La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



venerdì 30 ottobre 2009

La carriòla

Veniamo noi con questa mia a dirvi...




Sempre più dimenticata, bistrattata e lasciata a marcire nell’angolo più buio della mente. Sempre più ‘accorciata’, dilaniata, masticata male e poi sputata tra le ortiche di una metafora sconosciuta. Di cosa sto parlando? Ma della più imponente, difficoltosa, a volte capricciosa e sicuramente più affascinante tra le innumerevoli lingue parlate e scritte di questo mondo. Signore e signori: la nostra beneamata Lingua Italiana!
Ho scritto qualche rigo più su dimenticata, bistrattata, accorciata… e come si può sostenere il contrario in un’epoca in cui per rientrare rispettosamente nel limite caparbio di centosessanta caratteri occorre necessariamente scrivere frasi in codice, del tipo: “H ric t msg. C ved stas 20 bar staz.”.
Personalmente ho un rapporto d’odio-amore con i messaggini telefonici. Di odio, sicuramente perché non sono mai riuscita a rientrare nei canoni della loro lunghezza. ‘Fortunatamente’ adesso ho un cellulare che mi permette di scrivere messaggi senza dover per forza rispettare i fatidici centosessanta caratteri! Scrivo, invio… e partono sette-otto messaggini in serie che sicuramente creano seri problemi di ricomposizione al mio destinatario!, ma tant’è. Comunque, a parte queste modernità telematiche che ci saltano addosso e ci spettinano l’esistenza, ritengo sia sempre meno forte il legame con la bella scrittura e la lingua italiana. Il mondo corre sempre più svelto e non si ha tempo magari di mettersi a pensare alle regole grammaticali, all’ortografia o ai congiuntivi. Forse anche perché si leggono molto meno libri e quindi si fa fatica ad esprimersi correttamente con le parole. Trovo, però, assolutamente sconcertante che ragazzi e ragazze laureati possano incontrare difficoltà con gli accenti, gli apostrofi e i verbi. E ancora, trovo assolutamente squallido che professionisti, i quali magari fanno delle parole il loro pane quotidiano, non riescano ad esprimersi in modo corretto e non sappiano scrivere senza commettere errori da matita rossa!
Io, sia ben chiaro, non mi reputo un genio della scrittura, né tanto meno un luminare dell’Accademia della Crusca!, me ne guarderei bene dall’affermarlo. Sono soltanto un’entusiasta del ‘bello scrivere’, un’ammiratrice inarrestabile del Dizionario della Lingua Italiana!
Ricordo che una volta, durante una seduta d’esame alcuni concorrenti (me compresa) avevano sul banco il dizionarietto della lingua italiana. Per correttezza qualcuno chiese all’esaminatore se ci si fosse potuti affidare all’ausilio del dizionario senza creare difficoltà alla prova (non si trattava di un libro di testo da cui copiare; naturalmente ciò è vietato). L’esaminatore rispose col sorrisetto ebete sulle labbra: “Be’, faccia come le pare! Ma credo che ormai certi dubbi avrebbero dovuto essere risolti quand’era il momento!”, e giù una risatina. Quanto avrei voluto urlargli: “Imbecille che non sei altro!, credi davvero di essere tanto onnipotente da non avere nessunissimo dubbio sulla vastità di regole disseminate nel campo della nostra lingua!?!”.
Credo fosse uno di quei deficienti che scrivono qual è con l’apostrofo. Ma bando alle ciance.
Ho deciso di pubblicare una robetta simpatica che reputo divertente e che mi auguro possa strappare una risata al lettore.
Tempo fa un amico mi inviò tramite e-mail (ecco un’altra diavoleria dell’era moderna!) un elenco di quaranta regole d’oro relative all’uso corretto delle parole e della grammatica italiana. E’ chiaro che l’intenzione - simpatica - era quella di prendermi in giro a proposito delle mie fissazioni sui verbi, l’ortografia e quant’altro. Quaranta regole d’oro divertentissime a cui io risposi con un’altra e-mail completamente invasata…


1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9. Non generalizzare mai.
10. Usare le parole straniere non è bon ton e potrebbe portare a misunderstanding.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19. Metti, le virgole, al posto giusto.
20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso e! tacòn del buso.
22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?
24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dei media.
25. Gli accenti non debbono essere né scorretti né inutili, perché chi lo fà sbaglia.
26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva anche il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.
31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
32. Cura puntiliosamente l’ortograffia.
33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
34. Non andate troppo sovente a capo.
Almeno,
non quando non serve.
35. Non usare mai il plurale majiestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differenza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competente cognitive destinatario.
39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
40. Una frase compiuta deve avere
* * * * *

Grazie, grazie infinitamente grazie per aver illuminato la mia mente bacata con questi fondamentalisti consigli grammaticali, che si sa, sono indispensabili per un’uso corretto del linguaggio italiano, che già di per sé, cosi come lo si presenta, è veramente difficoltoso.
Essi (i consigli) mi consentirebbero in un futuro prossimo venturo (qualora mi decidessi) ad avviare una lettura amplessa di quei libri (geometricamente parlando) di scandalose dimensioni, quali ad esempio Dostoieski, Mautzpassant o peggio ancora Gogl’… E cosi come pure propinava Wilde: “La differenza tra letteratura e giornalismo? Il giornalismo è illeggibile e la letteratura non è letta. Questo è tutto”.
Ma non dimentichiamo che il linguaggio italiano, che già di per sé, lo si sa, cosi come lo si presenta, è veramente difficoltoso.
Oggi la volgarità del linguaggio propaga senza remore sulle lingue risolute di quegli analfabeti che si ostinano ad apparire superficialmente e sufficientemente coglioni, solo perché non hanno la volontà di apprendere (seppure statisticamente) la variegata fornitura della correzione grammaticale.
Ecco.
Come non citare, a questo punto, l’importanza cosi fugacemente importante della punteggiatura?, oggigiorno sempre più dimenticata senza parlare poi dell’uso improprio che se ne fa semplicemente perché non si sa o non si vuole sapere come vanno utilizzati questi soldati del discorso
La virgola, ad esempio, con quella sua arietta innocente non fa altro che suggerire all’interlocutore quando prendere fiato, perché, è noto che, la virgola, non gira mica intorno al discorso, ma introduce nel medesimo quella sorta di pausa che consente a chi legge di attraversare il componimento con un all’ eggerimento del pensiero perché è chiaro che come pure sottolineano i navigati conoscitori dell’esperienza metastatica e diciamolo pure libertina che un periodo senza neanche un punto o una virgola o come si preferisce appesantiscono la comprensione di qualsiasi lettura anche la più semplice…
E vogliamo dimenticare l’assoluta eleganza della metafora, che permette di trascinare il verso col suo consueto savoir-faire che diciamolo appartiene solo ed esclusivamente ai veri stilisti del linguaggio (che non stò qui ad elencarli solo per questione di tempo) che cosi come vi pare, appaiono i più adatti all’erotismo ortografico del mondo letterario. Ma la metafora è qualcosa di più che la semplice espressione citata volgarmente su tutti i vocabolari quale ad esempio “ondeggiano le spighe” o addirittura “sei forte come un leone”. E no. Basta con questi squallori esasperati che prolificano sull’epiglottide di quegli ignoranti che alla fine, solo perché pensano che la metafora è una sostituzione del significato di una parola, se ne vengono fuori con il classico “meglio un uovo oggi che una gallina domani”.
È vero però che l’epidermide compositiva che non attinge affatto sulla cervice dei giovani di queste annate recenti diciamo che in effetti ha origine da quell’indiscusso e istrionico pessimismo che cola come miele dall’alveare (ecco l’uso improprio della metafora e con questo vorrei farLe notare che chi scrive si rende conto delle sue mancanze e s’inchina dinanzi al pozzo di conoscenza che fuoriesce dalla Sua guardinga espressione) da quei pochi scarni versi di quel poco igienico e fermente stacanovista addirittura abitante di quella Recanati dedita al meretricio verbale che ha influenzato l’essenza stessa delle poesie del suddetto che nell’esaltare quel suo amore esasperato per Silvia rimembri ancor, non poteva, no, assolutamente, non poteva attirare l’attenzione dei tineger del mondo contemporaneo. La gioventù moderna ha fatto passi avanti e piuttosto che chiedersi “Ilaria, rimembri ancor…” si pone nuovi e più cocenti interrogativi come “preferisci na’ birra o na’ vodka prima de sballà in discoteca?”. Ecco dove stà il vero questionario. Occorre un linguaggio nuovo tendenzialmente espressione del malessere giovanile e quindi evitando di prolungare successivamente il discorso si capisce perché i ragazzi non amano la lettura e figuriamoci i modi indicativi o congiuntivi del verbo. Il verbo, da solo, si sa, fa ben poco.
Concludendo, possiamo dire, che solo esperti come noi, vale a dire, vocabolaristi del pensiero, possiamo apprezzare, e perché no, queste roventi regole che Lei ha gentilmente inviato tramite e-mail che rappresenta anche questo il progresso della tecnologia se pensiamo che in passato si scriveva con la penna d’oca e le lettere cartacee arrivavano dopo diversi mesi proprio come accade oggi. L’universo del linguaggio non finirà mai di stupirci perché è nell’essenza delle cose che si può trovare

