgenza in un reparto psichiatrico. Abbandonati, a differenza di molti suoi colonnelli, i rancori del fascista vinto dalla storia, Fini si sta riconfigurando in questi anni come un autentico conservatore (di certo non liberale, ma di governo senza dubbio). In ogni modo, lo stronco con una osservazione: il suo problema essenziale è che, in assenza del premier, la figura istituzionale, che sta ben costruendo, si sgonfierebbe fino a diventare un palloncino portato via dal vento. Fini è consapevole di questo limite invincibile e, per questa ragione, nei limiti del possibile, appena può cerca di smarcarsi dal suo patronus cercando di prendere le distanze dalle farneticazioni eccessive. Si tratta di una strategia perdente, che potrebbe rivelarsi utile unicamente nella prospettiva (estranea a Fini) di un’emancipazione morale dall’orrore del berlusconismo. L’ultimo esempio è emblematico. Da qualche tempo, il premier avalla la tesi secondo cui, per un funzionamento più fluido del parlamento, sarebbe oportuno che votassero soltanto i capigruppo delle delegazioni partitiche. L’eterno delfino ha risposto con sacrosanta ragione che «la democrazia parlamentare ha procedure e regole precise che devono essere rispettate da tutti, in primis dal capo del governo. Si possono certo cambiare ma non irridere». Il Tyrannus è caduto dalle nuvole risultando, bontà sua, illeso. Secondo un copione collaudato, è stato semplicemente frainteso da un esercito di giornalisti faziosi e sovietici, per i quali sarebbe opportuno – perché no? – emettere un nuovo editto bulgaro. In realtà, l’ideale berluscomico è un altro, mutuato dalle stagioni rinnegate sinceramente e probabilmente non senza una certa sofferenza da Fini: la conversione dal voto esclusivo concesso ai capigruppo parlamentari alla determinazione di un unico gruppo parlamentare. Il resto sono nuvole e coriandoli.

martedì 24 marzo 2009

Pieghe libertarie aderisce alla lodevole iniziativa promossa dal WWF. Riportiamo dal sito di WWF Italia la presentazione dell'evento:
Il 28 marzo, dalle 20,30 alle 21,30 sarà l’ Ora della Terra – Earth Hour. In tutto il mondo grandi città con i loro monumenti, piccoli comuni, aziende e singoli cittadini nelle loro case spegneranno le luci. Un gesto semplice, per accendere un messaggio che risuonerà in ogni angolo del Pianeta. Partita da Sydney nel 2007, Earth Hour - l’ Ora della Terra ha contagiato 370 città e 50 milioni di persone nel 2008 con spegnimenti che hanno coinvolto il mondo a ogni latitudine dalle isole Fiji a San Francisco, passando per Manila, Bangkok, Roma, Copenaghen, Toronto, Chicago, New York. Per il 2009 l’ambizione è grandissima e si mira a coinvolgere un miliardo di persone e più di 1000 città. Si spegneranno icone mondiali come la Tour Eiffel, il Colosseo, le Cascate del Niagara, le piccole isole Chatham nel Pacifico e il più alto grattacielo del mondo il Taipei 101 in Cina. Conferma che ci sarai anche tu! Spegni le luci in casa per 60 minuti, servirà a chiedere ai grandi della Terra di agire contro i cambiamenti climatici.
Non ci resta che aderire. E' sufficiente riflettere un attimo e premere un pulsante, per iniziare una revolution.

lunedì 23 marzo 2009

Come una madre


È una voce immersa
nel candore dell’infanzia
quella che sale senza far rumore
su per i pensieri più remoti.
Come non dire parole dolci,
come non rallegrarsi con i baci
e gli sguardi affettuosi dell’amore?

Fecondo il mio pensiero,
audace il mio confronto.
Temo una caduta nella
profondità del mio spirito
e non vorrei macchiare
d’inchiostro questo cielo
azzurrino che percorre le
strade d’Egitto.
Desiderio profano di
un cuore solitario e vago.

Piccolo Amir,
odi il canto d’amore
che promana dalle labbra
dischiuse dei tuoi genitori,
così che tu possa un giorno
ripeterlo a tuo figlio
nell’istante in cui
si svelerà alla luce
del mondo.
Amato Amir, benvenuto nel mondo
Caro amore,
alle 9 del mattino ti sei svegliato dal tuo sonno uterino e hai gettato il tuo primo sguardo su chi aveva la fortuna di trovarsi lì ad attenderti, mamma e papà. Nell’agosto del 2007, mentre passeggiavo per i vicoli del suk centrale del Cairo, sapevo già che saresti arrivato, sapevo che quest'alba sarebbe giunta. Mi rendi per la prima volta zio, donandomi la consapevolezza del tempo che passa, certo del fatto che né io né tua madre siamo più dei fanciulli. Mi rendi uno zio di secondo grado. L’affetto che mi lega ai tuoi genitori, autentico e sincero, vanifica il distacco parentale delle gradazioni. Ti sento vicino nonostante ancora non abbia avuto il privilegio di osservare il tuo candore, il tuo sguardo fiero, erede delle grazie d’Egitto. Porti il nome del protagonista straordinario del Cacciatore di aquiloni; vorrei che tu, dai prossimi anni, non ti stancassi mai di essere un cacciatore di sogni e libertà. Come tua madre sa, da ormai diversi mesi, il tuo nome, in ballottaggio con altre possibilità fino a pochi giorni fa, mi piace tantissimo, talmente tanto che tifavo in silenzio per la scelta che mamma e papà hanno poi effettivamente fatto. Diventeremo amici, parleremo tanto, fino a quando non ti sarai stancato di me. Domattina verrà al S. Camillo a chiedere notizie su di te uno strano individuo, nascosto da una barba ribelle e da occhiali marcati. Se gli offrirai in dote uno sguardo di dolcezza si scioglierà al tuo cospetto in gocce di felicità. Amir caro, sei l’annuncio della mia primavera. Mi permetto di dedicarti una quartina di un poeta persiano del XII secolo di cui ti parlerò, magari, fra una quindicina d’anni. Si chiamava ‘Omar Khayyâm e così ha scritto, pensa un pò Amir, proprio per te:

O cuore, fa conto di avere tutte le cose del mondo,
fa conto che tutto ti sia giardino di verde,
e tu su quell’erba fa conto d’esser rugiada
gocciata là nella notte, e al sorger dell’alba svanita.


