La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



sabato 25 aprile 2009

Le voci dell'autentica libertà
Opponendo resistenza all'ipocrisia dei governanti


Mamma adorata,

quando riceverai la presente sarai già straziata dal dolore. Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui. Non piangere Mamma, il mio sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande. Da Dita Marasli di Atene potrai avere i particolari sui miei ultimi giorni.
Addio Mamma, addio Papà, addio Marisa e tutti i miei cari; muio per l’Italia. Ricordatevi della donna di cui sopra che tanto ho amata. Ci rivedremo nella gloria celeste.
Viva l’ITALIA LIBERA !
Achille

Achille Barilatti (Gilberto della Valle)
22 anni, studente in scienze economiche e commerciali

Parma, 4 maggio 1944

Cari compagni,
ora tocca a noi.
Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria dell’Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.
Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.
Se vivrete, tocca a noi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.
La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.
Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

Giordano Cavestro (Mirko)
18 anni, studente di scuola media

Pochi istanti prima di
morire a voi tutti gli ultimi
palpiti del mio cuore.
W l’Italia

Domenico Fiorani (Mingo)
31 anni, perito industriale

Bologna, 19 settembre 1944

‹‹Topolino›› mio caro,

è il tuo papà che ti scrive, il tuo papà che ti ha voluto tanto bene anche se qualche volta è stato severo. Non mi vedrai più Mary ma non dimenticarmi. Ricordami spesso e con orgoglio. È la politica che mi uccide, ma tuo papà non è stato ladro né assassino.
Vogli bene alla mamma, te lo raccomando. Studia e fatti onore. I miei compagni non ti abbandoneranno.
Io ti benedico, Mary. Bacia la mia foto e prega per me. Ogni sera prima del sonno mandami un bacio.
Il tuo papà non piange, non piangere neanche tu.
Ama la mamma e la tua casa.
Conforta il dolore della mamma e baciala tanto per me.
Ti abbraccio forte e ti bacio
tuo papà

Arturo Gatto
36 anni, impiegato


Caro babbo,

vado alla morte con orgoglio, sii forte come lo sono stato io fino all’ultimo e cerca di vendicarmi.
Per lutto porta un garofano rosso.
Ricevi gli ultimi bacioni da chi sempre ti ricorda. Tuo figlio Vito

Salutami tutti quelli che mi ricordano.
VENDICATEMI

Vito Salmi,
19 anni, tornitore

mercoledì 22 aprile 2009

Il volo dell' Albatros


Ricordo l’ultimo anno di scuola, quello della maturità. Proprio questi erano i mesi in cui ci si tuffava in uno studio ‘matto e disperatissimo’ volto ad assimilare il più possibile concetti, nozioni e teorie da sciorinare il giorno della prova. Sarò impopolare, lo so, ma io ricordo con un tale affetto e con una tale nostalgia quei giorni di spensieratezza giovanile che il solo rievocarli mi ubriaca di emozioni. Come dite, vi sembra assurdo che si possano considerare tanto cari quegli ultimi mesi di scuola? Ebbene, vi parrà strano e mi considererete completamente folle, ma è proprio così! Quanto vorrei che gli adolescenti apprezzassero gli anni trascorsi tra i banchi scuola! Una volta lasciato cadere lo zaino dalle spalle il mondo assumerà tutto un altro aspetto. Sento sghignazzare qualcuno attraverso le pagine virtuali che hanno preso il sopravvento sulla carta stampata. E già. Tutto cambia e noi, quelli di allora, più non siamo gli stessi, declamava il mio buon caro Neruda.
Non voglio rubarvi altro tempo e quindi tento di arrivare al dunque. C’è una poesia che mi viene a trovare ogni anno durante i mesi di aprile, maggio; una poesia che aleggia su tutte le altre opere classiche della letteratura italiana, su Leopardi, Ungaretti e il mio amato Montale. Essa bivacca indisturbata nel mio cassetto dei ricordi e salta fuori a bella posta col suo accento francese quasi fosse questo l’unico modo possibile per onorare la mia mirabile insegnante di francese, quella che è rimasta nella mente e nel cuore.
L' Albatros, è la poesia. L’autore lo conoscerete di sicuro: un tale a nome Charles Baudelaire, padre dei tanto apprezzati quanto inaccettabili - perché scandalosi e provocatori - fleures du mal. Proprio quei fiori maledetti che sputavano in faccia al perbenismo della lirica tradizionale dell’epoca tutto il loro carattere antitetico all’idea della purezza e della bellezza a cui il fiore era stato da sempre costantemente associato.
Ecco a voi il poeta che, contrariamente alla consuetudine seguita dai poeti precedenti che anteponevano prefazioni in prosa alle raccolte poetiche, scrisse in versi la propria apostrofe al lettore, e lo fece non con l’intento di captare la benevolenza del pubblico ma di provocarlo con un elenco di vizi, peccati e rimorsi. Naturalmente le ipocrisie e le viltà di cui viene accusato il lettore sono condivise anche dal poeta, che proprio per questo può chiamarsi suo simile, fratello!
Non c’è più nulla da aggiungere. Il volo dell’Albatros farà il resto.