venerdì 23 ottobre 2009

La carriòla
I contorni dell'anima


LIBRO PRIMO


III - Bel modo d'esser soli!


Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser solo, almeno per un’ora. Ma veramente, più che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla rabbia.
- Hai sentito, Gengè, che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d’urgenza.
- Guarda, Gengè, se a tenermi così la veste mi paiono le gambe.
- S’è fermata la pèndola, Gengè.
- Gengè, e la cagnolina non la porti più fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina… dico… non pretenderai che… Non esce da jersera.
- Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa più vedere da tre giorni, e l’ultima volta le faceva male la gola.
- È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà più tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che nojoso!
Oppure la sentivo cantare:
E se mi dici di no,
caro il mio bene, doman non verrò;
doman non verrò…
doman non verrò…
Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?
Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.
Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittojo, ma anche lì senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch’era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l’uscio all’improvviso, m’avesse scoperto?
No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittojo non c’erano specchi. Io avevo bisogno d’uno specchio. D’altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.
Ah sì, v’assicuro ch’è un bel modo, codesto, d’esser soli. Vi s’apre nella memoria una cara finestretta, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all’uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale jeri… no, quando fu? l’altro jeri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillìo di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c’era lui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; e che risatine si faceva sotto i baffoni peposi per la vostra disdetta allorché vi siete messo a giocare con l’amico Carlino detto Quintadecima. E poi? Che avvenne poi, uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via umida deserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia canzonetta di Napoli, che tant’anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quel borgo montano tra i castagni, ov’eravate andato a villeggiare per star vicino a quella cara Mimì, che poi sposò il vecchio commendator Della Venera, e morì un anno dopo. Oh, cara Mimì! Eccola, eccola a un’altra finestra che vi s’apre nella memoria…
Sì, sì, cari miei, v’assicuro che è un bel modo d’esser soli, codesto!



[...]


VI - Finalmente!


- Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c’è più dubbio: Anna Rosa dev’esser malata. Andrò io a vederla.
- Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.
Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?
Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo. Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.
Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio sorriso.
- Ah, ridi?
- Cara, mi vedo obbedito così…
E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:
- Un quarto d’ora, non più. Te ne scongiuro.
M’assicurai così che fino a sera non sarebbe rincasata.
Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno, stropicciandomi le mani.
“Finalmente!”

[Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila]


* * * * *

L’appuntamento settimanale mi catapulta fuori dalle coltri soffici del paesaggio mentale che mi campeggia libero e silente nell’anima.
Il fatto è che mi trovo a dover assolutamente stringere la mano al mio caro buon amico Gengè (ovvero, il signor Vitangelo Moscarda protagonista del romanzo citato e titolare del buffo nomigliolo affibbiatogli dalla moglie), e ad assecondare quella necessaria sensazione di solitudine che oggi si libra leggera attorno alle mie poche e infruttuose capacità creative. Ogni tanto si sente il bisogno di star soli. Ma anche lo star da soli a volte comporta l’invasione poderosa di pensieri e ricordi e cianfrusaglie mentali che non recano né riposo né silenzio!
Eppure oggi è venerdì. Dovrei fare il punto della settimana. Dovrei scrivere qualcosa di sensato per quei pochi cari lettori che si stancano la vista a leggere le mie pazze elaborazioni letterarie. Già. Da dove prendere spunto? Dalle notizie di cronaca riportate dai quotidiani o dalle ultime affascinanti diatribe della politica? Dalle incursioni su face-book dell’ultima associazione sovversiva che inneggia alla eliminazione fisica di un crazy horse del governo? Dalle incresciose e ossessionanti violenze perpetrate ai danni di minorenni da parte di ragazzini sciagurati che non hanno tanta intelligenza da capire qual è il modo più interessante per passare il tempo? O ancora dalla vergognosa vicenda campana? No, prego. Fate un po’ di silenzio. Spengo la televisione e chiudo i giornali. Silenzio, voglio un po’ di sacrosanta solitudine ed evasione da questa realtà così bistrattata. Cosa? Chi si chiude gli occhi e le orecchie è fuori dal mondo? Eh già, come se chi rimane invece con l’attenzione vigile dinanzi alle immagini e alle parole d’attualità possa definirsi un eroe moderno. No. Silenzio ci vuole. Bisogna, a volte, anche depurarsi l’udito e la vista, così tanto da poter riuscire ad esplorarsi dentro e a scoprire quanto faccia rumore la propria anima.
Ssst… non c’è nessuno in casa, adagiatevi sulle piume dei vostri pensieri più reconditi e aprite la finestretta sulla memoria del tempo…

mercoledì 21 ottobre 2009


Quando le famiglie ostacolano l'insegnamento


La scuola in Italia non funziona: verissimo. Ma le famiglie non fanno certamente un buon operato per i propri figli intromettendosi nelle questioni scolastiche, intralciando il lavoro degli insegnanti o addirittura quello dei direttori scolastici.
Riporto qui il caso di una mia amica: 27 anni, diploma magistrale, laurea in filosofia con tesi in pedagogia, varie e accreditate esperienze con i bambini, insegnante in asilo privato. Questa giovane maestrina si è vista presentare un bel giorno una lettera diffamatoria, da parte di una madre, che metteva in discussione il suo operato. Lettera che è stata recapitata a tutte le altre insegnanti, alla direttrice e alle rappresentanti di classe. La mamma in questione affermava di aver assistito ad una punizione effettuata dalla giovane maestra ad uno dei suoi bambini: averlo lasciato al buio, da solo, nella stanza del riposino per circa 45 minuti.
Tralasciando l’imprecisione della donna su vari punti (non erano 45 min ma 5 in realtà!) e tralasciando inoltre le ragioni della punizione (basta dire che al bambino, mandato prima a letto, piace riposare totalmente coperto e al buio), il punto è che una mamma, (tra l’altro neanche la mamma del bambino) si è permessa di mettere becco nelle questioni scolastiche affinché la nuova maestra fosse rimproverata o addirittura espulsa.
Innanzitutto quel che occorre sottolineare è che il rapporto che si instaura fra maestro e alunno è molto singolare, che il maestro conosce i suoi bambini e sa come comportarsi, che bisogna affidarsi necessariamente alle istituzioni scolastiche, pubbliche o private che siano, se si vuole che l’insegnamento possa acquistare valore per la società e per i bambini.
A nulla serve ricoprire i figli di schermi protettivi perché l’intelligenza del bambino a volte supera di gran lunga quella dei genitori e perché la crescita del bambino si sviluppa anche attraverso esperienze negative, che la scuola in quanto ambiente di comunione e di rapporti sociali comporta necessariamente e per fortuna.
Il problema della scuola infatti non è solo istituzionale ma anche sociale. Se la scuola e gli insegnanti mancano di autorevolezza è dovuto in parte anche al diffusissimo atteggiamento “protezionistico” assunto dalle famiglie nei contesti scolastici.
E come non correlare questo problema a quello della disgregazione del nucleo familiare e alla difficoltà che mamme e papà hanno nel gestire casa, famiglia e lavoro?
Si compensa il tempo mancato con attenzioni e regali, ci si preoccupa che a scuola il bambino non viva situazioni negative né con l’insegnante né con i compagni di classe, ci si contendono le doti dei figli stimolando in loro il narcisismo e infine si utilizza la confidenzialità instaurata con gli insegnanti per poi trattarli come propri dipendenti. Questa è una deriva sociale a cui bisogna porre argine con molta attenzione e delicatezza.
Difficile il lavoro dell’insegnante, difficile il ruolo del genitore, difficile anche il compito del ministero dell’istruzione, che tuttavia deve agire pensando anche in questi termini.
Peccato che la Gelmini abbia ripristinato il maestro unico ragionando, ovviamente, solo in termini quantitativi, senza pensare invece alla triste fine cui destina quel maestro in suddetta situazione.

