La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



giovedì 27 agosto 2009

Siringhe di umanità disinfettata


Basta un attimo di distrazione per ritrovarsi ricoverato in una sala asettica d’ospedale. Non notare una piccola buca perforante il manto stradale di una via cittadina ne è una ragione sufficiente. Le deficienze amministrative spezzano le ossa. Un volo acrobatico – effetto catapulta – per ritrovarsi arreso al suolo trafitto da fitte di morte. Immagini opache, voci gitane di soccorso nel quartiere proletario. Dal sudore nero della strada assassina al neon indifferente del lazzaretto il passo è davvero molto breve.
Metto piede nel reparto dopo le nove di sera. Non c’è alcun bagliore di luce artificiale. Tutti dormono, c’è chi piange per la solitudine del suo dolore, una vecchia invoca disperatamente una mamma morta nel dopoguerra. Vincere la diffidenza del compagno di stanza richiede poche ore. In ambienti sofferenti ci si affratella con semplicità più scontata. La consapevolezza dell’emergenza favorisce la costruzione di legami filantropici. Solitamente vado a letto molto tardi, in ogni giorno della settimana. Coricarsi al termine del programma TV mi sembra una consuetudine da fallito o da travet incupito. Evado dal reparto. Uscendo noto l’unica fonte di luminosità: la corona della statua della Madonna posta accanto all’ingresso della sala infermieri. Ho avuto la tentazione disperata di staccare quella presa illusoria che – in quel preciso momento – era attiva solo per me, per sancire la mia autosufficienza dalle morali consolatorie, ma ho pensato bene di lasciar perdere, dacchè avevo le mani in fiamme e il cuore accasciato sul crinale della stanchezza. L’infermiera di turno non nota il mio passo clandestino. Passeggiare di notte per le corsie deserte di un ospedale di periferia è un’esperienza oltremodo filosofica. Non c’è nessuno a cui mendicare una sigaretta. Apologia della solitudine e del disincanto. In una struttura vocata ad una funzionalità razionalistica (l’apparenza architettonica lo lascerebbe intendere) non sempre tutto funziona come dovrebbe. Le operazioni non seguono sempre implicazioni meccanicistiche. Penso al tentativo che ha impegnato un alveare di infermiere obese: impalare una flebo nel mio piede sinistro. Sangue e chirurgia talebana. I miei occhi seguivano orbite celesti irregolari come se fossi stato un mistico medievale. Si sono decise poi - bontà loro - a squarciare il gesso dell’avambraccio destro. Rientro in corsia rassegnato a non chiudere occhio: il sonno profondo degli altri mi inquieta alienandomi. In corsia raccolgo diverse storie al neon. Dal momento che le gambe mi funzionano non riesco a domarmi e vado a caccia di cronache di vita disperata. Rientro sempre più tardi la notte in reparto. Due notti mi chiudono a chiave fuori bloccando anche la porta d’emergenza. Maledizione: mi devo scusare senza imbarazzo sostenendo che esco per non soffocare di torpore ed amuchina. Una notte, invece, l’infermiera di turno mi sguinzaglia alle costole le colleghe del PS perché c’è “un ragazzo che non si trova, che non è a letto”. L’ingegner Y è ricoverato per la frattura del femore. È una bellissima pianta ornamentale, che ogni tanto garantisce lampi di genialità. Gli hanno rapito la vita una ventina d’anni fa a Torino. Era ricoverato alle Molinette per via di una banale operazione di appendicite. L’anestesia è l'anticamera della discesa all’Ade, iniezione di un veleno che gli ha consumano il corpo sfumando progetti nucleari e le condizioni efficienti per avviare una promettente carriera ad alti livelli. Mi vede arrivare.
“Salve Dino”
“Buongiorno professore”
Con un movimento repentino delle dita mi lascia intendere che vorrebbe una cicca. Giro per tutto l’ospedale per procurargliene una. Dovevo garantirgli un attimo effimero di fottuta felicità.
“…accendere Dino accendere”
“Professore, è accesa, fumi pure”
Lo lascio a baciare il filtro, venerazione del passatempo.
Un addestratore di cavalli selvatici ha il corpo che è una cucitura di morsi terrificanti.
“Non sono mai caduto da cavallo in vita mia. Ho domato bestie che non avevano mai visto un uomo prima di me. Sono qui per una caduta accidentale in bagno. Esiste la sfortuna?”.
Ci sarebbero altre storie da raccontare. Non le posso presentare. Non voglio stuprare ferite ancora aperte e sanguinanti. Mi interessa la possibilità di fondare una comunità provvisoria sulla base della condivisione di valori altruistici e filantropici. Sono tornato in corsia pochi giorni dopo le dimissioni. Non ho trovato nessuno. Quelle storie sono evaporate nelle iniezioni della sera. Altri volti, solitudini da esplorare. La comunità perfetta può durare solo pochi giorni. Fuori è vita, pericolo subdolo, morte.