L’albatros
[Les fleures du mal, II]

Souvent, pour s’amuser, les homme d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule !
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid !
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait !

Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l’archer ;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.


Spesso, per passatempo, acchiappano i gabbieri
un di quei grandi albatri, uccelli d’altomare,
che, come pigre scorte, i nomadi velieri
sogliono sugli amari vortici accompagnare.

Sono appena deposti sul ponte che s’accasciano,
questi re dell’azzurro, con vergogna impotente,
e le grandi ali candide lungo i fianchi si lasciano
pendere come remi malinconicamente.

Il viator volante, com’è sgraziato e stroppio!
Lui, già sì bello, come laido e comico sembra!
V’è chi il becco gli stuzzica con la pipa, chi zoppica,
scimmiottando l’impaccio delle povere membra.

Poeta, anche tu abiti nel cuore della folgore,
sfidi i dardi, e sopra le nuvole t’accampi:
esule sulla terra, fra i dileggi del volgo,
nell’ali di gigante ad ogni passo inciampi!


* * *

E così, signori, se dovesse capitare di scontrarvi con un albatros marino non divertitevi a beffeggiarlo, a stuzzicarlo con la pipa della ragionevolezza, ad imitarlo zoppicando col passo incerto di un verso appena nato. Compatitelo, apprezzatelo: quando spiccherà il volo sulle grandi acque della vita lo seguirete, con lo sguardo, verso l’orizzonte che separa il cielo dalla terra.

lunedì 20 aprile 2009

La tradizione dell’orecchio italiano.
Concediamoci qualche minuto di svago; un attimo sacrosanto di distrazione dalle distruzioni dell’anima che ci derivano dalle notizie di cronaca e d’attualità. La parola d’ordine è: musica.
Si è conclusa, ieri sera, la lunga stagione canora andata in onda - in via eccezionale - sul primo canale (sulla rete ammiraglia, come s’esprime qualcuno) e che ha decretato vincitore un livornese di trentotto anni dalla capigliatura ‘shirleytempliana’ e dall’aria angelica e bonaria (o no?). Dall’altra parte, secondi classificati, tre trentini (e non è uno scioglilingua) che avrebbero buttato giù il palco dello studio televisivo se avessero avuto la possibilità di srotolare il loro estro sugli strumenti musicali che invece hanno dovuto, per regolamento, conservare ben chiusi nelle loro silenziose custodie. Dunque, due stili assolutamente differenti a confronto. Oserei dire: il diavolo e l’acqua santa. La tradizione contro l’innovazione. Non che il rock dei The Bastard sons of Dioniso sia una innovazione, intendiamoci. E’ da un bel pezzo che il genere rock ha fatto la sua comparsa nel panorama musicale mondiale. Intendo soltanto dire che sarebbe stata una vera innovazione se il pubblico italiano avesse attribuito la sua preferenza al rock bastardo dei tre ragazzi sbarcati dalla Valsugana. Naturalmente l’Italia ha optato per la tradizione.
Fortuna che non sia stato sempre così. Se Claudio Villa non fosse stato spodestato dal rivoluzionario Domenico Modugno saremmo ancora fermi all’esclamazione: Buongiorno, tristezza!
Non c’è dubbio, il prescelto è estremamente rassicurante, tranquillo, completamente a suo agio nel quadretto medioborghese della famiglia italiana. Non c’è dubbio, il vincitore ha una voce superba, schietta, pulita, perfetta. Troppo perfetta. Il suo inedito simile a mille altri, parente del pausinismo esasperante e poco originale, ed affine al tradizionalismo addormentato delle orecchie musicali dell’abbonato che occupa il posto in prima fila, su quella rete ammiraglia che resta attraccata alla riva sognando di scoprire nuove terre e di ammirare nuovi orizzonti. Impossibile che il sogno potesse interrompersi col grido all' Amor carnale dei figli bastardi di un mondo sconosciuto e lontano.