giovedì 15 ottobre 2009

La carriòla

Lucy in the sky with diamonds...


Il commento lasciato da Peppino al video-denuncia pubblicato da Francesco mi catapulta di nuovo nell’eterno dibattito che s’addensa intorno al concetto di libertà. Dato che libertà di stampa e di opinione hanno visto restringersi sempre più forte il cappio intorno al collo, il nostro lettore a ragione scrive: “ Se continui così te lo chiudono il blog... una mattina lo troverai oscurato...".
La verità e la terribilità di questa considerazione hanno cominciato a frullare nella mia testa dal primo momento in cui l’ho letta. Ammettere che possa esserci il rischio di veder chiuso un blog per il semplice fatto di aver portato a conoscenza dell’opinione pubblica delle verità tanto serie e spaventose, è quanto di più dittatoriale possa esserci in una realtà, quella d’oggi, che ha rifiutato sistemi autoritari e chiaramente antidemocratici. Il dover temere di essere azzittiti nel momento in cui si tenta di esprimere le proprie opinioni è più che limitante e irritante: è, senza dubbio, degno di una mentalità retrograda e senza speranza.
L’idea prima che mi balena nella testa a proposito di libertà è sicuramente quella della libertà fisica. La reclusione impedisce la capacità di movimento, non la capacità e la libertà di pensiero. Mi piace ricordare cosa scrive Dostoevskij nelle sue Memorie di una casa morta: “Fin dal primo giorno della mia vita di reclusorio avevo cominciato a sognare la libertà. Il calcolo di quando sarebbero finiti i miei anni di galera, sotto mille aspetti e con mille riferimenti diversi, era divenuto la mia occupazione preferita. Io non potevo nemmeno pensare ad altro e sono convinto che così si comporti ogni persona privata per un certo tempo della libertà. Non so se i forzati pensassero come me, se facessero gli stessi conti, ma la stupefacente leggerezza delle loro speranze mi aveva colpito fin dal primo istante. La speranza del recluso, privato della libertà, è di un genere affatto diverso da quella dell’uomo che vive davvero. L’uomo libero naturalmente spera (per esempio, in un mutamento della sorte, nella riuscita di una qualche sua impresa), ma egli vive, opera: una vera vita lo trascina pienamente col suo vortice. Non così è per il recluso”. Ecco cos’è la libertà per il recluso; un desiderio ardente di vita. Ma questo del recluso è un caso limite; esso presuppone un illecito, un reato. Dostoevskij era stato accusato di essere membro di una associazione sovversiva contro il governo e meritava, per questo, la katorga (i lavori forzati in Siberia). Ma erano altri tempi, lontani libri di storia.
Ben diversa l’idea di libertà che si compone nell’opera di un altro scrittore russo, dal destino piuttosto difficile che, sebbene non appartenesse ufficialmente a nessuno dei numerosi gruppi letterari degli anni Venti, venne genericamente incluso nella schiera dei poputčiki (попутчики), i ‘compagni di strada’ che senza partecipare all’edificazione della giovane società sovietica, si limitavano a non opporsi apertamente al nuovo regime. Sto parlando dello scrittore Michail Bulgakov. Il suo rapporto con la critica fu sempre burrascoso e non per nulla la sua spietata satira si scagliava proprio contro direttori di riviste, redattori e letterati di regime in genere. Scriveva Bulgakov: “Analizzando i miei album di ritagli, ho contato nella stampa dell’Urss, nei dieci anni della mia attività letteraria, 301 menzioni che mi riguardano. Di esse, 3 sono elogiative, e 298 ostil-ingiuriose”. (Lettera al Governo dell’Urss).
La sua opera fu dunque criticata, censurata, sabotata. Alla fine ritenne opportuno adottare come rimedio ad una situazione tanto incresciosa la stesura di una lettera indirizzata nientemeno che al Governo dell’URSS.
La lettera iniziava così :
Dacché tutte le mie opere sono state proibite, tra i molti cittadini ai quali io sono noto come scrittore han cominciato a udirsi voci che mi davano tutte il medesimo consiglio. Scrivere “una pièce comunista” e al contempo inviare al Governo dell’Urss una lettera penitenziale, in cui io rinneghi le mie precedenti opinioni, che ho espresso nelle mie opere letterarie, e mi impegni a lavorare d’ora in avanti come scrittore-compagno di strada, devoto all’idea del comunismo. Scopo di ciò: salvarmi dalle persecuzioni, dalla miseria e da una morte inevitabile nel finale.
Questo consiglio io non l’ho ascoltato. Dubito che riuscirei a pormi in una luce favorevole, agli occhi del Governo dell’Urss, con lo scrivergli una lettera bugiarda – nella quale dovrei presentarmi come uno sciatto e per di più ingenuo cavallino intento a una courbette politica. E non ho neppur tentato di scrivere una pièce comunista, ben sapendo che una pièce del genere non mi verrebbe mai
”.
A proposito, poi, del suo pamphlet (breve opuscolo di carattere politico e satirico) ‘L’isola purpurea’, lo scrittore sempre nella stessa lettera sosteneva che tutta la critica dell’Urss “ha salutato questo pamphlet dichiarandolo privo di talento, sdentato, misero e indicandolo come una pasquinata contro la rivoluzione”. Ebbene, la stampa tedesca dell’epoca scrisse invece, a proposito di quest’opera, che essa rappresentava senza dubbio il primo appello avutosi in Urss per la libertà di stampa. Bulgakov sosterrà a sua volta che “la lotta contro la censura, qualunque essa sia, e quale che sia il potere per il quale essa opera, è mio dovere di scrittore, così come anche l’appellarmi per la libertà di stampa. Io sono fervente sostenitore di questa libertà e ritengo che se a un qualche scrittore venisse in mente di voler dimostrare che essa non gli occorra, non sarebbe diverso da un pesce che volesse dichiarare pubblicamente di non aver alcun bisogno dell’acqua”.
Per non annojarvi ulteriormente riporterò solo alcune altre brevi righe: “Qualsiasi scrittore in Urss attenta al regime sovietico. Sono dunque io pensabile in Urss? Tutte le mie opere sono senza speranza. Io chiedo che sia preso in considerazione il fatto che l’impossibilità di scrivere equivale, per me, a essere sepolto vivo. IO CHIEDO AL GOVERNO DELL’URSS DI ORDINARMI DI ABBANDONARE AL Più PRESTO I CONFINI DELL’URSS IN COMPAGNIA DI MIA MOGLIE LJUBOV’ EVGEN’EVNA BULGAKOVA. Io mi rivolgo al senso di umanità del potere sovietico, e chiedo in quanto scrittore che non può più essere utile tra la sua gente, in patria, d’essere magnanimamente lasciato libero”. Bè, cosa ne pensate?
Prima che mi dimentichi, vorrei invitarvi a leggere un libro di questo autore che è davvero un’opera d’arte (non solo a parer mio): Il Maestro e Margherita, romanzo che è il frutto di un vigoroso talento satirico, acuito dall’amara esperienza della repressione e da una inquieta vena mistica. In esso vi è narrata, proiettandola su una duplice dimensione, una vicenda fantastica, che ha il suo perno nell’improvvisa apparizione, a Mosca, del diavolo stesso, in vesti di professore di magia nera. I suoi interventi sconvolgeranno, con satanici garbugli, l’ambiente intellettual-burocratico della Mosca staliniana, popolata di stupidità, burocrati e privilegiati che della truffa, dell’ipocrisia e della delazione hanno fatto la loro seconda natura.

