La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



sabato 27 giugno 2009

Ssst...

Silenzio, omertà. Chi si prende la libertà di dire ciò che pensa è un rivoluzionario e un sovversivo. La dissolutezza bivacca nelle menti di chi crede di vivere in una Repubblica democratica.

Imbavagliate la verità. La verità è una gran seccatrice. Chi vive nell'incoscienza è come il fumatore di oppio: ...bello... i colori... oh, meraviglia!
Non svegliatelo!

venerdì 26 giugno 2009

Il sogno di diventare grande

No. Non credo di potermi ritenere una sua fan. Eppure la scomparsa del cantante afroamericano ha suscitato qualche pensiero che vorrei condividere con chi legge queste poche righe. Quando esplose il mito di Michael Jackson ero una bambina. A sette anni non s'apprezza granché l'opera pop di un fenomeno musicale. Ma ho il ricordo vago di un cartone animato in cui cinque fratelli di colore, coi capelli ricciuti e arruffati, dimenavano i loro corpicini tra i colori e le fantasie di un cartoon. L'immagine che mi piace di più è proprio questa: il piccolo prodigio di colore che spazza via un mondo musicale fatto dai grandi.
Quasi mi viene di paragonarlo ad Arnold: altro piccolo protagonista dell'omonimo telefilm che negli anni '80 ci teneva incollati allo schermo. "Che cavolo stai dicendo, Willis?". Già, che cavolo stai dicendo... Arnold non era un bambino, in realtà era un nano e ci ha ingannati tutti a tal riguardo. Michael Jackson ha sognato di diventare un grande, un gigante, ma è rimasto schiacciato dal suo stesso peso. Non posso che augurargli di riuscire a riafferrare, nel magico mondo che adesso lo ospita, tutta la purezza e l'innocenza che brillava negli occhi accesi di un bambino prodigio che ha rinunciato a diventare grande.
Se le minorenni napoletane, le prostitute di Bari, i voli di Stato con inviti privati e i reclutatori di veline non porteranno a nulla di peggio, una cosa è chiara: il sogno di Berlusconi di salire al Quirinale è svanito tra gli scandali delle feste erotiche.
El Paìs, 25 giugno 2009

giovedì 25 giugno 2009

ESCORT

<<La parola attraversa da qualche giorno migliaia di bocche, che non l’avevano mai pronunciata prima. Un evento capace di attirare l’attenzione pubblica, scatenando la morbosità di alcuni, la suscettibilità di altri, ha svolto una evidente funzione linguistica. Non tutti conoscono l’inglese. To escort è un verbo che significa “scortare” o meglio “accompagnare”, lasciando intendere un’attività da dama o da cicisbeo d’altri tempi. L’escort è la puttana di rango; non riceve in scantinati, ma si intufola furtivamente nella dimora del suo cliente. Fa un lavoro come tanti, non sottoposto a tassazioni statali. Senza ricevute, con una doccia si passa a far altro. Il fatto che il premier riceva escort nelle sue dimore non mi interessa minimamente. Nel delirio di onnipotenza, un potentato può pensar bene di allestire un harem di signorine, da candidare poi in liste civiche o da promuovere con l’assunzione istituzionale.
Sono altri gli aspetti che mi inquietano. Credo che sia inaccettabile che la Chiesa Cattolica continui a considerare il papi il condottiero della cristianità italiana. Lo trovo disgustoso. Credo che sia inaccettabile che il TG1 non dia nessuna risonanza all’inchiesta barese. Credo che sia inaccettabile che si sia arrivato a questo punto
>>

venerdì 19 giugno 2009


I governanti autoritari non sopportano un'opposizione attiva. Coloro che criticano l'insindacabilità del potere, coloro che denunciano il nepotismo, coloro che osano proporre candidati alternativi vanno incontro a un mare di guai.