sabato 18 aprile 2009

Dalla parte di Vauro

La sua sospensione ha il carattere dell’intimidazione preventiva, espressione nitida di un’arroganza incensanta da cronisti compiacenti e da conduttori cortigiani. La tolleranza liberale della satira può essere intesa come uno strumento di valutazione delle libertà garantite dalla cassa risonanza governativa. Il regime dei berlusconiani non può tollerare le ingerenze, le domande scomode, l’autentica libertà di manifestazione pubblica di un’opinione, fosse anche irriverente; motiva il suo interventismo nei fori delle libere coscienze appellandosi a processi fantomatici di salvaguardia della Moralità, del pudore di Signora Decenza. È un trucco indecente, proprio del puttaniere che intende mostrarsi, uscendo da una basilica, in seguito alla messa domenicale, come il buon padre di famiglia. È difficile non richiamare alla memoria l’editto bulgaro del 2002. Si tratta di comportamenti recidivi, banausici e banali per le ripetizioni meccaniche che li motivano. È difficile non porre il casus della mortificazione che dovette subire Enzo Biagi, accusato di essere un criminale della comunicazione. È difficile non tornare indietro negli anni e risollevare la dignità con cui l’esimio Montanelli consacrò la propria libertà sull’abdicazione della direzione del Giornale, prima che quest’ultimo fosse snaturato nella Pravda berluscomica. È difficile non immaginare che i deliri di onnipotenza dei governanti delle libertà possano incatenare la lingua di qualche altro spirito libero.

mercoledì 15 aprile 2009

E lasciatemi divertire
(canzonetta)
A. Palazzeschi, 1910




Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie.

Bubububu,
fufufufu.
Friu!-Friu!

Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

Bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.

Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire...
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc...Huiusc...
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.

Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.

Certo è un azzardo un po' forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!

"Questi versi sono un esempio eloquente dell’atteggiamento dei futuristi nei confronti della poesia tradizionale. In modo polemico e provocatorio il poeta prende in giro chi, in passato, ha composto poesie serie, rispettando ogni regola. Palazzeschi rivendica la libertà di trasgredire tutte le norme. La poesia, dice, non ha più nulla da offrire agli uomini; i tempi sono cambiati, la vecchia poesia è morta: lasciatemi divertire!".


domenica 12 aprile 2009

I trafficanti farisaici della poesia


Ho sempre cercato, nei limiti delle mie possibilità, di promuovere le inclinazioni autentiche che caratterizzano la personalità delle persone che sono presenti nel mio entourage sociale. Ho sempre incitato la coltivazione delle passioni individuali. Ho incentivato progetti di autovalorizzazione dell’anima. Tutto ciò ha una ragione precisa. Sono un sostenitore di una concezione greca della felicità, in virtù della quale l’eudaimonìa è, nella nostra epoca delle tristi passioni, un antidoto efficace contro il contagio della svalutazione di tutti i valori (premessa alla dilatazione del deserto emotivo e all’inadirimento del cuore). In definitiva, sono convinto che la condizione del benessere psicofisico sia riconducibile, in ultima analisi, all’affermazione piena del daimon individuale, piuttosto che alla ricerca esasperata del senso, che ci è stata inculcata dalla nostra formazione giudaico-cristiana. Il daimon è ciò che si è, la propria virtù, il proprio talento.

Per queste ragioni, ho sempre sostenuto con convinzione di causa la creatività poetica di una mia amica. Si tratta di un’artista dotata indubbiamente di talento e di una vivida fantasia. L’ho sempre incoraggiata. Sono stato il lettore privilegiato ed esclusivo, per diversi anni, del romanzo della sua anima. Non volevo, in ogni modo, che la sua arte fosse destinata esclusivamente a promuovere il mio piacere intellettuale. Lo consideravo un abuso insopportabile, un onore immeritato. Le ho detto di creare per il mondo, riconoscendo in lei un architetto della bellezza. Condividiamo la passione per gli stessi poeti. Leggiamo Alda Merini ed altri cantori di Dio. Mi ha dedicato una splendida poesia che mi ha fatto sciogliere in un lago amaro di commozione: Poeticare.