Dunque, non ci resta altro da fare che scrivere i nostri pensieri, le nostre opinioni, le nostre idee in chiave fantastica immaginando di essere come il Maestro a cui solo una donna a cavallo di una scopa, Margherita, dimostra di essergli fedele!
Anche Feltri deve aver fatto lo stesso ragionamento: ha immaginato di poter volare a cavallo di una scopa e di gettare sul Paese addormentato l’idea folle dell’elezione diretta del Capo dello Stato! Quale risultato infausto ne verrebbe fuori! Non oso immaginarlo… e se si dovesse prospettare una tragedia del genere non resterebbe che un’unica prospettiva a cui aggrapparmi: l’espatrio. Ma in questo caso non aspetterei, come Bulgakov, la risposta ad una eventuale lettera indirizzata al governo. Abbandonerei il campo e …puff… chi s’è visto s’è visto!

* * * * *

Libertà

La libertà non verrà
oggi, quest’anno
o mai
tramite il compromesso e la paura.
Io ho gli stessi diritti
di chiunque altro
di camminare
con le mie gambe
e possedere la terra.
Sono stufo di sentirmi ripetere
Lascia correre
Domani è un altro giorno.
Non mi serve la libertà da morto.
Non posso vivere del pane di domani.
La libertà
è un seme robusto
seminato
nella grande necessità.
Io pure vivo qui.
E voglio la libertà
esattamente come te.

(Langston Hughes)


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Lasciate che dedichi questo articolo alla memoria di Anna Politkovskaja, la giornalista russa che aveva ottenuto fama mondiale e premi internazionali per le sue inchieste sugli abusi dei diritti umani commessi dal governo Putin nella guerra in Cecenia. Fu assassinata a colpi di pistola nell'ascensore di casa.

mercoledì 14 ottobre 2009


Omofobia,
la remissione del Libertino

Negli ultimi mesi, il premier ha smarrito completamente il senso della credibilità sul piano delle relazioni diplomatiche, per ragioni legate sia a continue infiltrazioni di amoralità nella sfera della sua vita privata sia alle condotte discutabili dell'azione di governo. E' stato criticato dall'opinione pubblica europea, indipendentemente dall'indirizzo politico di riferimento (cattolico, conservatore, progressista). Un'autentica disfatta per chi ha fatto del culto della comunicazione a fini di lucro e delle apparenze mediatiche una ragione di vita e di successi imprenditoriali. A rendere tutto più complesso ci ha pensato l'atteggiamento di distacco dimostrato dalle gerarchie d'Oltretevere. Ad ogni modo, si tratta di un personaggio che ha dimostrato di avere di i mezzi e le capacità per non darsi mai per vinto, soprattutto nei momenti di maggiore criticità. Più di un osservatore ha sostenuto che, comunque, tutto lasci intendere che una stagione della storia italiana stia effettivamente raggiungendo la sua naturale conclusione. Il crollo di una fase epocale è sempre problematico: le linee di definizione di nuove linee sociali sono particolarmente incerte ed è probabile che nuovi barbari attendino il momento più opportuno per spuntare all'orizzonte.
***
Paola Concia, deputata del Partito Democratico, è una donna che ha vissuta sulla propria pelle le difficoltà che la condizione di omosessualità comporta in un paese ancora soffocato da pregiudizi arcaici, luoghi comuni diffusi, condizionamenti ed ingerenze ecclesiastiche. Per una donna poi tutto deve essere maledettamente più difficile. Ha lavorato un anno per elaborare la stesura di una legge di opposizione all'omofobia considerandola un'aggravante per i reati di aggressione e violenza nei confronti dei gay. Storie di violenza fisica e psicologica che sono le righe di un bollettino quotidiano. La maggioranza di governo non ha perso l'occasione per offrire al Libertino una chance irripetibile per riabilitarsi al cospetto delle ottuse ed illiberali pretese del Vaticano. Con i deputati berlusconiani e leghisti hanno votato anche il gruppo parlamentare dell'UDC e la deputata democratica Paola Binetti, la talebana dal cilicio che di certo combinerebbe meno danni se si recludesse dalla clarisse.
In definitiva, la riabilitazione del premier viene fondata sul cumulo oscuro di sofferenze evaporate nella noia e nelle foschie delle stazioni ferroviarie.

lunedì 12 ottobre 2009

Quante storie
di Alessandra Comparelli

E’ un bene che grandi artisti siano disponibili per piccole piazze, anche se una scelta in questo senso è dettata più da motivi economici che da ragioni di prestigio. Comunque non importa se un artista sceglie di esibirsi in piccoli centri perché non ha più grande richiesta sul mercato, importa che quell’artista dia la possibilità a quel piccolo centro di ritrovare se stesso nella musica.
È quel che è successo la sera del 26 settembre 2009 a Galluccio, un piccolo paese dell’alto casertano, dove Francesco De Gregori si è esibito in concerto. Casualmente ho avuto la fortuna di partecipare e di rivedere in quel contesto carissimi amici, il che ha reso quella sera ancor più significativa. Mentre ascoltavo assorta dal terrazzino della piccola chiesa, vedevo l’immagine del mio paese ghermito di gente. E lì, proprio in quella piazza, c’era Francesco De Gregori. Mi sembrava quasi impossibile che quelle canzoni che avevo ascoltato nella mia stanza, lontana da tutti, si diffondessero per tutta la piazza, dove tutti volevano ascoltarle, le avevano ascoltate o le ascoltavano per la prima volta. Così i miei pensieri sono andati a ritroso nel tempo per poi riversarsi in circolo nel presente. Pensieri come immagini, immagini della memoria, fatte di emozioni, di persone, di solitudini, paesaggi. Ritrovavo me stessa e la mia storia, con quella serena malinconia che contraddistingue la memoria e il languore del passato che De Gregori sa cantare sublimamente. Ma quante storie in quella piazza quella sera, tutte unite dalla musica, tutte vive, tutte vibranti che verrebbe voglia di dar voce ad ognuna e di fermarsi per strada e chiedere “anche tu hai sentito come me?”.