A presto allora,
tuo Francesco

domenica 22 marzo 2009

Spiragli di socialismo
in piazza Farnese? Io c’ero

La manifestazione di presentazione pubblica del logo elettorale della lista rossoverde di Sinistra e Libertà è legata alla suggestiva titolazione: La primavera della sinistra. Il vento gelido che ci ha avvolti non lascerebbe sperare molto bene. Il tepore primaverile su cui gli organizzatori dell’evento hanno fondato la metafora del risveglio della sinistra non ci ha affatto coccolati: in piazza eravano fustigati da folate insidiose e malevole. Ho aderito con piacere all’evento, con l’umore proprio di chi non vuole affatto rassegnarsi all’estrazione esclusiva di numeri perdenti. La sinistra riformista libera il concetto di libertà dal sequestro abusivo e dalle violenze inflittegli dalle destre negli ultimi quindici anni, senza che nessuno abbia mai osato ristabilire le sue esatte coordinate identitarie. Le destre della semplificazione e del populismo da bar sport avrebbero riesumato magari Stalin o Pol Pot per poi capovolgere le sorti di un gioco che non potrebbero mai vincere, se non truccassero le carte. L’ulivo di Prodi è stato sradicato. I miei convincimenti liberalsocialisti e riformisti, ancorati al Manifesto del Partito Socialista Europeo, non possono declinarsi nel sostegno al Partito Democratico, il partito del tutto e del suo contrario. La politica, nel senso nobile del termine, intesa come piano inclinato nella prospettiva esclusiva del bene comune, esige chiarezza, scelte di parte, coraggio intellettuale, passione disinteressata, intraprendenza, determinazione, l'orgoglio di essere l’approdo ultimo di più storie imparentate.
Per tutte queste ragioni, sono rientrato da poco a casa, dopo aver trascorso il pomeriggio in piazza Farnese. Mi sento meglio, ho ricevuto una boccata d’ossigeno, un’iniezione d'energia, nonostante sia consapevole di spendermi per una causa più aristocratica (da intellettuale che non vuole rassegnarsi) che popolare, dacchè il vulgus è sempre più stretto alle catene auree del suo Patronus, talmente tanto da amarlo, lottando per la sua segregazione, come se fosse un riflesso di libertà.

venerdì 20 marzo 2009

Pantomima primaverile




Scompare l’essenza audace dei
versi antichi tinti d’allegria.
Silenziosa mi assale una fallace
idea rivoluzionaria:
mescolare profumi e sapori
di un tempo ormai allontanato
per obliare il senso oscuro
diffuso oggi nel ventre della terra.
Fugace desiderio imperlato di speranza,
di miele e arbusti intrecciati di frutti maturi.

Trimalcione!
Sei nascosto nel velo del desco romano,
non arride la tua sorte alla tavola misera
del contadino ormai venduto,
dell’operaio ormai sfruttato.
Povertà vera e seria
maneggia oggi le redini
della società sconquassata e stanca.
Povertà triste e scortese
solleva le masse contro i falsi custodi
del bene comune
contro i falsi garanti
dell’uguaglianza sociale.
E non c’è spazio nelle menti
per il terzo precetto costituzionale,
per il quarto principio fondamentale.

Il mio grido silenzioso è solo per voi,
lavoratori senza pane,
disoccupati senza dignità sociale,
perché il vostro domani non si rifletta
in questa odierna pantomima di primavera:
muta e malinconica non giova
del vecchio cinguettio vitale
ma pigra e timida soggiace ancora inerte
al supplizio di un inverno epocale.

giovedì 19 marzo 2009

Sogni deragliati



La stazione ferroviaria è il cuore della città. È un luogo speciale, il teatro urbano dei saluti, degli abbracci di benvenuto, dei pianti di congedo, dei baci clandestini dei teenegers. I murales, i graffiti del sottopassaggio, i messaggi, scritti con grafia incerta, sul marmo dei muretti, sono i capitoli della storia di una generazione precaria e perdente, vinta dagli ormoni, assuefatta alle ripetizioni. Un testo paradossale, scritto per non essere letto, scritto per essere baciato dalla pioggia. La stazione non è un situs che lascia indifferenti. Riconosce una location cinematografica. È una fabbrica di metafore, alimentate dalla direzione presunta dei binari, dai ritardi delle corse, dalla solitudine del capostazione, dal caffè rifugio delle ombre della notte. Le stazioni ferroviarie delle città provinciali non sempre sono frequentabili nelle ore serali o notturne, dacchè il rischio di incontri spiacevoli è molto elevato. Fra tossici, puttane consumate dalla nebbia, ubriachi, girovaghi, disperati senza casa né nome, potrebbe aggirarsi qualche anima molesta. Nella cittadina in cui sono nato e in cui ancora vivo, nulla di tutto ciò. Nelle ore serali, la piccola stazione non ha nulla della fascinazione maledetta, dark, punk che potrebbe evocare un racconto di Tondelli, non accoglie anime degenerate, oscure. Ha in comune con le stazioni dei romanzi e dei film soltanto la celebrazione del neon, la luminosità artificiale, proiettata sui limiti dell'uomo. Domina il silenzio. La struttura intera diviene un cantiere abbandonato, un’officina manifatturiera che non ha mai accolto operai. Il non senso diventa poesia. La piccola stazione – la stessa che mi fa storcere il naso, quando capito lì di giorno, per il suo squallore decadente, segno di una città saccheggiata da barbari, villaggio sofferente senza futuro né speranze, diventa poesia pura, una gemma di bellezza, un panegirico estetico proprio perché il tutto è fine a se stesso, svelato per uno sguardo melanconico privilegiato. La bellezza può elevarsi anche dalla banalità architettonica, circo delle attese consegnato alla condanna di essere corrotto dall'umidità.