È così che le ho detto più volte: “Devi assolutamente partecipare ai concorsi”, “Qualcuno prima o poi non potrà non notarti, ne sono certo”. Nell’estate di qualche anno fa, abbiamo conseguito il primo riscontro, un terzo posto e una pizza offerta. La invito ad insistere, a perseverare. Mi segue. Oggi l’ho incontrata per gli auguri pasquali. Mi ha detto di essere stata esclusa dalla premiazione di un concorso su cui avevamo riposto le nostre attese. Abbiamo scoperto che il vincitore è un tal Tizio, collaboratore ed amico di vecchia data del Caio organizzatore. Tizio ha tradotto un’opera di Caio dall’italiano in una lingua sconosciuta ai più: l’ha fatto per passatempo culturale, per riempire le giornate di senso e scendere dalle nuvole olimpiche. Sul sito di Caio c’è addirittura un link al blog di Tizio. Il concorso prevede un unico vincitore. Non poteva non essere Tizio. L’anno prossimo toccherà magari a Sempronio, che quest’anno si limita a figurare fra gli Alti Giurati, Sacerdoti della Poesia. In definitiva, è come se bandissi un concorso saggistico su Pieghe Libertarie, coinvolgendo fra i responsabili delle selezioni Federica Passarelli, il prof. Nonsochè, il dott. Taldeitali e qualche altra comparsa, e conferissimo, a nostro giudizio insindacabile, il lauro e i riflettori ad Anonimo Nonsochè.

Tizio e Caio sono due figurazioni dei trafficanti farisaici della cultura. Si tratta di eruditi, topi di biblioteca, che devono ricorrere a messinscene gesuitiche per comparire sui giornali ed arricchire un curriculum che sarà dimenticato anche dai loro nipoti. Sono patetici. Violano la seconda formula dell’imperativo categorico kantiano (“Agisci in modo di trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”). Tizio e Caio si sono serviti della mia amica e di altri ragazzi per allestire un teatrino delle marionette. Non lavorano per la cultura, vivono per il loro vano narcisismo, infuocato dalla consapevolezza indicibile del fatto che la loro vita ricurva su libri e fogli volanti non si convertirà mai in un lemma di enciclopedia.

Scosso da questa disavventura degli equivoci, ho ancora la forza di invitare la mia amica a tentare ancora di affermare, su altri palcoscenici, il proprio daimon.

venerdì 10 aprile 2009

CONTRO LO SCETTICISMO
Sull’inaffidabilità dei sensi e sulle ragioni dello scetticismo
di Mirza Mehmedovic

Ogni tesi scettica, ogni soluzione scettica in filosofia, ha la forma di una negazione, o di una privazione che ci avvilisce nello spirito:


- non possiamo dire se il mondo è come lo concepiamo.
- ogni inferenza sul futuro si basa sull’abitudine e non su un principio razionale, dunque nessuna delle inferenze sul futuro è razionalmente giustificata.
- non vi è nessun fatto relativo a me stesso per cui io possa dire con certezza che non mi sbaglio riguardo all’uso corretto delle regole di qualunque genere che quotidianamente applico.


Le dispute filosofiche sorgono spesso quando una forma di scetticismo si insinua in una qualche tesi ontologica o epistemologica, oltre che per ragioni di abuso linguistico, come direbbe Wittgenstein. Talvolta, nella storia del pensiero metafisico, l’atteggiamento scettico si è rivelato un utile strumento di indagine. Prendiamo il caso di Cartesio: se dubito di ogni cosa, prima o poi giungerò a qualche principio di cui dirò di non poter dubitare. Questa è una tecnica elaborata ad hoc poiché, come la storia della filosofia stessa suggerisce, attraverso le opere di Hume, quel principio a cui giunse Cartesio è un principio di cui si può ragionevolmente dubitare e tutt’ora si dubita. Quell’eredità che tuttavia sì è prepotentemente conquistata una nicchia nell’ecosistema “del puro ragionare intorno a” è ben rappresentata nel punto primo: non possiamo dire se il mondo è come lo concepiamo. La scienza sembra talvolta suggerire che lo scettico faccia bene ad avere grosse riserve nel sostenere che vi è conoscenza vera delle cose. Perché? Grosso modo per il seguente motivo: poiché la scienza ci rivela che i sensi funzionano da trasduttori, possiamo concluderne che ogni percezione del mondo è mediata e non immediata. Di conseguenza, qualunque sia lo strumento di indagine scientifica, vi sarà sempre uno scarto tra ciò che saremmo tentati di concludere intorno alla realtà delle cose e ciò che, nel nostro modo di percepire il mondo, noi effettivamente conosciamo mediante i sensi. Questo è quello che definirei un atteggiamento irrazionalista. Generalmente chi afferma la tesi scettica, lo fa per puro spirito dogmatico e non propone alcuna soluzione alternativa. Per lo scettico noi saremmo condannati per sempre all’ignoranza della verità. Chiamo questa una riformulazione più perversa del gesto di Dio nei confronti del popolo della Babilonia: Non solo un’incapacità di capire ciò che ci dice l’altro, bensì l’incapacità di cogliere il messaggio scritto nel “linguaggio della natura”. Leggendo le pagine di un articolo del professor Stanzione, mi imbatto in una breve e chiara formulazione dell’argomento anti-scettico proposto da W. V. O. Quine nel suo “Naturalized Epistemology”[1] e nella successiva riformulazione della tesi scettica di Stroud. Il professor Stanzione si esprime così:

La critica di Quine allo scetticismo classico si basa sulla tesi che, ricorrendo all’argomento delle illusioni, quest’ultimo di fatto presupponesse la scienza e la conoscenza del senso comune. In caso contrario, sarebbe stato impossibile per lo scettico definire illusorie certe percezioni – nonché false le credenze da esse ispirate. Ma, contro Quine, Stroud aveva riformulato l’argomentazione scettica nei seguenti termini: o la scienza è vera, e ci fornisce conoscenza, o non lo è. Se non lo è, nessuna nostra credenza scientifica sul mondo fisico ha valore conoscitivo. Ma se la scienza ci da conoscenza, quello che essa afferma sul ruolo svolto dai nostri apparati sensoriali nell’atto della percezione basta a dimostrare che non potremo mai stabilire se il mondo esterno è realmente come lo concepiamo. Dunque quel che siamo portati scientificamente a credere mediante la scienza non è vera conoscenza.[2]
Restando fedele al tema qui presentato, abbandoniamo lo scritto del prof. Stanzione e concentriamoci su quanto viene qui affermato. Quel che subito salta all’occhio di un osservatore attento è che la tesi di Quine ha, nella storia del pensiero filosofico, un precedente nel De rerum natura di Lucrezio. Il filosofo epicureo, nel libro quarto dell’opera si esprime così contro gli scettici:
Se qualcuno ritiene che nulla si sappia, anche questo egli ignora, se si possa sapere, poiché afferma di non saper nulla. Contro questo, farò a meno di entrare in contrasto, lui che da solo si mette i piedi in testa. Tuttavia, concediamogli pure di sapere questo, questa cosa soltanto vorrei chiedergli: se nelle cose nulla di vero ha prima saputo, donde sa cosa siano “sapere” e al contrario “non sapere”, quale cosa abbia creato il concetto di “vero” e di “falso”, e quale cosa ha dato la prova che “dubitabile” è diverso da “certo”. Scoprirai che dai sensi è stato, prima, creato il concetto di “vero”, e che i sensi non possono confutarsi: si dovrebbe difatti discoprire un che più affidabile, che sia in grado da solo di vincere il vero col falso.[3]
Inutile dire che quel qualcosa di più affidabile Cartesio credeva d’averlo trovato in Dio. Quello che più ci interessa delle affermazioni di Lucrezio sta nella fiducia che a suo tempo riponeva nella conoscenza empirica. La tesi che Lucrezio propone è così formulabile: se uno scettico afferma che nulla sappiamo, come può sapere questo, di non sapere nulla? Egli deve essere in grado di dirci da quale principio superiore ha tratto tale conoscenza. Non possiamo appellarci all’espediente dell’ente supremo, poiché rischiamo di giocare in modo ambiguo. Se, infatti, parliamo di scienza e vogliamo negare a questa che sia mezzo di conoscenza, dobbiamo rimanere entro i limiti della questione epistemologica, senza introdurre enti il cui ruolo non è epistemologicamente chiaro. Generalmente a questo punto le discussioni si trasformano in caotiche dichiarazioni di principio e la ragione indagatrice scompare in un alone di deliranti e misticheggianti deformazioni comportamentali. Che cosa possiamo sapere? Decidiamo di rimanere per terra: i sensi non possono confutarsi, solo certe affermazioni possono essere confutate dall’esperienza. Che cosa ci dice la scienza. Prendiamo la riformulazione di Stroud dello scetticismo. Mi prendo la briga di riformulare in due punti distinti le tesi:


- La scienza non è vera, dunque non ci fornisce nessun genere di conoscenza sul mondo.
- La scienza è vera, dunque essa stessa può mostrarci che non possiamo appellarci ai nostri apparati percettivi per concludere che il mondo è, o è diverso da, come lo percepiamo.