Ralf Dahrendorf
Addio al professor Ralf Gustav Dahrendorf,
maestro del liberalismo europeo

mercoledì 17 giugno 2009

Giochi di arti


Non potendo attirare l’attenzione per l’emergenza di un talento particolare o di una virtù, il ministro Brambilla si è guadagnata l’interesse pubblico per via dell’esposizione mediatica, nel salotto di Vespa, delle sue grazie. Le gambe accavallate lasciavano intendere tutto ciò che si poteva intendere.
Il suo datore di lavoro l’ha resa ministro del turismo, nel corso della legislatura, dal momento che questa promozione non poteva essere sancita nell’atto di insediamento del governo, per via di calcoli inerenti l’immagine della delegazione ministeriale. Allora si optò per la soluzione consolatoria del sottosegretariato. La Brambilla doveva essere compensata per aver costruito circoli di plastica in ogni dove e una TV ufficiale di regime. Delle sue imprese ora non resta traccia viva.
Non potendo attirare l’attenzione per l’emergenza di un talento particolare né per una nuova esposizione delle grazie, ha deciso di cambiare arto. Nel corso della Festa dell’Arma, in quel di Lecco, lo scorso 9 giugno, durante l’esecuzione dell’Inno di Mameli, la Brambilla ha teso il braccio al cielo. Anche il padre ha fatto lo stesso gesto. Giochi di arti, sintomo certo del cancro che sta consumendo il Paese.

martedì 16 giugno 2009

SODALITAS LEIBNITIANA
CONFERENZA INAUGURALE

VENERDÌ 19 GIUGNO 2009 ORE 17.45


MASSIMO MUGNAI

Leibniz e la metafisica delle
relazioni: una nuova proposta



NAPOLI, VIA MONTE DI DIO 14
PALAZZO SERRA DI CASSANO
Presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici



Conferenza organizzata dalla Sodalitas Leibnitiana, in
occasione della prima assemblea dei soci, dall’Istituto
per il Lessico intellettuale europeo e Storia delle idee
(CNR) e dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
INFO: http://www.leibnitiana.it

domenica 14 giugno 2009

Addio al cantore degli operai

Era uno dei militanti della canzone italiana. Ivan Della Mea è morto la scorsa notte all'ospedale San Paolo di Milano. Aveva 69 anni. Cantautore, poeta e scrittore, nacque a Lucca il 16 ottobre 1940. Si trasferì presto a Milano, dove fu fra i fondatori, con Gianni Bosio, del Nuovo Canzoniere Italiano, la fucini della canzone italiana di protesta. Nella sua lunga carriera artistica, musica e militanza nelle forze di sinistra si intrecciano coerentemente: le prime incisioni sono incluse in Canti e inni socialisti (1962), compilation commemorativa prodotta per il 70° anniversario del PSI. Della Mea è stato continuamente ispirato dalla tradizione politica del folk italiano, sin dai primi lavori, come prova Ballate della piccola e della grande violenza, lp uscito per l'etichetta Dischi del Sole, la stessa di Giovanna Marini e di Paolo Pietrangeli. Negli anni '60 le sue canzoni, come quelle altri esponenti del Nuovo Canzoniere, diventano progressivamente la colonna sonora alle proteste degli studenti e degli operai. Risale al 1972 una delle sue canzoni più famose, Ballata per Ciriaco Saldutto, dedicata ad un tema più che mai attuale, dal momento che commemora uno studente torinese suicidantosi per la pressione di una bocciatura. Seguendo le inclinazioni di una ricerca continua, aperta a più prospettive compositive, si confrontò anche con espressioni dialettali: El me Gatt è considerata una delle più importanti canzoni italiane di protesta. Nel 1996 divenne direttore dell'Istituto De Martino, l'istituzione dell'antropologia musicale italiana.

Artista a tutto tondo, Ivan Della Mea ha avuto anche esperienze cinematografiche e letterarie. Nel 1969 partecipa alla scrittura della sceneggiatura di Tepepa, cult movie dello spaghetti western interpretato da Tomas Milian e Orson Welles. Con Roberto Benigni partecipa nel 1979 a I Giorni Cantati di Paolo Pietrangeli. Tra le sue opere letterarie: Il sasso dentro d (1990) e Sveglia nel buio (1997). Per Jaca Book è uscita proprio quest'anno la sua autobiografia, intitolata Se la vita ti da uno schiaffo. Giornalista pubblicista ha curato rubriche per L'Unità, per Liberazione e ha collaborato a lungo con il Manifesto.