La vignetta è d'autore, la firma Plantu, il disegnatore satirico di Le Monde. Apparsa sul quotidiano di ieri raffigura Gesù Cristo che «moltiplica» preservativi mentre da dietro Papa Benedetto XVI lo guarda e commenta: «buffonate»; e ancora più dietro il monsignor lefebvriano Williamson che aggiunge: «.. e poi l'Aids non è mai esistito». Ho monopolizzato il blog con questa vicenda , correndo il rischio di appesantirne la facciata sbarazzina. Non potevo tratterermi. Ora metto il punto.

mercoledì 18 marzo 2009

Il silenzio dei clericofascisti
(per le libertà, si intende)

Quando la scorsa notte ho postato le mie considerazioni sui deliri incensati ho pensato, per un istante, di indossare l’abito consunto dell’ereticus, che si concede il lusso di esprimere liberamente le proprie opinioni, anche nel caso in cui queste vadano ad infrangersi contro l’auctoritas pontificia. Mi sono sentito un giacobino, un libertario senza catene che si è guadagnato un eterno castigo di fuoco.
Non sono solo, sono in buona compagnia. Una compagnia di rappresentanti seri di istituzioni rispettabilissime. Non una congrega di esaltati bolscevichi o di miscredenti temerari.
Il portavoce del ministro francese degli Esteri ha dichiarato: “La Francia esprime la sua più viva inquietudine per le consequenze delle dichiarazioni di Benedetto XVI. Anche se non è nostro compito giudicare la dottrina della Chiesa, crediamo che tali dichiarazioni mettano a rischio le politiche della salute pubblica e gli imperativi di protezione della vita umana”. Una nota congiunta dei ministri tedeschi della Salute e della Cooperazione sociale rende noto che “i preservativi salvano la vita, tanto in Europa quanto in altri continenti”. Il portavoce del commissario Ue agli aiuti umanitari conferma, come se fosse necessario, che il preservativo "è uno degli elementi essenziali nella lotta contro l'Aids e la Commissione Ue ne sostiene la diffusione e l'uso corretto". Anche il direttore esecutivo del Fondo mondiale per la lotta contro l'Aids ha espresso la sua profonda indignazione a Radio France Inter. "Queste parole sono inaccettabili. E' una negazione dell'epidemia. E fare tali dichiarazioni in un continente che è sfortunatamente quello più colpito dalla malattia, è assolutamente incredibile. Chiedo che queste parole vengano ritirate, in modo chiaro". La posizione dei nostri governanti, che si autodefiniscono tealtralmente come dei liberali, è il silenzio. Il nulla che riflette la loro essenza. Si tratta di politicanti senza arte né parte, privi di qualsiasi convincimento etico, che pur di governare sarebbero disposti ad allearsi anche con i talebani, con Satana in persona, stringendo un patto di vergnogne, il Patto con gli Italiani. Sono desolato, sento sulle mie spalle le miserie di un’intera nazione, in balia di una ciurma di pirati e di una conventicola di repressori moralisti. Si salvi chi può, finchè è in tempo.

Deliri incensati

Benedetto XVI ha raggiunto il Camerun, iniziando così la sua prima visita ufficiale in Africa, in cui sofferenze e disperazioni sono amplificate dal sentimento periferico della marginalità. L’Africa è il continente magico, la culla dell’umanità, in cui la natura può ancora sprigionare le sue gioie ancestrali. Il pontifex, Christus in terra, abbandona, così, per qualche giorno gli stucchi barocchi delle sue dimore per stabilire un contatto diretto con il mondo, di cui dovrebbe essere il divino consolatore. Una scelta coraggiosa, degna di essere lodata. In ogni modo, prima ancora di incontrare il presidente ospitante a Yaoundé, conversando con i giornalisti sull’aereo, Benedetto XVI ha chiarito la propria posizione sugli anticoncezionali, in relazione alla prevenzione dal virus HIV. Sua eccellenza ha dichiarato, infatti, che per prevenire il contagio dell’AIDS, i preservativi non servono affatto e, piuttosto, aumentano i problemi, dacchè sarebbe sufficiente un rinnovo spirituale ed umano nella sessualità. Qualsiasi individuo sia portatore di questo punto di vista deformato e deformante dovrebbe assumersi la responsabilità di pronunciare parole velenose, che flaggellano il cuore dei sieropositivi, siano essi cattolici, luterani, induisti o agnostici. L’AIDS è particolarmente diffuso nei paesi sottosviluppati, siano essi latini o africani, in cui il livello di alfabetizzazione non è particolarmente elevato, contesti sociali in cui le parole pontificie pesano come decreti statali. Più in generale, le parole sono come lame affilate, possono far male, con violenza inquisitoria. Dopo aver riabilitato alcuni vescovi lefebvriani, fanatici negazionisti, in prossimità della commemorazione della Shoah, inquietando le comunità ebraiche e gli uomini di buona volontà, un altro delirio. In realtà, si tratta di gesti prevedibili. Le gerarchie cattoliche danno davvero l’idea dell’orchestrina del Titanic che continua a suonare, mentre tutto va a catafascio. Gente che non ha nessun contatto con la realtà. Ottuso conservatorismo reazionario autoreferenziale. Arroccamento violento, poliziesco, fallimentare.

martedì 17 marzo 2009

Pane e libertà

Devo dire che la fiction non mi ha mai attratta in modo particolare. Tranne qualche caso sporadico, come la narrazione ben fatta sulla vita di Perlasca o di Caravaggio, ribadisco che non mi mai completamente rapita. Come dite?, ho adoperato la parola ‘narrazione’ piuttosto che quella più di tendenza: fiction? Eh lo so, avete ragione, ma che farci se io trovo molto più elegante e prestigiosa la nostra lingua italiana? Prego, non abbiate timore ché sulla questione non intendo soffermarmi di più, e ce ne sarebbero di cose da scrivere! Ritorno al punto principale, tentando di non uscire fuori tema, dunque.
Ammetto di essere stata colpita positivamente dalle puntate andate in onda domenica e lunedì sul primo canale (quello della rete nazionale, per intenderci!). Mi riferisco alla - ecco ci siamo, mi concentro e scrivo!: - fiction ‘Pane e libertà’, biografia perfetta di un uomo chiamato Giuseppe Di Vittorio. Voglio rendervi partecipi della biografia rintracciata tra le pagine svolazzanti del web scritta da Felice Chilanti:

«Giuseppe Di Vittorio nasce a Cerignola il 13 agosto del 1892 [in realtà la data è l'11 agosto, dichiarata all'anagrafe di Cerignola il 13 agosto, ndr] . Il padre Michele è un lavoratore dei campi e tutta la famiglia è costituita da braccianti agricoli. La madre si chiama Rosa Errico.
Nel 1902 il padre muore in seguito a malattia contratta nel suo lavoro di curatolo, e lui è costretto ad abbandonare la scuola elementare per essere avviato al lavoro nei campi.Nel 1904, nel maggio, partecipa ad una manifestazione di lavoratori agricoli, durante la quale interviene la polizia. Quattro lavoratori vengono colpiti a morte. Fra questi un suo giovane amico quattordicenne, Antonio Morra.Nel 1910, alla fine di novembre, diventa segretario del circolo giovanile socialista di Cerignola, che prende il nome di "XIV maggio 1904", per ricordare l'eccidio consumato in quell'anno. Il circolo prende ben presto un indirizzo a carettere sindacalista rivoluzionario, staccandosi dal PSI e aderendo alla Federazione di Parma della gioventù socialista. Partecipò all'esperienza del sindacalismo rivoluzionario e aderì all'USI (l'Unione Sindacale Italiana, nata nel 1912 dalla scissione con la CGdL riformista), ricoprendone dal 1913 la carica di membro del Comitato Centrale. Nel 1913 diventa segretario della Camera del Lavoro di Minervino Murge, mentre si sviluppa in parecchi centri della Capitanata e della provincia di Bari l'influenza del sindacalismo rivoluzionario. Nel 1914, ricercato dalla polizia in seguito ai fatti della "settimana rossa", è costretto a riparare a Lugano. Quindi prende contatto con molti fuoriusciti italiani e ne approfitta per studiare in modo sistematico. E' quello che Di Vittorio ricorderà come il suo "liceo". Nel 1915 è richiamato in guerra e dopo aver partecipato a parecchie azioni rimane ferito. Per il suo passato di "sovversivo", dopo un lungo peregrinare, viene inviato a Porto Bardia, in Libia. Rientrerà in Italia tra gli ultimi, nell'agosto del 1919. Il 31 dicembre sposa Carolina Morra. Avranno due figli: Baldina, che nasce a Cerignola il 6 ottobre del 1920, e Vindice che nasce a Bari il 21 ottobre 1922.
Nel 1921 viene eletto deputato mentre è detenuto nelle carceri di Lucera. La elezione a deputato avviene in circostanze del tutto eccezionali. Esse ci offrono un quadro della situazione non solo personale, ma ci indicano lo scontro sociale in atto tra la fine del 1920 e la metà del 1921. In questo periodo dilaga il fascismo, con la violenza più spietata, in molti centri pugliesi considerati le roccaforti del movimento socialista e, soprattutto, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Queste fanno capo, in parte, alla CGdL, di orientamento socialista, e in misura consistente (Cerignola, Minervino, Corato, Bari) all' Unione sindacale italiana, di cui Di Vittorio è il maggiore e più qualificato esponente. La resistenza al fascismo era molto forte in Puglia e Di Vittorio ne era uno degli animatori più convinti e deciso. Ed è proprio in seguito ad uno sciopero regionale antifascista, in un momento in cui il movimento operaio è più in ritirata, che Di Vittorio viene arrestato. Nel 1921 lo scontro in quella campagna elettorale è totale: i fascisti provocano una strage a Cerignola (nove lavoratori uccisi). Nonostante il clima di violenza e di intimidazione Di Vittorio viene eletto. Per tutto il 1921 e fino ai primi mesi del 1923, l'attenzione preminente di Di Vittorio è rivolta alla situazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni in Puglia, sottoposta ad un'opera di logoramento fino alla distruzione. Egli stesso è bandito dalla sua città, dai fascisti di Cerignola. Ma è a Bari che egli mette a profitto tutta la sua esperienza, nella Camera del Lavoro. L'occasione e' offerta dallo sciopero nazionale, detto "legalitario", dell'estate 1922, che ha luogo in tutta Italia per imporre la fine delle violenze fasciste ed il ritorno al rispetto della legge. Indetto dall'Alleanza nazionale del lavoro lo sciopero si risolse in una amara sconfitta: furono poche le realtà nel quale si costituì un ampio schieramento antifascista. Una di queste è stata Bari e la sua Camera del Lavoro che riuscì a costituire un ampio schieramento di forze (socialisti, sindacalisti, anarchici, comunisti, ufficiali fiumani, arditi del popolo) e tenne in scacco i fascisti fino all'ottobre del 1921, quando intervenne l'esercito a conquistare e sciogliere la Camera del Lavoro. Sul finire del 1922 per Di Vittorio non è più possibile vivere in Puglia. Si trasferisce a Roma.Nel 1924 avviene l'incontro con Antonio Gramsci e con Palmiro Togliatti, che lo porta ad aderire al Partito Comunista. Insieme con Ruggiero Grieco, dirigente comunista pugliese, avvia un'interessante lavoro per gettare le basi di un'organizzazione autonoma dei contadini italiani, in primo luogo nelle regioni meridionali. Il clima è quello della semilegalità che ben presto diventerà, ai primi di novembre del 1926, illegalità piena e totale.Fra il 1928 ed il 1930 è in Urss, rappresentante del Pcd'I presso l'Internazionale Contadina. Nel 1930 va a Parigi per far parte del gruppo dirigente del PCI e per assumere l'incarico di responsabile della CGIL clandestina. Nella primavera del 1935 muore la moglie di Di Vittorio. Nel 1936 è fra i primi ad accorrere in Spagna ad Albacete partecipa all'organizzazione delle Brigate Internazionali con Luigi Longo e Andrè Marty ed altri dirigenti. Nel 1939 dirige "La voce degli italiani", quotidiano antifascista. Il 10 febbraio 1941 è arrestato a Parigi dai tedeschi. Assieme a Bruno Buozzi e Guido Miglioli viene consegnato alle autorità italiane, che lo condannano a 5 anni di confino che sconta sull'isola di Ventotene.
Nel 1943 viene liberato e partecipa alla lotta di Liberazione. Firmatario del Patto di unità sindacale di Roma del 1944 con Achille Grandi per i democristiani e Emilio Canevari per i socialisti, diviene segretario generale della Cgil unitaria e poi, dopo la scissione, della Cgil fino alla sua morte.Nel 1946 viene eletto deputato dell'Assemblea Costituente. Tra le sue innumerevoli iniziative, va almeno ricordato il Piano per il lavoro, del 1949. Nel 1953 viene eletto presidente della FSM (Federazione Sindacale Mondiale). La convinta adesione agli ideali comunisti fu sempre contraddistinta da una totale autonomia che ebbe il suo momento più noto nella condanna decisa della feroce repressione sovietica in Ungheria nel 1956. Un altro punto fermo del suo pensiero fu il rifiuto della violenza nelle lotte di massa e nell'azione del movimento sindacale, convinto come era che nel nuovo regime democratico ai lavoratori erano dati gli strumenti pacifici per sviluppare le loro rivendicazioni e per allargare la loro influenza sugli altri ceti della popolazione italiana. Non ebbe esitazioni ad ammettere pubblicamente gli sbagli della organizzazione che dirigeva, e memorabile in questo senso rimane il discorso al comitato direttivo della Cgil dell'aprile del 1955, dopo la sconfitta alle elezioni dei rappresentanti dei lavoratori alla Fiat.Muore il 3 novembre del 1957 a Lecco, dopo un incontro con i delegati sindacali.
L'affermazione del valore sociale e culturale del lavoro è stato il principio che ha sempre ispirato e accompagnato l'azione sindacale di Di Vittorio; l'autonomia, la democrazia e l'unità del sindacato sono stati i suoi principali obiettivi. La CGIL doveva restare rigorosamente plurale e apartitica, senza per questo venire meno ad una sua naturale vocazione politica, centrata sulla difesa e lo sviluppo della democrazia e della Costituzione repubblicana, che aveva nella solidarietà e nei diritti i suoi principali valori. Pur vivendo una stagione assai difficile, segnata da tensioni ideologiche stridenti legate al sottile equilibrio bipolare della guerra fredda, Di Vittorio lavorò sempre per l'unità di tutti i lavoratori, dalla quale faceva derivare anche l'unità sindacale; a suo avviso, solo in questo modo sarebbe stato possibile difendere l'interesse generale della classe lavoratrice, lottando efficacemente per la sua emancipazione.»