Non entro nel merito dell’analisi del prof. Stanzione e propongo una personale critica al ragionamento di Stroud. Dunque, quanto al punto primo, c’è da domandare questo: se siamo disposti ad affermare che la scienza è falsa, a quale principio dobbiamo appellarci per affermare che è falsa? Evidentemente, se siamo scettici, dobbiamo disporre di un criterio per stabilire ciò, ma se disponiamo di un criterio del genere, per applicarlo dobbiamo ancora affidarci al nostro apparato percettivo per compiere la valutazione, il che equivarrebbe ad un atto di auto-contraddizione per lo scettico, il quale nega, nel punto due, che possiamo appellarci ai sensi per dire qualcosa che sia oggettivamente vero. Così, a prima vista, si direbbe che lo scettico operi una distinzione non giustificata tra giudizi teorici e giudizi empirici. Sarebbe una questione meramente logica, decidere della verità o della falsità della scienza. Questo è assurdo. È vero che la scienza dispone di un notevole apparato teorico che è parte integrante dell’atteggiamento scientifico sperimentale. Ma da ciò non possiamo concludere nulla. Inoltre, come lo stesso Quine afferma, la scienza non è un blocco monolitico e, dunque, non può crollare in blocco. Non so quanto sia efficace questa affermazione sulla natura della scienza. In effetti sembra che lo scettico abbia a cuore una questione più sottile: qualunque sia la complessità della scienza, nell’insieme, considerando la verità del punto due, essa non fa alcuna differenza circa la Verità con la “V” maiuscola. Essa, cioè, non ci mette nelle condizioni di dire se il mondo è come lo concepiamo. Ora, a mio avviso, anche nel punto due si cela una contraddizione. Se, di fatto, la scienza ci può dire qualcosa di vero circa il nostro apparato percettivo, essa può dirci qualcosa di vero circa qualunque altra cosa, poiché, nella misura in cui essa ha accesso alla realtà nel rivelarci le proprietà che caratterizzano tali apparati, essa ha accesso a tutto il mondo delle cose. Lo scettico ha così fatto il nostro gioco: si è appellato ad un criterio accessibile all’indagine epistemologica e, non disponendo di un meta criterio, si è contraddetto o, per dirla con Lucrezio, si è messo i piedi in testa. Il lettore avrà la tentazione di pensare che, con quanto si è appena detto , lo scetticismo è senza speranza e che, dunque, la nostra conoscenza del mondo è genuina. Io penso che lo sia. Ma non basta mostrare la contraddittorietà dello scettico per fondare una solida fiducia nell’indagine scientifica.
Riassumendo quanto si è fin ora detto, possiamo dire che nel giocare al gioco che indaga le possibilità della conoscenza, dobbiamo disporre di criteri che siano coerenti con quanto è messo in discussione, che in altre parole non trascendano nel genere l’oggetto dell’indagine, fino a concedere la possibilità di formulare proposizioni “non decidibili”.
Altra affermazione che possiamo apprezzare del De rerum natura è questa: se nulla sappiamo, non disponiamo di alcun criterio per distinguere il significato di termini quali “vero” e “falso”, “sapere” e “non sapere”. Queste affermazioni sono straordinariamente importanti per la filosofia. Sembra imporsi prepotentemente l’idea per cui, se siamo in grado di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è conoscenza e ciò che non lo è, ciò lo dobbiamo ai sensi e all’indagine empirica mediata da questi.
C’è qualcosa di profondamente perverso nell’idea del noumeno, e le caricature che molti spacciano da tempo per conferme della realtà di ciò a cui non possiamo attingere mediante i sensi sono del tutto innocue. Le caricature hanno questa forma generalmente: se stiamo all’indagine scientifica, allora possiamo affermare con certezza che non avremo mai un accesso diretto a quegli enti che chiamiamo atomi, onde elettromagnetiche, onde luminose ecc. Spaventa ancor più, a mio avviso, il fatto che non ci si accorga del carattere metaforico della terminologia scientifica adottata. “Atomi”, che cosa sono? Poiché appunto non abbiamo un accesso diretto a quegli enti che chiamiamo atomi, come possiamo affermare di non avere alcun accesso ad enti chiamati così. Se non l’abbiamo, in verità non stiamo nominando un bel niente. Se, tuttavia, qualcosa stiamo nominando, dovremmo penderci per lo meno la briga di scoprire “che cosa” stiamo nominando. Ora, ho appena affermato che vi è un apparato metaforico di espressioni scientifiche. Nel nostro caso non per nulla esiste un modello della struttura atomica. “Atomo” sta con ogni probabilità, nel modo di