Iscrittosi per la prima volta al PCI nel 1956, Della Mea ha sempre seguito con attenzione il dibattito interno alla sinistra italiana. Nel 2007, in una dura requisitoria contro l'allora presidente della Camera Fausto Bertinotti, aveva scritto: "Noi siamo stati l'etica della sinistra, quella che è stata distrutta nel nome della ragione di partito. E' questo l'errore più grave che non abbiamo saputo o voluto vedere". In una delle ultime interviste, rilasciata a Liberazione il 15 maggio scorso, Della Mea aveva svolto una riflessione sugli obiettivi comuni della sinistra italiana: "Credo sia molto importante combattere a fondo contro il berlusconismo, perché è trasversale, tocca tutti, sia a destra che a sinistra. C'è bisogno di politica vera, fatta per strada, che venga fuori dalle proprie stanze".

sabato 13 giugno 2009

10 osservazioni polemiche
sulla politica italiana


I. Il Presidente del Consiglio è amico intimo di dittatori, imbavaglia l’informazione, confonde vita pubblica e privata nel salotto familiare di Vespa e, nonostante tutto ciò, si ritiene un liberale.

II. Il Partito Democratico sembra ormai ridotto ad una lega appenninica, né bianca né rossa, arancione sbiadita.

III. La Lega Nord ha un consenso da partito nazionale, piuttosto che da movimento territoriale. Rosicchia voti a destra, a sinistra, a centro. È il primo mostro nello zoo della politica nazionale.

IV. I nostalgici della falce e martello, ingialliti e vinti dal mondo, continuano a battere colpi nella loro notte.

V. L’accozzaglia di Sinistra e Libertà è stata percepita per quello che realmente è: un palinsesto elettorale allestito per non morire democristiani o casinisti.

VI. Di Pietro è il secondo mostro nello zoo politico nazionale. I legalisti intransigenti dalle manette scintillanti stanno a destra delle destre in ogni dove. Paradosso italiano: Di Pietro condottiero di sinistrati in cerca d’autore.

VII. Casini sta valutando il prezzo per offrirsi al miglior acquirente.

VIII. I Radicali sopravvivono alle loro folli scorribande concettuali, affermandosi come una forza significativa. È interessante il progetto di rifondazione della Rosa nel pugno.