Forse è solo una visione troppo personale ma per me la musica è memoria. Per questo De Gregori resta il mio preferito, perché nessuno come lui ha saputo dare in musica e con le parole, il senso magico del tempo. (A tutti coloro che leggeranno questo post suggerisco di leggere l’intervista a Francesco De Gregori su “Tuttolibri”, La Stampa, 12 settembre 2009, pp.I, VI)

domenica 11 ottobre 2009

Video denuncia Il Ministro giusto al posto giusto

Il fatto che sia una bella donna ha fatto spesso trascurare di considerare le ragioni per cui sia diventata ministro della Repubblica e di valorizzare le sue presunte competenze governative. Ha fatto qualche comparsa in seguito alla tragedia di Messina. È notizia di pochi giorni l’emergenza di una vicenda giudiziaria che la riguarda direttamente. Stefania Prestigiacomo è indagata dalla procura di Roma per l'ipotesi di reato di peculato in relazione a presunti acquisti di articoli di moda e di pelletteria femminile resi possibili dal ricorso ad un carta di credito del dicastero dell’Ambiente. L'iscrizione costituisce un atto dovuto in quanto gli inquirenti dovranno accertare se gli acquisti siano o meno motivati da presunte ragioni istituzionali. Ed è proprio questo il quesito posto dagli inquirenti di piazzale Clodio ai colleghi del Tribunale dei ministri ai quali il fascicolo processuale è stato trasmesso per competenza. «Non ho mai usato la carta di credito del ministero per motivi personali» ha detto il ministro dell'Ambiente. «Gli estratti conto e tutta la documentazione relativa alle spese ministeriali sono a disposizione degli inquirenti e lo sono sempre stati. Nessuno le ha mai consultate. Potevano esaminarle e fare ogni verifica prima di accusarmi di peculato sulla base di una intercettazione telefonica tra due persone di cui una indagata e l'altra interna al ministero. Sono profondamente nauseata e sconcertata, e chiedo sia fatta piena luce su tutta questa vicenda».«Sono pronta a querelare chiunque metta in discussione la mia onestà».L'indagine è scaturita da alcune intercettazioni telefoniche compiute dalla Guardia di Finanza di Firenze in relazione ad u un altro procedimento giudiziario. Nei colloqui telefonici in questione due persone, tra cui un funzionario del ministero, accennerebbero a presunti acquisiti fatti dal ministro Prestigiacomo.


Veniamo ai contenuti del video denuncia. Il Ministro è titolare del 21,5% della Fincoe di Casalecchio di Reno (BO), quota che detiene anche sua sorella Maria Pia e il padre Giuseppe, vicepresidente di Confindustria a Siracusa col 10%. Il gruppo familiare detiene la maggioranza assoluta dell’azienda, holding con radici a Bologna ma interessi in Sicilia.La Fincoe è proprietaria al 99% della Coemi Spa di Priolo (SR), che controlla il 60% della “Vetroresina Engineering Development” (Ved) di Priolo (SR); il 22,5% della Ved appartiene al Gruppo “Sarplast s.p.a.” di Priolo (SR) di cui Giuseppe Prestigiacomo ha il 6,5%.
La Sarplast fallì nel 1997 a causa di una serie di incidenti e malattie dei dipendenti e nel 2000 finì sotto inchiesta da parte della Procura di Siracusa con un fascicolo che parla di lesioni colpose. Tre operai hanno avuto figli con malformazioni congenite, altri operai non fumatori si son ritrovati dopo 10 anni polvere nei polmoni, un dipendente morì cadendo da un traliccio, pochi mesi prima un altro dipendente rimase gravemente ferito. Un’irruzione della Polizia nelle aziende dei Prestigiacomo rilevò una serie di violazioni.La procura di Siracusa indaga sul fallimento della Sarplast poiché sono emersi ammanchi di diverse decine di miliardi di vecchie lire sottratte alle casse della società madre e di quelle controllate, attraverso numerose operazioni illecite.Alle grane che riguardano salute e la sicurezza dei dipendenti delle aziende dei Prestigiacomo, si aggiunge la grana del crack Sarplast e le pendenze col fisco per 6 miliardi di vecchie lire accumulate in un triennio.In seguito al maxiemendamento del precedente governo Berlusconi che escluse dalla punibilità i reati tributari e quelli connessi al loro occultamento, la Procura siciliana ha potuto avviare un'indagine per bancarotta soltanto perché nel 2003 l’allora presidente Ciampi non firmò la tanto agognata amnistia.

venerdì 9 ottobre 2009

La carriòla


Liberté, égalité... fraternité?



Negli ultimi giorni s’è fatto un gran parlare di libertà e uguaglianza. Due paroline semplici, quasi innocue… concetti assolutamente essenziali in un mondo popolato da esseri umani che hanno idee e opinioni contrastanti su qualsiasi tipo di argomento.
Libertà e uguaglianza garantiscono una corretta e sana convivenza e un necessario rispetto reciproco. Ma cosa succede quando i due famosi pilastri del motto della Révolution Française vengono travisati e rigirati dalle menti contorte del potere politico?
Non voglio discutere di politica, non ne ho voglia. La politica, quell’attività che da sempre avrebbe dovuto essere il mezzo attraverso il quale i cittadini si sarebbero dovuti veder riconoscere il rispetto dei propri interessi. Già, la politica. [πόλις, Polis = città = cittadino]. Che formula magica!, e pensare che essa è divenuta un bieco e volgare strumento ad uso e consumo di uomini e donne accomodatisi sugli scranni di Montecitorio non di certo per sostenere le necessità del popolo, quanto piuttosto le proprie e quelle di parenti e amici.
Negli ultimi giorni s’è fatto un gran chiacchiericcio attorno al benedetto (eufemismo!) lodo Alfano, utile strumento per sottrarre le cariche politiche da eventuali processi e processini. Come se la legge non fosse uguale per tutti. Se non ricordo male ci dev’essere un articolo della Carta Costituzionale che garantisce l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (l’articolo tre), ma si vede che ormai la Carta varata nel lontano 1948 non si tiene più tanto in alta considerazione, dato che va assumendo in misura maggiore le sembianze di un rotolo (non quello di Qumran) destinato ad un ben altro uso e a ben altre facce che non si vergognano di mostrarsi in pubblico.
Udite, udite! La Corte Costituzionale ha buttato alle ortiche il nodo, ops, lodo alfy. Qualcuno s’è risentito. È giusto. Chi ha processi a carico deve necessariamente risentirsi e… indispettirsi, già. Mentre non può trovarsi nulla di male nella considerazione fantasiosa elaborata dall’azzeccagarbugli che tutto nega e nulla conferma e cioè che: “Sì, la legge è uguale per tutti. Ma l’applicazione della legge non è uguale per tutti” – certo che chi sostiene una roba del genere ha indubbiamente problemi con il suo psicologo, perché una fesseria così mastodontica non può essere architettata dall’intelletto di un uomo sgravato da disastri psichici – ebbene, dicevo, mentre non si trova nulla di straordinario in un’affermazione del genere, è invece assolutamente scandaloso non pensare che la consulta sia composta da soli strateghi comunisti. Ma dài! È il delirio di un uomo che se ne va in giro saltellando con due piedi in una scarpa! È il frignare di un bambino a cui hanno rubato il lecca-lecca! Ma non può essere il comportamento di uno sano di mente! E come se non bastasse… “sì, sì… è …’nguè… è tutta colpa sua!”… Certo l’instabilità psichica e l’irresponsabilità morale si basano sulla necessità di attribuire le proprie inettitudini a qualcun altro. “Con chi posso prendermela? Con i giudici, già fatto. Col ministro alfy? No. Con uno più importante, con uno che sta in alto, magari su quell’odiosa collinetta che, si sa da che parte sta. Ah, ah!!”.
Non c’è più limite all’assurdità dell’homunculus faustiano. Mefistofele ha esaudito tutti i suoi desideri: potere, denaro e donnine in quantità industriale. S’è scordato di corrompere i giudici della consulta, però! Che maledizione! Tutta colpa, non del whisky, ma del Capo dello Stato!
Ma, homunculus!, i conti non tornano. La Corte Costituzionale, organo collegiale, è composta da quindici giudici. Cinque sono scelti tra i massimi livelli della magistratura, cinque vengono eletti dal Parlamento e cinque sono nominati direttamente dal presidente della Repubblica. Com’è che la partita s’è chiusa nove a sei? Ma dai, non è credibile quello che vai blaterando! E poi, prendersela col Capo dello Stato… non è da vero uomo. Sei caduto davvero troppo in basso, nemmeno le escort t’hanno gettato così tanto in fondo al pozzo della sciagurataggine. Ti ci sei lanciato da solo, non ti resta che chiedere aiuto allo zio Fester-Bondi o a Malaiuti che ha sempre la parola giusta nel momento sbagliato.
Comunque, mi povero homunculus, non ti resta che accettare la sentenza e rimanere coerente con i tuoi pensieri. Se non sbaglio, infatti, hai urlato che gli italiani sono sempre stati la tua immunità. Perfetto, scendi dal trono del tuo impero e vai in piazza ad abbracciare i tuoi italiani. Ora non puoi davvero negare di essere uno di loro, di far parte attiva del tuo popolo. Perché finalmente la LEGGE è UGUALE PER TUTTI.