[dal sito http://www.cgilfoggia.it/]

Il film (stavolta ritorno alla classica terminologia britannica!) andato in onda in televisione ha davvero carpito in modo perfetto i lineamenti di quest’uomo venuto al mondo per realizzare i sogni e le speranze di quella gente lasciata ai margini della società dai padroni affamati solo di potere e di denaro. E quanta passione, che ardore nella sua lotta contro l’ingiustizia e la disuguaglianza tra potenti e servi, tra potenti e contadini, tra uomini e uomini. Ho apprezzato tantissimo una scena del film, in particolare: secondo la consuetudine di quel mondo fatto di lavoro e sudore, i figli dei contadini non avrebbero mai potuto essere degni di frequentare la scuola. Anzi, lo stesso Di Vittorio si sente rimbrottare dalla madre che solo i ‘figli dei signori possono andare a scuola, i cafoni no’. E allora sapete lui cosa fa? Si procura un abito elegante, un abito da signore e col cappello in testa e le scarpe lucide ai piedi, passeggia per le strade del suo paese mostrando come sia possibile trasformare in un signore un cafone ben vestito!
Ed ho apprezzato ancora di più il titolo della narrazione televisiva: Pane e libertà. Due tesori che non dovrebbero mancare mai sul desco dell’umanità.


Stralcio dal discorso al II congresso della cultura popolare, Bologna 11 gennaio 1953.

Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…
Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…"


E cos’altro aggiungere a questo punto? Qualsiasi altro discorso dopo quello riportato sopra sarebbe davvero inutile.