IX. I colonnelli della fiamma non meritano menzione.

X. C’è tanta stanchezza in giro.

giovedì 11 giugno 2009

L’eresia catara

Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi addogliati e, come soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso:
– Diremo, o signori, nella ventura lezione, dell’eresia catara.
Uno de’ due studenti, il Ciotta – bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido – digrignò i denti con fiera gioja e si diede una violenta fregatina alle mani. L’altro, il pallido Vannìcoli, dai biondi capelli irti come fili di stoppia e dall’aria spirante, appuntì invece le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei chiari occhi languidi e stette col naso come in punto a annusar qualche odore sgradevole, per significare ch’era compreso della pena che al venerato maestro doveva certo costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien’aveva detto privatamente. (Perché il Vannìcoli credeva che il professor Lamis quand’egli e il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d’intenderlo.)
E difatti il Vannìcoli sapeva che da circa sei mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia di Hans von Grobler su l’Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e che su lo stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due poderosi volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se non solo una volta, e di passata, citando que’ due volumi, in una breve nota; per dirne male.
Bernardino Lamis n’era rimasto ferito proprio nel cuore; e piú s’era addolorato e indignato della critica italiana che, elogiando anch’essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva minimamente ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per rilevare l’indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor paesano. Piú di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi antichi scolari, si fosse mosso a difenderlo; poi, tuttochè – secondo il suo modo di vedere – non gli fosse parso ben fatto, s’era difeso da sè, notando in una lunga e minuziosa rassegna, condita di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui il con Grobler era caduto, tutte le parti che costui s’era appropriate della sua opera senza farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili argomenti le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.
Questa sua difesa, però, per la troppa lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la teneva da piú d’un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione, aveva ricevuto dal direttore.
Sicché dunque davvero Bernardino Lamis aveva ragione, uscito dall’Università di sfogarsi quel giorno amaramente coi due suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso caca. E parlava loro della spudorata ciarlataneria che dal campo della politica era passata a sgambettare in quello della letteratura prima, e ora, purtroppo anche nei sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità vigliacca radicata profondamento nell’indole del popolo italiano, per cui è gemma preziosa qualunque cosa venga d’oltralpe o d’oltremare e pietra falsa e vile tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta, pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall’estro ironico e bilioso del professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannìcoli, afflitto, sospirava.
A un certo punto il professor Lamis tacque e prese un’aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il professore voleva esser lasciato solo.
Ogni volta, dopo la lezione, si faceva una giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi su per quella della Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso Vittorio Emanuele. Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva quell’aria astratta, perché solito – prima d’imboccare la Via del Governo Vecchio, ove abitava– d’entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione) in una pasticceria, donde poco dopo usciva con un cartoccio in mano.
I due scolari sapevano che il professor Lamis non aveva da fare neppur le spese a un grillo, e non si potevano perciò capacitare della compera di quel cartoccio misterioso, tre volte la settimana.
Spinto dalla curiosità, il Ciotta era finanche entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il professore vi comperasse.
– Amaretti, schiumette e bocche di dama.
E per chi serviranno?
Il Vannìcoli diceva per i nipotini. Ma il Ciotta avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il professore stesso: perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva già averne un altra in bocca, di sicuro, la quale gli avea impedito di rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.
– Ebbene, e se mai, che c’è di male? Debolezze! gli aveva detto, seccato, il Vannìcoli, mentre da lontano seguiva con lo sguardo languido il vecchio professore, ti quale se n’andava Pian piano, molle molle, strusciando le scarpe.
Non solamente questo peccatuccio di gola, ma tante e tant’altre cose potevano essere perdonate a quell’uomo che, per la scienza, s’era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli volessero scivolare e fossero tenute su, penosamente, dal collo lungo, proteso come sotto un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis si scopriva come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada zazzeretta argentea, che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava barba davanti – su le gote e sotto il mento – a collana.
Né il Ciotta né il Vannìcoli avrebbero mai supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa tutto il suo pasto giornaliero.
Due anni addietro, gli era piombata addosso da Napoli la famiglia d’un suo fratello, morto colà improvvisamente: la cognata, furia d’inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva appena undici anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studi. Quando, senz’alcun preavviso, s’era veduto innanzi quell’esercito strillante, accampato sul pianerottolo della scala, davanti la porta, a cavallo d’innumerevoli fagotti e fagottini, era rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un momento di scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua modesta dimora erano state invase; la scoperta d’un giardinetto, unica e dolce cura dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani sconsolati, come li chiamava la grassa cognata napoletana. In mese dopo, non c’era piú un filo d’erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato l’ombra di se stesso: s’aggirava per lo studio come uno che non stia piú in cervello, tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela portar via anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel pandemonio imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per lui, questo supplizio, e chi sa quant’altro tempo ancora sarebbe durato, se un giorno non si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a ogni ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:
– Belli grossi, neh, Gennarie’, belli grossi e nuovi!
Mezza la sua biblioteca era andata a finire per pochi soldi su i muricciuoli.
Indignato, su le furie, quel giorno stesso, Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche scansie, un gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole, un ampio seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n’era andato ad abitare solo – in quelle due stanzette di via Governo Vecchio, dopo aver imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da lui.