giovedì 8 ottobre 2009

Deserti, predicatori folli e i titoli di coda


Sono riuscito a trovare un posto sulla corriera che mi riporterà a casa liberandomi finalmente dai colori nordafricani di Roma, ancora stretta dai lacci dell’estate. Sono particolarmente stanco, dacchè i miei pensieri sono del tutto imbrigliati in un ingorgo di traduzioni mai definitive. Lemmi su lemmi definiscono il senso di un progetto su cui ho investito tutte le mie possibilità da tre soldi (briciole per avvoltoi delle Ande) mettendoci la faccia e rinunciando all’opportunità di eventuali escamotages di salvataggio. Detesto le scorciatoie perché sottendono trucchi. La corriera è stracolma di anime. Il treno delle 7.07 sembrava una metropolitana della City impegnata nell'esecuzione delle sue mansioni nell'ora di punta. Qualcuno mi ha spiegato che nel corso della giornata si è svolto un appuntamento al Palalottomatica dedicato al (dis)orientamento universatario. Ho l’impressione che la maggior parte dei ragazzi che ho incrociato sia stata coinvolta da quell’appuntamento. Gente che vuol capire quel che non si può capire e che nessuno – neppure il miglior docente universitario – può provare a spiegare. Come far comprendere lo smarrimento, la confusione, le incertezze che attendono quei ragazzi? Il pensiero non sempre fa bene alla vita. La loro spensieratezza da gitanti (o gitani per certi versi) pertanto mi convince. Mi sembra lo spirito giusto per iniziare ad attraversare il deserto.

Per associazione di idee, le folle in cui mi sono smarrito in questa giornata di decadenze mi hanno fatto riflettere su un episodio che mi è capitato di osservare la settimana scorsa. Testimone dell’errore e dell’orrore. Mi trovavo nell’ambulatorio di ortopedia per una delle infinite visite di controllo che mi sono state prescritte nel periodo di convalescenza seguito al grave incidente stradale dello scorso agosto. Routine della noia e della rassegnazione. 4 ore di attesa per stare con l’ortopedico per 4 minuti e ricevere un sorriso, sentendomi dire: “Sta benone, è tutto passato, il dito poi è venuto anche dritto . . .”. Nell’attesa ho divorato un romanzo. Nei momenti di pausa che mi sono concesso mi fermavo ad osservare con attenzione la massa variegata di gente che consumava l’ossigeno nella stanzetta d’attesa – priva di finestrelle – che sembrava davvero un vagone merci per destinazioni ignote, gente che mi faceva sentire affamato non solo di comprensione, ma anche d’aria. L’ordine di accesso ai locali degli ambulatori segue la logica della precedenza in relazione alla sequenza delle consegne delle cartelle cliniche o delle prescrizioni sanitarie. Semplicissimo e razionale. Ad un certo punto, viene chiamato un bambino di origine marocchine; si trascina il piede gonfio, accompagnato dal padre e dallo zio. Poi è il turno di una grassissima zingara che fa sventolare la sua vistosa gonna variopinta per tutto il corridoio. Il tintinnio degli ori annuncia il suo passaggio. Non appena l’infermiere di turno urla per il corridoio il cognome gitano, un vecchio ingobbito e dai baffi sabuadi inizia a sbuffare come una locomotiva dei primi anni del XIX secolo. “Ma vedi un po’ se è mai possibile che arabi e zingari so' meglio di noi. Madonna mia, a cosa siamo arrivati…”. Mio caro predicatore folle, non so se arabi e zingari siano davvero megliori di noi, forse sono come noi. Ho la certezza però che siano davvero preferibili a lei, caro fascistello, eppure - deve sapere - non è affatto, in definitiva, un'impresa disperata… Quel vecchio baffuto è lo specchio fedele dell’Italia di B & B, fucina di intolleranze e di clausure razziste.

La sentenza della Corte Costituzionale ha calato il sipario sul baraccone del gran prestigiatore. Il trucco gli sta ormai colando solcando le infinite rughe svelando ciò che ormai è davvero chiaro a tutta la stampa nazionale e che magari inizia ad esser chiaro - senza la possibilità di cascare in nuovi giochetti da commediante di terza fascia - anche a qualche italiano. Si sente assediato, è fragile, attacca disperatamente per attivare la reazione propria dell'animale selvatico che sia stato prese a bastonate. Se la prende col Presidente della Repubblica, con la stampa, con la magistratura, con gli insetti, persino con la Rosy Bindi (che fra l'altro - fatte le dovute correlazioni- è più sexy di lui). Barricate bolsceviche lo mettono alle strette, povero uomo. La schiera dei burattini (Capezzone, Bondi, Cicchitto, Quagliariello, il maestoso Gasparri, e tante altre comparse stipendiate da proscenio) si affanna per difendere il Gran Burattinaio dai tirimancini dei soldatini rossi magari raggiungendo così l’orgasmo entusiastico (senza dover ricorrere a veline, letterine e altre troiette varie). Si affanna perché è ormai chiaro anche a loro che qualcosa sta davvero cambiando nel comune sentire del Paese. Il Commediante Corruttore Provato sostiene che le sinistre dei comunisti fondano le loro fortune sull’uso politico della giustizia. Omette di aggiungere che lui, proprio lui, è il maestro impareggiabile nel promuovere l’uso politico dell’ingiustizia.
“Ha coperto l’Italia di vergogna”