mercoledì 26 agosto 2009

DELL’IDENTITA’, DEL DESIGNARE IN KRIPKE E DEL PARADOSSO CHE IMPLICANO


MEHMEDOVIC MIRZA


In “Nome e necessità” il filosofo Saul Kripke ha sostenuto, relativamente all’identità, la seguente tesi: Possiamo sostenere l’idea che un oggetto fisico qualsiasi abbia proprietà essenziali intrinseche, proprietà che lo distinguono da altri oggetti fisici, anch’essi dotati di proprietà essenziali. Queste proprietà essenziali possono essere considerate necessarie: tali che un oggetto non possa esser definito “quell’oggetto” o “il medesimo oggetto” mancando di tali proprietà. Esse sono perciò identificanti; definiscono l’identità dell’oggetto in qualsiasi circostanza (mondo) possibile. Qualora all’oggetto sia dato un nome proprio mediante un atto pubblico di nominazione (battesimo iniziale), il nome assegnato diventa un “designatore rigido”, nel senso che designa quello e soltanto quello tra gli oggetti esistenti.

Sebbene oggigiorno si tenda a pensare che le tesi di Kripke siano senza dubbio valide, vorrei mostrare come sia possibile immaginare (ipotizzare) circostanze nelle quali il sostenerle porterebbe ad un paradosso scettico. Non si può nemmeno negare che Kripke abbia intravisto le difficoltà relative alla sua immagine dell’identità e della questione del significato, nondimeno sembra essere sfuggito a molti il carattere attualmente problematico della sua posizione logico-filosofica.

Per cominciare, vorrei far notare quello che dice Kripke in “Nome e necessità”:

Una formulazione rozza di una teoria potrebbe essere la seguente: ha luogo un “battesimo” iniziale; un oggetto può essere denominato mediante ostensione, oppure il riferimento di un nome può venir fissato mediante una descrizione. Quando il nome “viene trasmesso da un anello ad all’altro”, il ricevente del nome deve, secondo me, aver l’intenzione di usarlo con lo stesso riferimento di colui dal quale lo ha appreso. […] Si noti che lo schema che ho delineato non si può dire che elimini la nozione di riferimento; al contrario, considera come data la nozione di aver l’intenzione di usare lo stesso riferimento. (93, 94)

Ora, cosa significa “usare lo stesso riferimento”? Questa sarà la questione principale del presente lavoro. Abbiamo appena visto che Kripke ha riconosciuto che non si può pensare che l’uso corretto di un designatore rigido sia indipendente dalle intenzioni soggettive. Perché le cose stanno in questo modo cercheremo ora di chiarirlo. Parlare, nominare, riferirsi a sono attività che riguardano propriamente l’uomo. Non è, tuttavia, superfluo soffermarci sulla problematicità di tali dinamiche, proprio perché, in primis, sono i filosofi coloro che tendono a intorbidire le acque calme della ragionevole coerenza. Immaginate un insieme di situazioni di ostensione o riferimento tipiche: molte persone tutte le sere alzano lo sguardo al cielo ed esclamano: “la Luna stasera è fantastica”, “stasera la Luna è rossa” (mi servirò preferibilmente dell’ “L” maiuscola per indicare l’uso nel modo preciso in cui lo intende Kripke; “Luna” è, perciò, un designatore rigido). Essendo la Luna un oggetto fisico è plausibile pensare – sosterrebbe il filosofo – che esso abbia certe caratteristiche peculiari e necessarie, nel nostro caso, di quell’unico oggetto in questione. Da tali proprietà possiamo dedurre con certezza che qualunque corpo non abbia le medesime proprietà essenziali non può essere quel medesimo corpo. La Luna, con ciò, nel linguaggio di Kripke, è necessariamente la Luna. Averla battezzata “Luna” ci mette nelle condizioni di designare l’oggetto senza confonderlo con un altro, a patto di sapere quali siano le sue proprietà necessarie identificanti e a patto di sapere quali sono le condizioni sufficienti e necessarie indispensabili perché il riferimento abbia davvero luogo. Come lo stesso filosofo afferma: “Devono quindi venir soddisfatte altre condizioni per poter rendere questa una teoria del riferimento veramente rigorosa”(91). Intanto è implicito che è una verità a posteriori necessaria che l’oggetto così e così sia la Luna, e non un altro oggetto (nel caso di Espero e Fosforo ciò che credevamo di quei oggetti non era condizione sufficiente e necessaria alla loro identificazione, mentre una scoperta empirica lo è stata). Non si deve pensare che sia sufficiente applicare il principio per cui ogni oggetto è se stesso e non un altro, poiché tale astrazione logica non soddisfa le condizioni imposte per una teoria del riferimento “veramente rigorosa”. Devono essere note certe caratteristiche empiriche perché si possa dire: quella è la Luna. Essendo la questione empirica, stiamo affermando una certa fiducia nel sapere empirico, inteso come fonte primaria del vero sapere.