domenica 15 marzo 2009

Invito alla lettura di Schlafes Bruder di Robert Schneider

La narrazione si snoda ritmicamente all’interno di una cornice montanara. L’ambientazione avviene in un irreperibile villaggio sperduto fra le Alpi austriache. Gli eventi risalgono ai primi dell’800. Fin qui nulla di particolarmente attraente. Si profila il testo riconducibile al filone fiabesto nordico, frammento di un genere letterario che, se non ha goduto di particolari successi in Italia, tocca tradizionalmente, invece, in maniera immediata le corde della sensibilità germanica e scandinava. Prima di essere pubblicato nel 1994 da Reclam, il romanzo fu cestinato da una ventina di editori. Considerati alcuni casi precedenti registrati dalla storia dell'editoria, si tratta di un elemento molto promettente. Non dico nulla sugli sviluppi della trama, per non prosciugare il gusto della lettura che mi auguro davvero di suscitare in un lettore di buona volontà. Per trascorrere una serata diversa dalle banalità del calcio e del teatrino della TV demenziale, volta ad intorpidire coscienze già sonnolente. Il protagonista dell’opera si chiama Elias ed è un genio musicale, istintivo ed incontenibile, ovviamente incompreso, in un paese in cui l’unica occupazione pensabile è quella di mungere le vacche. Elias conosce le voci del mondo, è in contatto simbiotico con la Natura che venera come la Madonna di un culto pagano sviscerato con carne e cuore. Elias sa comunicare con gli animali, sa sciogliere i cuori duri dei contadinotti con la sua arte magistrale, dacchè suona divininamente l’organo della chiesa pur non avendo mai visto uno spartito in vita sua. La prodigiosa sensibilità del giovane ha danzato sulla tastiera nelle notti d'insonnia sprigionando il canto miracoloso dell'anima. Elias ama Elsbeth, la cugina, espressione della normalità, sa di amarla da prima della sua nascita, dacchè sente che il cuore dell’amata è accordato con le sue pulsazioni da quando ondeggia nel grembo materno. La cugina si mostra interessata alle bizzarie di Elias, che è votato dall'infanzia alla solitudine e allo scherno, per via di quegli occhi gialli, davvero satanici… L’amore di Elias non può essere ricambiato. Elsbeth viene data in sposa a Lukas, uno dei giovani più promettenti del paese, con la testa sulle spalle. Quello di Elias non è l’unico amore non ricambiato. Sullo sfondo del pudore di provincia, Elias è amato da Peter, l’amico irrinunciabile, fratello di Elsbeth, l'unica anima di Eschberg che si degni di considerarlo, solo per amore. Elias sa di essere amato da Peter che può accarezzare il corpo tanto desiderato soltanto quando sarà violaceo e freddo. Se è vero che ama soltanto chi non dorme, soltanto chi può totalmente, in ogni istante di vita, darsi all’amato, Elias dimostra fino in fondo il suo amore disperato ed incompreso, sacrificandosi. Elias è il martire innocente dell’amore puro, l’artista autentico che paga a caro prezzo la sventura di essere nato nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato, in un villaggio tenebroso consumato da tre incendi enigmatici, gonfiati dal föhn invernale. In una notte di föhn, è sufficiente lasciare un cerino dietro la finestra per far scintillare un'intera comunità fra le nubi dense di tormenta. Il martirio di Elias purifica l’animo di Peter dalle schegge rivoltose del sadismo che lo fanno apparire come un ragazzo tanto strano. La lettura del testo è scandita da piacevolissimi spiragli di lieve umorismo (indimenticabile è la figura del sacerdote del villaggio), che preparano il lettore al finale catartico. Uno spartito di emozioni libertarie da sottoporre alle tonalità dell’anima, magari in una notte primaverile, una notte senza vento, una notte libera da luoghi comuni e ripetizioni incatenanti l'anima alle alienazioni dei giorni nostri.

Indicazione bibliografica: ROBERT SCHNEIDER, Le voci del mondo, traduzione di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 2006, pp. 181. Euro 9.20. Dello stesso autore, mi permetto di segnalare, per i palati più sofisticati: Kristus, Neri Pozza, Vicenza 2006, pp. 550. Euro 18.50, il racconto della storia straordinariamente avventurosa di Jan Beukels (1510-1536), uno dei leader degli anabattisti di Munster, attivo nelle effervescenze variegate del primo luteranesimo. Un'altra storia, insomma, una storia da studiare.

venerdì 13 marzo 2009

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

(Eugenio Montale, da Ossi di seppia, 1925)

mercoledì 11 marzo 2009

Ode al cane
di Pablo Neruda


Il cane mi domanda
e non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda
senza parlare
e i suoi occhi
son due domande umide, due fiamme
liquide interroganti
e non rispondo,
non rispondo perché
non so e niente posso dire.

In mezzo ai campi andiamo
uomo e cane.

Luccicano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
ad una ad una,
salgono dal suolo
tutte le arance
a collocare
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte e verdi,
e uomo e cane andiamo
fiutando il mondo, scuotendo il trifoglio,
per i campi del Cile,
fra le limpide dita di settembre.
Il cane si arresta,
corre dietro alle api,
salta l’acqua irrequieta,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra
e porta la punta del suo muso
a me, come un regalo.
Tenera impertinenza
per palesare affetto!
E fu a quel punto che mi chiese,
con gli occhi,
perché ora è giorno, perché verrà la notte,
perché la primavera
non portò nel suo cesto
nulla
per cani vagabondi,
ma inutili fiori,
fiori e ancora fiori.
Questo mi chiede
il cane
e non rispondo.

Andiamo avanti,
uomo e cane, appaiati
dal mattino verde,
dall’eccitante vuota solitudine
in cui solo noi
esistiamo,
questa coppia di un cane rugiadoso
e un poeta del bosco,
perché non esistono
uccelli o fiori occulti,
ma profumi e gorgheggi
per due compagni,
per due cacciatori compagni:
un mondo inumidito
dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e poi
una prateria,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
respira, cresce,
e l’antica amicizia,
la gioia
di esser cane e di esser uomo
tramutata
in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe
e una coda
intrisa di rugiada.


Lasciate che oggi stenda una prateria di versi in onore di un vecchio amico a quattro zampe che ha deciso di scappare via di casa per scorazzare libero nel giardino celeste. Lasciate che ci sia spazio nel cuore anche per una tenera bestiola che spesso nella sua vita s’è dimostrata più cara e affidabile di mille altri esseri che poggiano su due piedi. Lasciate che si sciolga il nostro canto d’amore anche per lui, perché il guinzaglio è vuoto, la cuccia è deserta e le orecchie sorde al suo richiamo.
Vai, Moris!, prendi la pallina e tienila. Stavolta non la riporterai indietro.
Ciao, magnifico esemplare di bulldog inglese.

martedì 10 marzo 2009


S i g m a


Audace colpo di immagini infrante.

Vetri colorati si scuotono incauti
fra le inanimate membra.
Gente. Strana e fugace che incorpora
le sensazioni nostrane.
Che curioso amplesso di locali, sguardi
e deboli parole di senso oscuro.