"I giudici infliggono un duro colpo a Silvio Berlusconi". Il titolo campeggia sulla prima pagina di oggi dei maggiori quotidiani del mondo. Financial Times e Wall Street Journal lo accompagnano con la stessa foto: il premier passa in rassegna un picchetto d'onore a Palazzo Chigi, cupo, a testa bassa. Il Times definisce la decisione della Corte Costituzionale "un colpo mortale" e sostiene che a questo punto il primo ministro italiano "deve dimettersi". La stampa internazionale è concorde nel presentare un premier "indebolito" e una crisi politica sempre più grave e dagli sbocchi sempre più incerti. Ad ogni modo, i media internazionali salutano la sentenza della Consulta come una prova di indipendenza della magistratura e di difesa della democrazia. "Silvio Berlusconi lotta per la sua sopravvivenza politica": comincia così l'articolo di prima pagina di Lucy Bannerman sul Times, accanto a un riquadro che stima in 150 milioni di sterline, circa 160 milioni di euro, l'ammontare delle spese legali affrontate sinora dal premier per difendersi nei numerosi processi in cui è stato incriminato. Il verdetto dell'Alta Corte potrebbe "portare al collasso del governo" di centro-destra e in ogni caso porterà Berlusconi sul banco degli imputati in una serie di processi "per frode, corruzione ed evasione fiscale". "I giudici infliggono a Berlusconi un colpo mortale" è il titolo del servizio di prima pagina del Times, cui segue un editoriale non firmato (espressione dunque della direzione del giornale) nel quale si sostiene che il premier "ha svergognato il suo incarico e il suo paese" dimostrando "disprezzo" per la legge, oltre che attraverso i suoi "ridicoli" scandali privati di sesso e la sua "inquietante" amicizia con leader come Putin e Gheddafi. "Berlusconi può restare al potere solo se i suoi alleati lo appoggiano", osserva l'editoriale del Times. "Sarebbero folli a farlo. Il danno causato dal premier alla reputazione dell'Italia comincia a vedersi, simboleggiato dal rifiuto di Michelle Obama di accettare il suo abbraccio, e del resto anche il suo indice di popolarità nei sondaggi sta cadendo. Egli ha cercato di vivere al di sopra della legge, ma ora, con i nuovi processi che lo attendono, sarà consumato dalla legge. E' certamente tempo che Berlusconi smetta di mettere i suoi interessi prima degli interessi della nazione. Dovrebbe dimettersi". Il Times dedica a Berlusconi altre due intere pagine all'interno. Un ritratto del premier, firmato da Richard Owen, afferma che la sentenza della Corte potrebbe segnare "l'inizio della fine" per il Cavaliere; e in un altro articolo lo stesso osservatore politico prende i considerazione i possibili scenari che potrebbero affermarsi nei prossimi mesi: Berlusconi continua a governare facendo finta di niente, "difficile", si dimette e convoca elezioni anticipate, "potrebbe averne la tentazione", viene rovesciato da un golpe interno dei suoi alleati guidato da Gianfranco Fini, "forse non subito, ma potrebbe accadere nei prossimi mesi se la situazione del premier si destabilizza ulteriormente", si dimette e va in esilio come Bettino Craxi, "improbabile, ma non da escludere se fosse minacciato di finire in prigione". Sempre sul Times, un'analisi di Bronwen Maddox osserva che, con la sentenza della consulta, "l'Italia ha ribadito la sua aderenza alla democrazia, riparando almeno parzialmente le crepe arrecate dal controllo dei media di Berlusconi, che insultano i fondamentali principi democratici a tal punto che se l'Italia chiedesse oggi di entrare nell'Unione Europea potrebbe non essere accettata". La Maddox interpella due esperti. Marc Weller, docente di diritto internazionale alla Cambridge University, nota che nel mondo c'è la tendenza a ritenere responsabili i leader davanti alla legge per crimini di particolare gravità, come la tortura e il genocidio, ma non per decisioni contestate e controverse, come quella di Tony Blair di partecipare alla guerra in Iraq. Riguardo alle leggi nazionali, tuttavia, mettere un primo ministro al di sopra della legge, come ha fatto finora il Lodo Alfano, significa "rinunciare al certificato di piena salute democratica". L'altro esperto, Charles Grant, direttore della think tank Center for European Reform, osserva che l'Unione Europea tira fuori un "cartellino giallo" per gli Stati che non rispettano i criteri della democrazia, ma il solo vero scrutinio in merito avviene nel momento in cui l’Unione Europea valuta se accettare o meno un nuovo membro nelle sue fila: "Se un paese in cui un uomo possiede tutte le televisioni chiedesse di entrare, verrebbe respinto". In un articolo dell’Economist – domani in edicola – si sostiene, a proposito della reazione di Berlusconi alla sentenza, che ora "la Corte Costituzionale è stata aggiunta alla lunga lista di istituzioni italiane sovversive". I processi in cui il leader del Popolo delle Libertà si ritroverà ora imputato potrebbero soltanto imbarazzarlo, perché rischiano di essere lunghi e di venire fermati, ancora una volta, dalla scadenza dei termini per essere perseguiti, ma aggravano "i recenti problemi di Berlusconi”, dall'indagine di Bari su escort e droga alla sentenza civile che lo ha condannato a pagare 750 milioni di euro di danni alla Cir di Carlo De Benedetti (l'editore di Repubblica) e riconosciuto "corresponsabile di corruzione". Il premier "è oggi molto più debole politicamente di qualche mese fa", scrive il settimanale, notando che Berlusconi ora minaccia di cambiare la composizione dell'Alta Corte per ristabilire "il corretto equilibrio" tra i poteri dello Stato: ciò potrebbe essere "azzardato e perfino pericoloso". Il Financial Times dedica due articoli alla vicenda, scrivendo che "la tensione politica è destinata a salire" e che "il prestigio internazionale di Berlusconi è destinato a calare". Il Wall Street Journal afferma che la sentenza potrebbe "ulteriormente destabilizzare il governo Berlusconi e distrarre ancora di più un premier già imbarazzato dalle rivelazioni sulla sua vita personale". Il New York Times commenta che la decisione della Corte potrebbe portare a "un periodo di instabilità politica" e osserva che in un altro paese la saga di problemi legali di Berlusconi "avrebbe probabilmente messo fine alla sua carriera politica". Il Guardian si riferisce ad un "severo colpo" a Berlusconi e al "chiaro rischio di una crisi istituzionale" dopo le accuse da parte del premier di un complotto contro di lui. Il Telegraph cita Franco Pavoncello, docente di scienze politiche alla John Cabot University di Roma: "Berlusconi prima era un intoccabile, ora non lo è più". Commenti analoghi sono apparsi sull'Independent, sul Daily Mail, sul Mirror.
Il Boston Globe scrive che si tratta di "uno dei più duri colpi inferti a Berlusconi nei suoi 16 anni di vita politica", e il Los Angeles Times afferma che la sentenza mette "un punto interrogativo sul futuro di Berlusconi e dell'Italia". L'Irish Times prevede "una drammatica crisi politica". El Pais osserva che la decisione dell'Alta Corte "rafforza la fiducia nella giustizia ribadendo che il premier deve rispondere alla legge come tutti i cittadini", e ricorda, in un altro articolo, le nuove accuse di connivenze mafiose emerse nei confronti di Forza Italia e dello stretto collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell'Utri, "già condannato a nove anni in primo grado per associazione mafiosa", da parte del pentito Ciancimino. El Comercio scrive che "i giudici hanno dato prova di indipendenza a dispetto delle forte pressioni" esercitate dal governo nei loro confronti. Figaro scrive che "paradossalmente l'uomo politico Berlusconi è stato messo in crisi dall'uomo d'affari", ovvero dalle accuse di corruzione ed evasione fiscale nel costruire il suo impero mediatico che hanno continuato a rincorrerlo durante tutta la sua carriera.

lunedì 5 ottobre 2009

Scodinzolino, ovvero
il Ministro della Propaganda
Se avesse un minimo di dignità professionale, si dimetterebbe. Non era mai successo che il direttore del TG1 venisse sfiduciato pubblicamente, durante la diretta televisiva dell'edizione delle 20, dal comitato sindacale dei suoi giornalisti. Quest'uomo, che non si distingue affatto per una qualità particolare, si è reso protagonista della pagina più oscura del giornalismo italiano. Per questa ragione non lo dimenticheremo mai, neppure quando il suo padrone sarà rievocato come un incubo collettivo. Per giuramento d'omaggio, Scodinzolino sarebbe disposto - ne siamo certi - a giustificare con un editoriale non richiesto il suo Berlusconi anche nel caso in cui quest'ultimo risultasse l'autore di un omicidio.

domenica 4 ottobre 2009


Per la prima volta mi avvalgo dello spazio pubblico per scopi personali. Approfitto della pagina di Pieghe Libertarie per augurare a Francesco di procedere sempre sulla strada della libertà, così da realizzare pienamente il senso racchiuso nel suo nome. Francesco, uomo libero. Che l'amore per il pensiero libero ti cosparga sempre con la sua essenza. Buon onomastico!

venerdì 2 ottobre 2009

La carriòla


L'albero della vita


Perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio.