Ipotizziamo e descriviamo adesso uno scenario particolare, introducendo nel mondo, o fuori di esso, l’Ente perfettissimo. Supponiamo che, contro le aspettative di Einstein, Dio sia un giocatore e che – caso vuole – giochi proprio a dadi con la realtà a noi nota. Il suo gioco, per così dire, è il seguente: Crea un oggetto fisico in tutto e per tutto identico alla Luna. Per “identico” intenderemo un oggetto essenzialmente identico alla Luna. Dio poi sostituisce un corpo con l’altro, nascondendo quello fino a quel momento presente in cielo. Invita, quindi, la comunità degli scienziati e propone di stabilire se l’oggetto presente nello spazio sia o meno la Luna. Il gioco lo chiameremo “INDIVIDUA L’OGGETTO DELLE TUE CREDENZE”. Le ragioni per cui introduciamo il termine “credenze” nel titolo sono dovute a certi fatti relativi al metodo scientifico. Intanto concentriamoci sulla scommessa. Dio scommette che l’uomo non può dimostrare in alcun modo che quell’oggetto è la Luna e che nessun altro oggetto lo è. Gli scienziati fiduciosi nel proprio metodo concludono, in seguito ad accertamenti scientifici, che quella è necessariamente la Luna. A quel punto però Dio “tira fuori” l’altro corpo fisico e domanda: confrontate questi due corpi, di cui quello che solo ora vi ho mostrato è l’oggetto che avete sempre osservato nello spazio e ditemi: quale criterio avete a disposizione ora per dire che “questa è la Luna e che quest’altra non lo è? Nel fare questa seconda mossa, Dio mostra il proprio trucco, o almeno quello che di primo acchito chiameremmo trucco. Infatti, nessuno tra gli scienziati sta pensando all’oggetto esaminato come alla Luna “che tutti conoscono”. Nonostante ciò, nessuno di loro può dire di disporre di un criterio di analisi oggettivo che permetta di affermare con certezza che uno è l’oggetto in questione e l’altro no. Le Lune sono in tutto e per tutto identiche, salvo per il fatto di essere due oggetti spazio-temporalmente distinti.

Supponevamo, ricordando la nota di Kripke, che certe condizioni andassero soddisfatte perché quello che chiamiamo “riferirci a” fosse sostenuto da una teoria rigorosa. In effetti le cose stanno ancora così. Solo che ora non possiamo affidarci all’ipotesi iniziale: che le proprietà essenziali siano le uniche in grado di metterci nelle condizioni di salvare la nozione di identità e, di conseguenza, la teoria causale del riferimento. Per quanto vi sforziate nella ricerca di un criterio indipendente dall’atto di fare riferimento secondo certe intenzioni, la vostra ricerca sarà vana. La risposta che gli scienziati possono fornire è: non ci sono condizioni sufficienti e necessarie che ci permettano di dire quale oggetto è la Luna senza con ciò mettere in gioco noi stessi in quanto parlanti. Si insinuerebbe con ciò una tesi psicologica: l’oggetto tenuto nascosto è la Luna poiché è l’oggetto che storicamente riguarda la totalità dei nostri atti di osservazione. L’aver rivelato il “trucco” è servito soltanto a completare il puzzle della totalità delle credenze di cui disponiamo relativamente al corpo chiamato “Luna”.