Mi rimetto al mio libro, che generoso,
mi compensa della vacuità consueta di
questa cittadina senz’anima.
Itaca è lontana!
Quindici anni senza Charles Bukowsky*



Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere. La bottiglia vicino, i portaceneri pieni, i pensieri in volo. Charles Bukowski. Il primo bicchiere, come sempre, era il migliore. Serviva a far scivolare le idee, a donare l'ispirazione, a disfare matrimoni e convenzioni, a lasciare dietro le spalle tutti quelli che non l'avrebbero seguito. Quindici anni fa, Hank se ne andò per una leucemia. A San Pedro, in California, circondato da gatti, fiori e poesie. Nasi e occhi umidi e la processione degli amici, quelli incontrati sul bancone di bar dalle grandi speranze e quelli raccattati per strada, quando l'alba si avvicinava e bastava una poltrona per appoggiare il corpo per qualche ora. I primi e gli ultimi. Nell'indistinto universo di Bukowski, gli ordini di arrivo si invertivano. Perchè a tagliare il traguardo, dopo gli applausi, rimaneva solo la disperazione. In stanze disadorne, dove il delirio si fonda con una realtà che si vorrebbe non vedere ma che Bukowski assaporò fino in fondo. Il futuro era un minuto dopo, e le expertations non erano poi così sconfinate. Uomini. Condannati a stare sulla terra, circondati, anche fisicamente, da dinamiche terrene, piccole miserie, desolanti orizzonti. Della sua esistenza, di tutte le storie di ordinaria follia, delle fantasie sessuali sublimate e di quelle che albergavano il tempo giusto per immaginarne altre, Bukowski fu insuperabile araldo. Le dipanò, una dopo l'altra. Con una prolificità senza pari. Tra le pagine, raramente lievi, senza sconti, spesso surreali, Bukowski aveva portato ciò che aveva annusato. I colpi duri e le delusioni, le botte del padre (disoccupato durante la grande depressione) e gli amori svaniti dietro l'ennesima curva sghemba. Ogni sera faceva cadere le stelle per poi raccoglierle il mattino dopo. E ricominciava. Postino nei primi anni '50 a Los Angeles, quel figlio per caso della Germania, capì in un tempo relativamente breve che il lavoro fisso non avrebbe mai fatto per lui. E salutò. Sposò la pittrice Barbara Frye e la lasciò. Abissi, non solo letterari, a separarli. Poi con Frances Smith, nel 1965, mise al mondo Marie Louise e incontrò l'ultima donna. Il cielo era areonautico, vuoto e a Hank, Linda Lee sembrò un giardino. Un incanto cui avvicinarsi con circospezione nuova. Se "L'uomo era la fogna dell'universo", non tutti gli esseri umani erano uguali. La persona che gli permise di approcciare con prospettive differenti il suo mestiere fu invece John Martin, editore e amante della sterminata opera bukowskiana. Un assegno mensile fisso, l'agio di poter eliminare dalla propria vista il problema economico e un'approvazione piena, anche del mercato europeo, che dalla metà degli anni '70 lo lanciò al livello dei Miller e dei Mailer. Linda ne placò la cupio dissolvi e gli permise una vecchiaia serena. Nonostante la Tbc, i dolori e il conto, presentato in anticipo (o in ritardo, questione di punti di vista) a 73 anni. A sud di nessun Nord, ora Hank riposa. I compagni di sbronze, li guarda dall'alto, col bicchiere sempre alzato.


Avrà pubblicato anche la storia della sua morte? Da mesi non riuscivo a parlargli; rispondeva al telefono una voce femminile, forse era una governante, o un'infermiera, mai quella di Linda. Quando fecero a Venice un manifesto per la guerra del Golfo, Silvia Bizio, nostra comune amica, mi disse che Bukowski non andò, ma per la prima volta scrisse tre poesie contro la guerra. Le recapitò a Linda e Linda le lesse forte per lui. "Non stava bene", disse; e a Natale mandò a Silvia un biglietto di auguri, spiegando che Hank non era ancora guarito.
Voleva essere chiamato Hank; Henry non lo voleva perché glielo avevano dato i genitori, Charles era troppo solenne e poi quello preferito dagli editori. Questi erano Barbara e John Martin della Black Sparrow di Los Angeles, una piccolissima casa editrice di Santa Barbara nata nel 1966 quando Martin, allora capo di una ditta di forniture per uffici, vendette la sua collezione di "prime edizioni" e pubblicò il primo libro di un bevitore famoso, di quelli che bevono nei bar dei marinai, si azzuffano con tutti e finiscono a bere da soli distesi sul pavimento: era poesia esplicita e la prosa ricordava lo stile di Henry Miller. Martin gli offrì 100 dollari al mese perché lasciasse il suo lavoro di fattorino alle poste e lavorasse soltanto a un romanzo. Bukowski lo ascoltò e abbandonò l'impiego: alla fine di un gennaio telefonò dicendo che il romanzo era finito.
Con quella telefonata iniziò la sua carrira di scrittore e anche la fortuna dell'editore. John Martin così sintetizzò il loro incontro: "Il signor Rolls incontra il signor Royce". Intanto Bukowski si conquistò un pubblico facendo uscire qua e là frammenti e racconti sulle riviste che allora si chiamavano underground. La collaborazione più regolare fu quella con Open city, dopo quella al Los e al Los Angeles Free Press; su quel giornale tenne una rubrica chiamata Note di un vecchio sporcaccione che segnò il suo ingresso (1969) nella galleria di letterati della casa editrice di Lawrence Ferlinghetti, la City Lights Books. Il libro fu accolto con disprezzo dalla critica dell'establishment ma Bukowski aveva ormai un suo pubblico che lo andava ad ascoltare ai readings di poesia e non cercava soltanto in lui il "poeta" ma il "poeta maledetto".


*Ma. Pa, L'Unità, 9 marzo 2009

sabato 7 marzo 2009


Non cogliermi rami fioriti, oggi.

Non s’adombri il profilo d’una donna
col giallo intenso d’un fiore.
Si perde nel vento e
solleva la polvere
dell’ineguaglianza sociale.
Celebrare con un solo colore
l’essenza della donna
è dimenticarsi delle
sfumature e cancellare
il riflesso di luce che
erra nel Pensiero.
Celebrare un solo fiore è
il canto incompreso d’Antigone,
non rigenera vita, ma calpesta l’onore.