parlare scientifico, più per un modello che non per una “cosa”, dal momento che non sappiamo se di “cosa” si tratti. Questa affermazione è lontana dalle nostre intuizioni. Gli esperimenti scientifici mostrano che questi enti esistono e che sono reali nel modo, grossolanamente detto, in cui sono reali tavoli, sedie, gatti e quant’altro. Sì, volendoci affidare ai nostri sensi, possiamo dire che qualcosa percepiamo, ma neghiamo che ciò che percepiamo sia l’ente stesso. Noi vediamo l’effetto, non la causa, quando guardiamo il rivelatore di un acceleratore di particelle. Che cosa voglio dire? Se siamo scettici, possiamo affermare che vi è un sostrato, reale, non indagabile mediante i sensi, che Kant chiamò noumeno e che si rivela davvero come trascendente la nostra capacità di osservazione. Trascendente? È curioso che si possa “parlare tanto di” e “costruire tanto mediante” questi enti, matematicamente e fisicamente indagati, poiché si supponeva per l’appunto che fossero trascendenti la nostra indagine. Come può qualcosa di inaccessibile essere oggetto di indagine, causare comportamenti talvolta irrazionali, essere impiegato per fare scienza? Con queste evidenze storiche possiamo riconoscere e valutare anche il peso dell’eredità Kantiana, senza togliere nulla ad altri illustri metafisici. Ad ogni modo: o il noumeno è altro da ciò che la scienza con fatica indaga, o è propriamente ciò che essa indaga. Se non è ciò che la scienza indaga, allora qualcuno deve darci un’indicazione di che cosa debba essere considerato noumenico, contraddicendosi. Deve altrimenti astenersi da giudizi affrettati, senza irrompere nella quiete della seria indagine, affermando a voce alta che ciò che è noumenico è insieme ciò che indaghiamo.
Colgo qui la palla al balzo per dire due parole sulle deliranti questioni relative al realismo di Putnam. In particolare, voglio avvalermi dell’espediente cartesiano dei cervelli nella vasca per scatenarmi ancora contro lo scetticismo – come spero, con la benedizione del lettore. L’esperimento mentale di Putnam può essere rappresentato nel modo seguente:
Immagina che la nostra condizione reale sia del tutto diversa da come la percepiamo/concepiamo. Siamo, in verità, cervelli in una vasca, posti lì da uno scienziato pazzo che li ha precedentemente estratti dai nostri rispettivi corpi, e che poi ha premurosamente alimentato e dotato di elettrodi capaci, mediante stimolazione elettrica, di procurarci l’illusione perenne di normale vita cosciente. Nulla nel nostro modo di fare scienza o filosofia cambia, poiché i limiti del nostro mondo sono definiti nel modo in cui siamo vittime di sogni incredibilmente vividi.
Non intendo questionare sulle capacità della scienza di arrivare a tanto, al punto da consentire allo scienziato un esperimento tanto perverso. Mi concentrerò invece sul messaggio. Putnam sostiene che il mondo esiste, ma possiamo non sapere se è come lo concepiamo. La nostra concezione, nel caso specifico, è completamente errata, se, pur constatando di mangiare, dormire, ballare e parlare, siamo oggettivamente cervelli nella vasca. La mia replica è la seguente. Quando Putnam afferma che potremmo essere cervelli nella vasca, è disposto ad ammettere che tutto ciò che sta accadendo, compreso il fatto di aver egli scritto un articolo in cui parla di cervelli nella vasca sia, in verità, un’illusione procurataci da uno scienziato pazzo, che tiene il cervello di Putnam e i nostri nella vasca? Se sì, come può Putnam non affermare che anche il suo esperimento mentale è il prodotto di uno stimolo elettrico indotto dallo scienziato? Se, ancora, Putnam afferma che è vero: anche il mio esperimento mentale potrebbe essere il prodotto di un’allucinazione, come potrebbe non affermare che anche quest’ultima valutazione è, in definitiva, il prodotto di uno stimolo artificiale? E così via, all’infinito, fin sulle alte vette dei crampi mentali. C’è poco da fare, o siamo cervelli nella vasca, e allora c’è uno scienziato che a sua volta si chiede se è un cervello nella vasca e che crede di controllare l’attività nervosa di altri cervelli nella vasca, o l’espediente stesso si rivela essere un ragionamento circolare. Se, infatti, siamo autorizzati a dubitare della nostra conoscenza, siamo automaticamente autorizzati a fare a meno di un qualunque criterio razionale e coerente di giudizio. Con ciò si può sostenere che lo scetticismo non può che cadere in disgrazia tutte le volte che si impone, talvolta per genuina riserva gnoseologica, talvolta per lasciare luogo all’ideologia.