Quando abbiamo deciso di sostenere l’immagine fornita da Kripke, abbiamo semplicemente pensato di ignorare il ruolo che abbiamo in quanto soggetti nell’indagine empirica. Tuttavia, come ben sapete, l’indagine empirica è propriamente un’attività la cui natura implica una relazione tra soggetti e oggetti. Quando poi, sebbene impotenti, abbiamo “accettato di giocare a dadi con Dio” scommettendo sulla validità di una certa tesi, abbiamo capito di non disporre di criteri sufficienti capaci di corroborarla. Ignari di eventuali possibilità alternative dobbiamo perciò concludere: l’identità oggettiva ha a che fare con il rapporto soggetto-oggetto e il grado di conoscenza del primo relativa al secondo. Se le proprietà essenziali sono, in ultima analisi, tutto ciò di cui disponiamo per parlare di identità in termini di necessità, dobbiamo allora tenere presenti le possibili implicazioni paradossali. Il nostro paradosso è, come già osservato, il seguente: non esiste un criterio, o un insieme di criteri, indipendente dai parlanti che ci mettano nelle condizioni di distinguere un oggetto da un altro, qualora perfettamente identici, di modo da poter decidere qual è l’oggetto di cui parliamo. Non abbiamo ragioni sufficienti dalla nostra per affermare che “questa è la luna, quest’altra non lo è”, “questo è l’oggetto di cui parlavamo, quest’altro no”. L’uso del passato non è casuale, poiché nella situazione presentata il presente riguarda gli atti di ostensione e, quindi, la presenza dell’oggetto di cui si ha l’intenzione di parlare. Qualora decidessimo di affidarci ai criteri descritti da Kripke, dovremmo per lo meno tener presente che il farlo implica negare il ruolo del soggetto nell’osservazione. D’altra parte se facessimo il contrario cadremmo in contraddizione. Quello che non ci piace è pensare di dover affermare una tesi psicologica: la Luna è quest’oggetto che ricordiamo e che ricordiamo di avere analizzato, di cui conosciamo certe proprietà ecc. Il paradosso wittgensteiniano è in qualche modo connesso con questo modo di vedere le cose: non c’è un fatto relativo a me stesso che mi permetta di affermare con certezza che l’oggetto osservato è la Luna. Suppongo che Kripke abbia compreso sufficientemente le implicazioni derivanti dal paradosso di Wittgenstein, cosicché quello che abbiamo voluto qui fare è consistito nel mostrare le conseguenze paradossali implicite nel tener per buona l’ipotesi secondo cui le proprietà necessarie sono 1) indipendenti da noi e 2) necessarie all’identificazione di un oggetto. Necessarie forse, sufficienti, come abbiamo osservato, certamente no. Per concludere vorrei far osservare che questa ipotetica sostituzione oggettiva “della Luna con la Luna”, implica una estensione dell’applicabilità del principio di sostituibilità salva veritate. In filosofia del linguaggio tale principio è impiegato per sostenere la tesi per cui sarebbe possibile sostituire una parte di una proposizione con un’altra “salvando” la verità della proposizione espressa (possiamo sostiutire, ad esempio, "Espero è Fosforo" con "Espero è Venere"). Quella che abbiamo salvato con un certo grado di certezza, almeno entro i limiti del metodo applicato, è proprio la verità: la verità per cui l’oggetto nello spazio è la Luna, nel senso oggettivo voluto da Kripke. Tale convinzione, tuttavia, non può dirsi salda una volta imboccata una certa via: se ci sono ragioni per ritenere che un oggetto sia sempre lo stesso, esse non riguardano certo l’oggetto in sé. Il paradosso rivela proprio questo: entrambi gli oggetti soddisfano i criteri adottati, il che è inacettabile per qualunque teoria che voglia spiegare che cosa è "riferirci a" o "nominare". Quel che ci rimane è la componente soggettiva la quale, come abbiamo visto, corrobora piuttosto una tesi psicologica: abbiamo ragione di credere con un certo grado di "ragionevolezza" che l'oggetto cui ci riferiamo è l'oggetto delle nostre credenze, cioè quell'oggetto che ha storicamente impressionato i nostri sensi. Concluderò il discorso con una domanda: è plausibile sostenere una tesi psicologica per gettare le basi di una teoria del riferimento in cui le credenze dei parlanti giochino un ruolo causale ineliminabile?