Non cogliermi quel ramo fiorito,
adesso.
Inventami fiori, dèttami poesie,
domani.

Alle donne che affrontano impavide le difficoltà della vita quotidiana, senza mai tirarsi indietro, senza mai abbassare la guardia.
Alle donne come Shirin Ebadi. L’Iran non è poi così distante, e la nostra fortuna è stata quella di nascere dalla parte opposta.
Alle donne che, con un vigore e un’energia sconosciute persino al sesso che si definisce ‘forte’, partoriscono figli che saranno il mondo di domani.
Alle donne che denunciano soprusi e violenze, ergendosi come rocce sulla stupidità di quelle bestie impotenti che alcuni osano addirittura chiamare ‘uomini’.
Questo è per voi.

Alle donne che sistemano all’orecchio la mimosa come una conquista da esibire in vecchie bettole dimenticate, e celebrano l’otto di marzo sull’altare della volgarità e della miseria concettuale: questo non è per voi. Perché è brindando col calice insulso dell’idiozia che acclamate al germe della disparità.
FEDERICA PASSARELLI

venerdì 6 marzo 2009

L'ottusità al potere

Per diverse ragioni, è lecito sostenere che Alemanno stia dimostrando incompetenza ed inadeguatezza nell'esercizio della funzione di sindaco capitolino. Non è all'altezza. E' occupato da responsabilità eccedenti le proprie possibilità espressive. E' un collezionista di gaffes. L'ultima è davvero disarmante e vale a svelare uno degli attributi più appariscenti della destra italiana di estrazione missina o clericofascista. Ebbene, il sindaco orgoglioso di ostentare una croce celtica, il sindaco dal braccio teso, il sindaco degli inchini devozionali ha finanziato, in occasione dell'8 marzo, la data per la promozione dei temi dell'emancipazione femminile, un concerto pubblico di Franco Califano. Si tratta di un artista carismatico che ha fatto del machismo una ragione di vita. Si è vantato di avere alla spalle una miriade di rapporti occasionali con un esercito di macchine sessuali. E' un convinto sostenitore delle ragioni del libertinaggio godereccio, dell'eros sciolto da inutili sentimentalismi. La destra italiana riconosce ottusamente nel machismo da bar o da officina uno dei suoi caratteri identitari. Qualche anno fa il padrone delle destre e del Paese dichiarò solennemente che i froci non possono non essere che di sinistra. Una ragazza precaria si trova in difficoltà? Sia tanto brava da sedurre un ragazzotto altolocato che la possa mantenere. Che le donne si dedichino all'uncinetto e ai fornelli, oltre che ai doveri coniugali, passatempi notturni. L'effeminatezza intellettuale se la tenga stretta la sinistra dei coglioni. La virilità romana, di estrazione imperiale, o la possenza celtica ereditata dai leghisti, è il segno di un'altra storia, di un'altra immagine sociale. Vincente. Califano è libero di cantare ciò che vuole. Ci mancherebbe. Ha il suo pubblico di fedeli seguaci. Finanziare un concerto di Califano per la rivendicazione del principio dell'emancipazione delle donne significa, però, non avere alcuna sensibilità sociale, essere accecati dall'ottusità propria dei militanti semianalfabeti di una sezione pontina dell'MSI degli anni '60.

mercoledì 4 marzo 2009

Caverna sommersa

Caverna sommersa
nel ventre molle del cosmo
àntro al neon
bivacco di pensieri sconfitti
miserie e solitudini
si consumano nell’animale tanfo
di orine desolate
mendicanti d'amore e d'onore
vendono il cuore
in un suk di indifferenze
sguardi sfuggenti si incrociano
nella noia dell’attesa di una cìcca
melodie balcaniche straziano i minuti
partorienti mani infanti tese sul nulla
un borgataro dilaniato dal cancro sociale
barcolla steso su mondi impossibili
commisera l’eterno ritorno del medesimo
elemosina carezze morali
accoglie capi pendenti
il prete polacco prende un obolo di passione
ha da dare un senso ai suoi giorni,
spesi in un culto démodé
ragazzini nordici ridono
ondeggiando fra Policlinico e Cavour
sbarco con i miei bagagli inutili
consumando pensiero e melanconia
su ciò che non si vede
sulla desolazione di pianti trattenuti
in attimi di promiscuità spirituale
Mi permetto di offrire un consiglio non richiesto al lettore sensibile e sognatore: se fossi in te leggerei il brano ascoltando al contempo le note di Streets of Philadelphia.

domenica 1 marzo 2009

Lettera aperta a
Roberto Vecchioni
di Federica Passarelli


Avrei voluto inseguire l’incantesimo delle tue parole d’argento, afferrarle con le mani ancora tremanti dell’adolescenza.

Fossi stata tua discepola, ora mi ritroverei compagna di viaggio di me stessa. Mentre ciò che posseggo oggi è solo l’ombra di un sogno che non mi passeggia accanto ma che mi precede in ogni movimento.
Ma non ho cambiato i versi della mia canzone: sono sempre gli stessi, quelli di allora. Solo, la musica ho lasciato che volasse nel vento.

Ho calpestato altre strade, quelle sì nere come la notte, le strade del senso unico, quel senso oscuro e ortodosso che io ritrovo ancora tra le pagine di vecchi libri composti sul vuoto forense di articoli infinitesimali.
Ma non sogno se ti dico che non ho perso. Vivo per le mie parole. Anche per quelle che sto scrivendo adesso.

E se ascoltando la tua canzone non ho avuto timore di commuovermi proprio come un’adolescente, allora davvero non erano fantasmi quelli che un tempo immaginavo scritti sulle pagine altisonanti del Mio libro vivente.

Ho trovato il tuo foglio ingiallito sulla mia scrivania, ho provato a riempirlo d’emozioni perché se è vero che i poeti spostano i fiumi col pensiero, è anche vero che possono completare una vecchia canzone con un unico, piccolissimo verso: grazie.