[1] QUINE W. V. O., Epistemology Naturalized., in Quine W. V. O., Ontological Relativity and Other
Essays, New York, Columbia Univ. Press, 1969, pp. 60-90.
[2] MASSIMO STANZIONE, Epistemologia Evoluzionistica, in “Arco di Giano” 2005, n°43, p. 105.
[3] LUCREZIO, La natura delle cose, Giulio Milanese (a cura di), Milano, Arnaldo Mondadori Editore 1992, pp. 271-272.

Come i petali


Come i petali
che quando cadono a terra
non fanno rumore.
Come il buio tra le navate
di una cattedrale
quando non c’è luce che
s’insinui per i suoi vetri colorati.
Come l’incenso che purifica l’olfatto
dall’odore nauseante
del bigottismo impomatato.

Ed ecco s’allontana silente
il corpo magro di Nostro Signore,
così avvolto nella nube dell’indifferenza
che i suoi figli calpestano senza tacere.
Una Maddalena sospira,
e le lacrime bruciano il volto,
ma non c’è pietà nemmeno per lei:
una prostituta che si redime
non è talento riconosciuto.
Così t’hanno ritratta anche i pittori,
non sapevano che eri un’altra donna.

Qualcuno ha acceso una candela
sul davanzale della vita
e adesso sta ad osservare.
Prega e tremando
posa un ginocchio sulla nuda terra.
È solo un vecchio
che si prostra pietoso
dinanzi all’alto lume:
quei raggi riflessi
nel turibolo della sua anima
ardono ormai con un lieve
profumo di candore.

martedì 7 aprile 2009

R e q u i e m

Il cuore gonfio di pianto
si perde nei volti sfigurati dal terrore:
la terra ha scrollato le spalle ed ora
offre uno scenario bellico fatto di
sangue, polvere e detriti disordinati.

Un uomo s’avvicina
ai suoi piccoli con la razione
di pane quotidiano.
Sconforto lo assale
e le sue mani tremanti
trasudano lacrime amare:
la dignità di un padre
è dispersa per sempre
tra le macerie di una
esistenza caduta e rimpianta.
C’era una volta una
bambina che esercitava
la sua armonia
sui tasti amati di un
pianoforte.
La melodia l’ha rapita
e le sirene hanno coperto per sempre
quella musica dolce ormai lontana.
Non è più un campo spensierato
quello esteso sull’orizzonte non distante:
ecco, ormai ha perduto
i suoi colori naturali
e il verde ha lasciato spazio
alle sagome oscure
di molteplici feretri organizzati.

Eppure oggi è nato un bimbo,
immagine cara di speranza,
miracolo sacro della vita.
Fratelli, il vostro sacrificio
non scomparirà con i morti.
Essi hanno già avuto
la loro ricompensa
ma voi non siete soli:
è la solidarietà l’abbraccio
variegato esploso nel cuore
di una Nazione intera,
solidità di un cuore rapito
dalla volontà che compone
la sua rima nella parola Ricostruzione.
TERRA MATRIGNA

La catastrofe naturale della notte scorsa ha dilaniato, squarciandolo in profondità, con un boato di calcinacci, l'equilibrio sociale di una regione, violentando tante coscienze, tirate giù dalle alcove. Il Palazzo del Governo è stato devastato dalla furia folle dell'elemento della natura che consuma le nostre esistenze. Credo che sia intollerabile ciò che è accaduto per il Credente pronto a concedersi ai riti della Settimana Santa. Difficilmente il messaggio soteriologico della Pasqua sortirà effetti terapeutici, agendo da sedativo, per l'Osservatore attento degli eventi del mondo. Provo un autentico sentimento di pietas, di amore incondizionato per le vittime del non senso. L'aleatorietà della loro sofferenza segna uno scacco matto per ognuno di noi.

sabato 4 aprile 2009


giovedì 2 aprile 2009

S i l e n z i o

È solo uno sguardo.

Così immaginifica è la vertigine che sorvola
la sincopata marcia di un popolo,
di un popolo alla ricerca di un ultimo saluto
fatto di sguardi e di movimenti rotti,
rotti dal suono impervio che le scarpe lasciano
sulla pietra di un monumento sacro,
di un monumento acceso nel cuore turbato
dell’opera capitolina.
E mastichi la pura coloritura composta che
prosegue indomita e flessibile tra le
barricate gemellari della strada,
della strada lastricata di marcati porfidi sampietrini.
È solo uno sguardo.

Così salgono colonne di fumo come incenso
verso l’emisfero assoluto fatto di calce e sale,
mentre teste coronate di potenti (o uomini?)
piegano il vessillo all’utopia superiore,
un’utopia silenziosa che ora naviga incontrastata
verso le sembianze di un nuovo giorno.
E colui che raccoglie l’animosità di culture distanti
e credi opposti è solo un sognatore?

Il sonno eterno dell’Uomo Sacro,come squillo di tromba,
richiama la fede a mostrare un equilibrio,
un equilibrio fatto di mistero e di voci,
le voci nascoste nel cardine perfetto di un suono:
la voce della pace.
È solo uno sguardo.

Ciò che chiede il sognatore.

2 aprile 2oo5