sabato 15 agosto 2009

Il guardiano furente di San Lorenzo


Nel pomeriggio ferragostano mi torna in mente un episodio capitatomi ormai qualche settimana fa. Viaggiavo in bus, alla volta di Roma. Quando mi capita di affrontare viaggi in corriera – per abitudine di liceale ribelle – tendo sempre ad occupare l’ultima, lunga fila delle postazioni. È un modo come un altro per stare un po’ con se stessi, magari accavallando le gambe, o distendendo le spalle sul finestrino laterale. Quel giorno l’intento non riuscì perfettamente, dal momento che – avanzando per il corridoio centrale del bus – il mio sguardo non aveva colto la figura esilissima di un giovanissimo ragazzo, rintanato nell’angolo estremo, inaccessibile, dove avrei voluto rifugiarmi io. Ormai il gioco era fatto, e non mi sembrava il caso di tornare sui miei passi per scomodare qualche vecchietta o qualche studentello di campagna che se la tira per i suoi studi capitolini.



Chiedo al biondino dallo sguardo di ghiaccio: “Ti spiace se mi siedo qui?”.
Senza guardarmi, continuando a fissare le sue galessie di noia, mi dice: “Fa pure, prego prego”.
Tiro fuori dalla saccoccia uno dei miei romanzi dai titoli impossibili. Non gli risulto indifferente. Tenta di capire cosa diavolo stessi leggendo. Capisco che vuole parlare.
Pochi istanti dopo, infatti, mi tira fuori dal vortice delle mie letture desolanti, dicendo: “Quanno ce vò pe arrivà a Tiburtina?”
Inizio a fare alcune considerazioni. Credo che sia un ragazzo che non ha avuto la fortuna di studiare, di appassionarsi alla pratica della conoscenza. Capisco che non devo esprimermi – come solitamente faccio – con un linguaggio eccessivamente barocco. Per non risultargli ostile, per non marcare differenze e pregiudizi.
“Guarda, fra un’ora e mezza dovremmo essere lì, ammesso che non si resti imbottigliati sul Grande Raccordo Anulare”.
“Che palle! Porca troia! Senti un po’, che stai a legge?”
Non oso rispondere compiutamente alla sua innocua domanda. Come farei a presentare il senso della mia lettura, così sofisticato e ricercato, ad un ragazzo completamente appartenente ad un altro mondo?
“Sai. È un romanzo che ho iniziato l’altra notte, niente di che”.
“Che fai nella vita?”
Come spiegargli gli anni dedicati allo studio di Leibniz, i miei progetti di ricerca? Chi è mai Leibniz poi per il fanciullo dallo sguardo spento, un terzino del Werder Brema o un centrocampista dello Shalke 04?
“Collaboro con l’Università, lì a Villa Mirafiori sulla Nomentana. Conosci la zona?”
“Quella è una zona tranquilla. Io non sò de Roma. La ce sta mi madre. Io faccio avanti e dietro. Mia madre sta a San Lorenzo. Conosci?” Annuisco “…e mi padre sta a Campobasso”.
Banalmente chiedo: “Dove ti trovi meglio, a Roma dalla mamma, o col papà in Molise?”
“In Molise non si fa un cazzo dalla mattina alla sera. Tutto è morto. Tutto è noia. Mi scogliono e non vedo l’ora di tornà a Roma. Là si che ce sta er casino. Ogni sera una storia. La se batte…”
Sorrido imbarazzato. “Ah capisco”
Mi volto un attimo per fissarlo. Ricambia lo sguardo con freddissimi e tristi occhi di cristallo, spenti, spettrali, stupendi. Noto che le sue braccia sottilissime, il suo collo slanciato sono una ricucitura di cicatrici. Capisce la mia perplessità.
“Non te devi meraviglià. Ogni notte è na battaglia. Io cogli amici miei difendo San Lorenzo”
“Cosa c’è da difendere? È un quartiere pacifico. Cinesi, latinoamericani e slavi convivono pacificamente”.
“Tu che ne sai? Ce vivi pe caso? Ce giri de notte? Viette a fà un giro e po’ ne riparlamo”. Finge di utilizzare il cellulare. “Noi dobbiamo strappare le palle ai rumeni. Questo è quello che dobbiamo fà. Sò cattivi, stronzi, delinquenti”.
“Ho capito. Se dovessi batterti con qualche ragazzo armato di taglierino, rischi di rimetterci le penne, cerca di stare attento”.
“Io sono forte”.
Sono sorpreso da quello che sto scoprendo. Tento di indagare un po’, ma il ragazzo è scaltro, capisce il mio gioco di consenso dissimulato e si chiude.
“Quanti siete? Siete organizzati?”
“Avemo l’associazione”
“Quanti siete?”
“Non lo so, e che cagna?”
“Niente, niente, tranquillo”
Non mi va più di parlare con lui.
Spingendomi oltre, riesco soltanto a chiedergli: “Tua madre cosa ti dice quando ti vede rientrare a casa in quelle condizioni?”
“Lavora di notte, non mi vede e poi non se ne frega un cazzo”.
Capisco che devo troncare la conversazione. Sprofondo nuovamente nella lettura. Alla Stazione Tiburtina, posso richiudere il romanzo, ormai concluso. Sono stanco, oggi più che mai.
Sto per scendere. “Che fai stasera, vieni a San Lorenzo?”
Oh my God, il nazista mi vorrebbe con sé. “No, torno a casa”
“Cerca di venì”
Sorrido
“Buona fortuna, professò!”
“Ciao . . . ” Resto allibito, non vedo l’ora di farmi assorbire dall’indistinzione della metropolitana, per sparire nelle viscere dell'Urbe. Luci al neon sul fallimento delle nostre ore.