(Qoèlet 11,12)

Solitudine. Abbandono. Vocaboli colmi di malinconiche rime che mostrano sempre più spesso il loro concreto significato nello sguardo spento di coloro che nei secoli passati venivano identificati come saggi, senior e che oggi, invece, vengono emarginati col dispregiativo di vecchi, termine che pure dovrebbe richiamare un certo rispetto e una particolare attenzione.
Sarà che ho due nonni inimitabili. Sarà che ho vissuto con loro parte della mia infanzia (tanto da trovarmi in gravi difficoltà quando a scuola la maestra dava come compito il tema dal titolo Scrivi una lettera ai tuoi nonni lontani); sarà pure in virtù di quella liaison tutta speciale che unisce nonni e nipoti… eppure, i modelli di comportamento che vanno diffondendosi tra le famiglie proprio non riesco a comprenderli e condividerli. Negli ultimi tempi mi sono trovata a dover constatare, sempre più spesso ahimè, che non si riesce davvero ad evitare l’abbandono degli anziani di casa in quelle ben note altre case che vengono affiancate nel titolo da un altro termine oserei dire, pseudo-poetico. Le case di riposo. Quanta tristezza si nasconde in questa terminologia inquieta e inquietante. La società moderna, com’è avanzata nella sua arretratezza. Le tribù degli antichi popoli attribuivano rispetto e onore agli anziani del gruppo; ai tempi dell’antica Roma anziano era sinonimo di autorevolezza, di saggezza; essi avevano un ruolo importantissimo non solo in politica ma anche in famiglia. E presso l’antico popolo d’Israele?, gli anziani erano definiti saggi.
Oggi s’è perso il ruolo dell’anziano, s’è persa la voglia di individuare la saggezza e far proprio il gusto della conoscenza. Oggi i vecchi sono emarginati, stanchi nella loro solitudine e persi nell’oblio dell’amore dimenticato di figli e nipoti. Ecco, se solo comprendessero, questi moderni eroi della civiltà incivile quanto potrebbero arricchirsi stando in compagnia dei loro ascendenti. Ho sempre creduto che nell’amicizia tra un vecchio e un bambino si possa trovare il filo conduttore dell’esistenza umana, il passaggio sacrosanto dal vecchio al nuovo, l’immagine di un mondo passato che si riflette nel mondo futuro. Non so quanti di voi abbiano visto il film Monsieur Ibrahim e i fiori del corano, ebbene, in esso è narrata una storia d’amicizia tra un vecchio di fede musulmana e un bambino ebreo. Perle di saggezza vengono sciorinate quotidianamente al fanciullo e quando questi racconta al vecchio di una sua infatuazione per una bambina poco interessata alle sue attenzioni amorose: “Non fa niente. L’amore che tu provi per lei è tuo, appartiene a te, anche se lei lo rifiuta, questo non cambia le cose. Non ne sa approfittare. Tutto qui. Ciò che tu dai è tuo per sempre, ciò che tieni è perso per sempre”, queste le parole con cui il saggio dai capelli bianchi rinfranca il cuore del giovinetto innamorato.

Oggi mi par quasi di udire il gemito dell’abbandono del vecchio nonno allontanato dalla sua vera casa, dalle sue insostituibili abitudini, dai suoi nostalgici, antichi affetti; è violenza spodestarlo dalle quattro mura della sua esistenza, è ingiustizia imprigionarlo in un grigia, malsana struttura per soli vecchi. E ancora mi risuona nell’orecchio quella fantasia di pensiero insicuro volato via da un’anima d’età avanzata che così s’esprime: “Aver lavorato una vita intera, aver lottato un’esistenza intera, aver costruito il futuro dei figli… E ora, qui rinchiuso, tra questi mille volti segnati dagli anni, tra queste folli miserie umane gettate lontano come fossero sacchi di mondezza…”
Parole che si sollevano dall’esasperazione struggente di un vecchio che ama essere ascoltato; l’ascolto, malattia contagiosa dell’ultima età, quella lontana che piomba all’improvviso e che fa esclamare: “E’ davvero passato tutto questo tempo? E questi fili d’argento… ieri non c’erano, e oggi ricoprono la testa e l’anima…”.


Il vecchio seduto sulla panchina della vita
osserva il volo degli uccelli e s’attrista.
Le corse tra i fiori e il sudore acre del
padre che si chinava sulla semente,
cibo per l’inverno e lavoro d’altri tempi.
Uno sguardo più lontano e l’azzurro
negli occhi di una donna
ruba il cuore e dà tormento.
Il candore bianco di un vestito e il
sorriso dolce di un infante,
le corse in bicicletta e la mano
sempre pronta a sostenere un equilibrio.
Resta immobile il vecchio sulla panchina,
la memoria vorrebbe averla perdonata.
Solo il gioco di un bimbo solitario
ridesta il suo tormento, è il libro del
suo viaggio antico che sta per giungere
all’ultimo rigo della sua storia lontana
così nascosta, così dimenticata.

Il vecchio è un albero. Non si possono sradicare le radici senza che vengano meno anche i suoi rami.

* * * * *
Una giornata


Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me.
Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo.
Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d’una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.
Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. È subito scomparso nell’interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non m’è nemmeno passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo.
Ma reclamo di che?
Con infinito sgomento m’accorgo di non aver più idea d’essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla.
Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s’è subito ritirato, senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa più normale che a questa stazione si scenda così?
Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero.
Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose più naturali e più solite. Mi sento come trascinare, ma anche qui senz’avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno, che m’attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors’anche l’indignazione se, o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche cosa, senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi. Bisogna che mi sforzi a far le viste d’esserne anch’io persuaso e che m’ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono più comuni e più facili.
Non so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare.
Possibile però ch’io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz’aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto, perché tanti si voltano a guardarmi e più d’uno anche mi saluta, senza ch’io lo conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no, salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare da uno strano impaccio per una cosa – lo riconosco – veramente meschina: non sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho più altro!
Torno a cercarmi addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a quest’abito non mio. È davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita slavata, quasi caduta nell’acqua di un ruscello o d’un pozzo e ripescata. La apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l’acqua v’ha fatte diluendo l’inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso formato e anch’essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh! È la fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell’atto di salutare. Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l’impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna così bella mi sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo nell’acqua, quest’immagine, accanto all’immagine sacra, ha il posto che si dà a una fidanzata.
Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m’appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise.
Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con qual forza di convinzione, l’immagine ritratta in quella piccola fotografia m’assicura che il biglietto è mio. Ma c’è da fidarsi d’una testolina così scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria.
Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra più spicciola moneta corrente.
Così dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell’uscio di strada e m’indica l’edificio della banca lì presso.
Ci vado, e tutti anche in quella banca si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto – mi dicono – è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella naufraga bustina di cuojo.
Ma mi esortano a non confondermi. C’è rimedio a tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto corrente. Fingo d’aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi dànno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli digerire. Ma già si dev’esser sparsa la voce ch’io, se non proprio ricco, non sono certo più povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo una automobile che m’aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con l’altra lo sportello per farmi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com’ho un’automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sì, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all’alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell’eco che i miei passi faranno, movendomi in tanto silenzio. D’inverno, fa sera prestissimo; ho freddo e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci; resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto, e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per accogliermi tra esse, festante.
È un sogno?
Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all’alba, non c’è più. Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu così caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. E c’è in tutta la casa quell’odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d’uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni più assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso alla parete dirimpetto, e subito ho l’impressione d’annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d’avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Così subito? E com’è possibile?
Sento picchiare all’uscio. Ho un sussulto. M’annunziano che sono arrivati i miei figli.
I miei figli?
Mi pare spaventoso che da me siano potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È giusto che ora, da vecchio, li conosca.
Entrano, reggendo per mano bambini, nati da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d’essermi levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l’affanno mi cessi. Io, l’affanno? Ma sì, loro lo sanno bene che non posso più stare in piedi e che sto molto molto male.
Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo.
Già finita la mia vita?
E mentre sto a osservarli, così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.
– Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.
E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina.
Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli.


[Luigi Pirandello]