mercoledì 12 agosto 2009

Война и мир


Quando si dedica del tempo alla lettura di un libro e in special modo quando il libro presenta tutte le fattezze di un capolavoro letterario, di un’opera d’arte della letteratura mondiale, quando dunque si dedicano quaranta giorni alla lettura di tal genere di composizione, inevitabilmente, quasi senza esserne consapevoli fino in fondo, si subisce l’influenza subdola e pure curiosamente gradevole di tutti gli avvenimenti, di tutti gli intrecci e di tutte le matasse districate che le pagine laboriose scaturite dalla penna dell’autore sciorinano nella fantasia del lettore.
S’instaura così un tale legame di complicità, di strizzatine d’occhio tra scrittore e lettore che par quasi, senza esagerare, che tutti i personaggi descritti con minuzia di particolari, saltino fuori dalla carta stampata per far sì che il loro ricordo non svanisca nel momento in cui, terminata la lettura del libro, se ne chiudono per sempre le pagine schiacciando gli ologrammi dei protagonisti come fossero fiori messi ad essiccare tra i pesanti volumi rinchiusi nella libreria.
Anche stavolta non potevo esimermi dal fenomeno appena descritto. Devo inoltre aggiungere che anche stavolta non solo i personaggi d’autore son saltati fuori dalla carta stampata, ma con mio vivo stupore sono stati talmente bravi da coinvolgermi nelle loro vicende private, che anche lasciando il libro da parte e mettendo il naso fuori di casa ho immaginato d’incontrare per strada la figura incarnata di Nataša, di Pierre o di Andrej. Mi son trovata, a volte, ad osservare un viso piuttosto che un altro perché magari vi riscontravo l’anima di un personaggio, le sofferenze di quel protagonista, le gioie e le paure dello stesso autore che, acutamente, le aveva sistemate ben bene sotto il velo di un nome diverso dal suo.
Quando tutto ciò accade non è merito dell’oppio (non ne faccio uso) e neanche del sonno etilico; quando tutto ciò accade la responsabilità è da attribuirsi al genio di uno scrittore che in quest’ultimo mio viaggio letterario corrisponde al patronimico di Lev Nikolevič Tolstoj.
Il romanzo intorno al quale sto tergiversando da oltre dieci minuti è il famosissimo Guerra e pace, mostro sacro della letteratura mondiale. Naturalmente non ho alcuna intenzione di star qui a far l’elogio di un libro che tutti conoscono e di cui chiunque può trovare notizie, dritte e quant’altro nel vortice informativo di Wikipedìa. Su questo libro è stato detto tutto, sono state persino girate diverse pellicole cinematografiche (che evito di guardare per non stravolgermi quel gusto di esclusività che traggo dalla ‘mia’ fantasia piuttosto che da quella di un regista qualunque), e dunque non è mia volontà ripetere pedissequamente che “sullo sfondo di grandi avvenimenti storici (battaglie di Austerlitz e di Borodino, incendio di Mosca) ove campeggia la figura di Napoleone, quale idolo polemico dell’autore, si inseriscono le vicende delle famiglie Bolkonskij e Rostov, appartenenti all’alta società russa”. E nemmeno approfondirò le mie ricerche su quello che è il filo conduttore di tutto il romanzo: la rassegnata sottomissione alle circostanze, all’ordine delle cose, alla volontà del destino. “E continuava a compiersi quella terribile cosa che non si compie per volontà degli uomini, ma per volontà di chi regge le sorti degli uomini e dei mondi” (Libro III, Parte seconda, Cap. XXXIX). No, niente di tutto questo.
Solo mi piace osservare come nel titolo dell’opera possa ‘anche’ eventualmente rintracciarsi il percorso psicologico, di maturità spirituale dei personaggi che più di altri emergono per la loro personalità, per le loro complesse interiorità.

Dopo aver cercato la realizzazione dei suoi sogni di gloria, ferito mortalmente sul campo di battaglia di Borodino, il principe Andrej trova la pace interiore, la verità della vita: “Sì, mi si è svelata una felicità nuova, inseparabile dall’uomo […] Una felicità che si trova al di fuori delle forze materiali, al di fuori delle influenze materiali che agiscono dall’esterno sull’uomo, una felicità che è solo dell’anima, la felicità dell’amore!…”. Il principe Andrej appartiene a una nobiltà fortemente selettiva che crede in valori autentici e a scarsi contatti con l’alta società e la corte, la cui frivolezza e corruzione sono estranee, ripugnanti: l’irritazione, il fastidio per l’ambiente che il suo grado e il suo titolo lo costringono a frequentare lo spingono a partire per la guerra. Cerca la gloria, invidia la sorte di Napoleone, cerca la sua Tolone. Guidato da un forte egoismo intellettuale, crede in un futuro di eroico combattente, ma trova il vero eroismo nel semplice capitano Tušin, che gli dà una grande lezione morale. Ferito ad Austerlitz, guardando il cielo “lontano, alto, eterno”, capisce la nullità, la vanità della gloria (anche quella di Napoleone che si ferma accanto a lui e ne ammira il coraggio). Sarà infine la morte a riaffermare nel principe Andrej la vita e ad insegnargli a superare l’orgoglio, l’isolamento, ad accettare la legge del perdono, l’amore per l’umanità. I suoi ultimi pensieri saranno infatti: “L’amore si oppone alla morte. L’amore è la vita. Tutto, tutto quello che io comprendo, lo comprendo perché amo. Tutto è, tutto esiste soltanto perché amo. L’amore è Dio e morire significa per me, particella d’amore, tornare alla fonte universale ed eterna”.

Nataša, uno dei personaggi tolstoiani più affascinanti, dopo gli smarrimenti e gli errori giovanili, raggiunge, attraverso il dolore, l’equilibrio interiore e si avvicina ai valori fondamentali della vita riuscendo a trovare la serenità nell’amore e nel matrimonio. Il cambiamento interiore di Nataša si rifletterà anche sul suo aspetto esteriore: prima esile, delicata, fasciata dal candore adolescenziale, viene poi descritta come “una femmina forte, bella e feconda”. Ella sentiva che il legame col marito si basava su qualcosa di non definibile, ma forte, come il legame della sua anima col corpo. Nataša è la gioia di vivere. La gioia di vivere nonostante il dolore e le sofferenze.

E infine, Pierre. Non nascondo a questo punto la mia predilezione per un personaggio superbo che sin dalle prime pagine viene descritto in maniera tale che il lettore non può davvero non avvertirne subito una certa simpatia, un sincero affetto e un vago senso di timore per la sua imponente figura.
Incapace di adattarsi alla facile esistenza che la sua immensa fortuna gli permetterebbe, al fine di dare un senso alla propria esistenza compie una serie di azioni sfortunate: ma non è operando sul piano pratico che Pierre troverà la soluzione, bensì nella scoperta in se stesso della “fede nella vita” e nella conquista della propria umanità.
La domanda che rincorrerà Pierre per tutto il libro è: qual è lo scopo della vita? Perché? Armatosi del suo 'cannocchiale intellettuale' Pёtr Bezuchov guarda in lontananza “dove ciò che era così meschino, quotidiano, occultandosi nelle lontananze nebbiose, gli pareva grande e infinito solo perché lo si vedeva confusamente […] Ora invece aveva imparato a vedere il grande, l’eterno e l’infinito in tutto e perciò, per vederlo, per godere della sua contemplazione, in modo del tutto naturale aveva gettato via il cannocchiale con cui sino ad allora aveva guardato al di sopra delle teste degli uomini, e contemplava con gioia intorno a sé la vita eternamente mutevole, eternamente grande, incomprensibile e infinita”.
Assolutamente geniale la penna di Tolstoj quando imbratta i fogli con una simile uscita: “Improvvisamente Pierre scoppiò a ridere colla sua risata grossa e bonaria, così forte che da varie parti gli uomini si voltarono a guardare in direzione di quella strana risata, evidentemente solitaria. – Ah- ah-ah! rideva Pierre. E disse ad alta voce a se stesso: - Il soldato non mi ha lasciato passare. Mi hanno acchiappato, rinchiuso. Mi tengono prigioniero. Chi, me? Me, la mia anima immortale! Ah, ah, ah!… Ah, ah, ah!…- Rideva con le lacrime agli occhi”.

Tutt’e tre son dunque passati attraverso uno stato d'insofferenza e d'insoddisfazione per poi giungere ad un’altra ben diversa condizione: di realizzazione, di gioia, di maturità spirituale.
Il passaggio dalla guerra interiore alla pace con se stessi.

Guerra e pace, 1865-1869

martedì 11 agosto 2009

Fenomeni di stanchezza


Fra i momenti migliori che conosco è quando ho appena lasciato un invito, quando sto seduto nella mia macchina, chiudo la porta ed inserisco la chiave, apro la radio, accendo una sigaretta con il lighter elettrico, poi innesto la marcia, il piede sull'acceleratore; gli esseri umani mi affaticano, anche gli uomini. Per quel che riguarda il sentimento, non me ne importa niente, come già detto. Qualche volta ci si lascia andare, ma ci si riprende. Fenomeni di stanchezza! Come nell'acciaio. I sentimenti, ho notato, sono fenomeni di stanchezza, nient'altro, per lo meno in me. Si è giù di corda! In tal caso non serve a niente scrivere lettere per non esser soli. Non cambia niente; dopo si sentono ancora solo i propri passi nella casa vuota. O ancor peggio, quando questi radioannunciatori che fan le lodi di un lievito in polvere, di biscotti per cani, che so io, poi ad un tratto smettono: arrivederci a domattina! E invece sono solo le due. Allora gin, sebbene a me il gin non piaccia, tanto per bere, e voci dalla strada, clacson oppure il rombo della sotterranea, ogni tanto il rombo di aerei, fa lo stesso. Mi capita allora di addormentarmi cosi, col giornale sulle ginocchia, la sigaretta sul tappeto. Mi riscuoto: a che pro? Da qualche parte un programma notturno di sinfonia, che spengo. Che altro? E allora sto li, col bicchiere di gin, che non mi piace, e bevo; sto fermo, per non sentire dei passi nel mio appartamento, passi che sono soltanto i miei. Tutto ciò non è tragico, solo faticoso: non si può dire buonanotte a se stessi . . .

M. FRISCH, Homo Faber. Un resoconto, trad. di A. Rendi, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 85-86.

lunedì 10 agosto 2009


Frammenti


C'è uno stereotipo


vivo nel comune sogno


ma per sentieri imbattuti




Attimi il candore del mattino un sorriso


voce del silenzio la luna


un pensiero attimo d'evasione




Passerà la domenica


l'abitudine imbrunirà


una riflessione indesiderata




L'azione morale scomoda


sospettosa è lo schiaffo rosso


alla demagogia delle menzogne




Una coda per il carro


dei trionfi smaccato


Te Deum




Sono poeta per poco


dubito partecipo sogno


insegno apprendo ma non conduco




Il cielo è coperto


dal dubbio simpatico


di dover far qualcosa senza volerlo




Mc Donald


disgusto alimentare


di una digestione forzata




L'informazione è in vendita


presso il mercato della corruzione


PS Ingresso riservato a selezionati Il Governo




Piove senza tenebre


la dialettica esistenziale


piacere e tedio
La Musa addormentata

Dolce nella sua indolenza l'alba triste

spegne l'alienante costruzione di mondi

retta dall'inconoscibile sogno di esistenze fragili

il corpo lascia la metafisica effimera dell'immagine magica

Tesa anch'essa fragile la fune dei pensieri

sostiene la comparsa dell'animo giocoliere

sul nulla eterno dell'abisso siderale

Come scenici intrecci consumano il nodo dell'enigma

con la confortante comparsa ex machina

cosi il dubbio si inchina all'eroina orfica

protetta dal chiarore indifferente ai giochi della mente