Le mandava ora per mezzo d’un bidello dell’Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui tratteneva soltanto lo stretto necessario per sé.
Non aveva voluto prendere neanche una serva a mezzo servizio, temendo che si mettesse d’accordo con la cognata. Del resto, non ne aveva bisogno. Non s’era portato nemmeno il letto: dormiva con uno scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il seggiolone Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in piedi com’era solito, mangiucchiava o un amaretto o una schiumetta o una bocca di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un anno di quell’inferno, si sentiva ora in paradiso.
Ma era venuto il von Grobler con quel suo libraccio su l’Eresia Catara a guastargli le feste.
Quel giorno, appena rincasato, Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente.
Aveva innanzi a sè due giorni per finir di stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.
Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla prima parola fino all’ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo carattere. Poi, all’Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per poter vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I banchi, nell’aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro.
L’aula era buja, e il Ciotta e il Vannìcoli all’ultimo ordine, uno di qua, l’altro di là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspìo delle loro penne frettolose.
Là, in quell’aula, poiché nessuno s’era levato in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel tedescaccio, dettando una lezione memorabile.
Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza l’origine, la ragione, l’essenza, l’importanza storica e le conseguenze dell’eresia catara, riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato nella parte polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul libro del von Grobler. Padrone com’era della materia, e col lavoro già pronto, sotto mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a freno la penna. Con l’estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su quell’argomento, due altri volumi piú poderosi dei primi.
Doveva invece restringersi a una piana lettura di poco piú di un’ora: riempire cioè di quella sua minuta scrittura non piú di cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva già scritte. Le tre o quattro altre facciate dovevano servire per la parte polemica.
Prima d’accingervisi, volle rileggere la bozza del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse fuori dal cassetto della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere, con le lenti già su la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul seggiolone.
A mano a mano, leggendo, se ne compiacque tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel seggiolone; e tutte, una dopo l’altra, in meno d’un’ora, s’era mangiato inavvertitamente le schiumette che dovevano servirgli per due giorni. Mortificato, trasse fuori la tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.
Si mise senz’altro a scrivere, con l’intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d’incorporarlo tutto quanto di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d’una arguzia così spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti così calzanti e decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.
Quando fu alla mattina del terzo giorno, che doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla scrivania, ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.
Si smarrì.
Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni anno, in principio, dettare il sommario di tutta la materia d’insegnamento che avrebbe svolto durante il corso, e a questo sommario si atteneva rigorosissimamente. Già aveva fatto, per quella malaugurata pubblicazione del libro del von Grobler, una prima concessione all’amor proprio offeso, entrando quell’anno a parlare quasi senza opportunità dell’eresia catara. Piú d’una lezione, dunque, non avrebbe potuto spenderci. Non voleva a nessun costo che si dicesse che per bizza o per sfogo il professor Lamis parlava fuor di proposito o piú del necessario su un argomento che non rientrava se non di lontano nella materia dell’annata.
Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche ore che gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici che aveva scritte.
Questa riduzione gli costò un così intenso sforzo intellettuale, che non avvertì nemmeno alla grandine, ai lampi, ai tuoni d’un violentissimo uragano che s’era improvvisamente rovesciato su Roma. Quando fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di carta sotto il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci minuti all’ora fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d’ombrello, e s’avviò sotto quell’acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la sua « formidabile » lezione.
Giunse all’Università in uno stato compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l’ombrello nella bacheca del portinajo; si scosse un po’ la pioggia di dosso, pestando i piedi; s’asciugò la faccia e salì al loggiato.
L’aula – buja anche nei giorni sereni – pareva con quel tempo infernale una catacomba; ci si vedeva a mala pena. Non di meno, entrando, il professor Lamis, che non soleva mai alzare il capo, ebbe la consolazione d’intravedere in essa, così di sfuggita, un insolito affollamento, e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari che evidentemente avevano sparso tra i compagni la voce del particolare impegno con cui il loro vecchio professore avrebbe svolto quella lezione che tanta pena e tanta fatica gli era costata e dove tanto tesoro di cognizioni era con sommo sforzo racchiuso e tanta arguzia imprigionata.
In preda a una viva emozione, posò il cappello e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani gli tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta del naso. Nell’aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di sè. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva, gestiva. Il professor Bernardino Lamis, così rigido sempre, così contegnoso, quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel giorno perché con maggior solennità partisse dall’Ateneo di Roma la sua sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.
Leggeva così da circa tre quarti d’ora, sempre piú acceso e vibrante, allorché lo studente Ciotta, che nel venire all’Università era stato sorpreso da un piú forte rovescio d’acqua e s’era riparato in un portone, s’affacciò quasi impaurito all’uscio dell’aula. Essendo in ritardo, aveva sperato che il professor Lamis con quel tempo da lupi non sarebbe venuto a far lezione. Giú, poi, nella bacheca del portinajo, aveva trovato un bigliettino del Vannìcoli che lo pregava di scusarlo presso l’amato professore perché « essendogli la sera avanti smucciato un piede nell’uscir di casa, aveva ruzzolato la scala, s’era slogato un braccio e non poteva perciò, con suo sommo dolore, assistere alla lezione ».
A chi parlava, dunque, con tanto fervore il professor Bernardino Lamis?
Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta varcò la soglia dell’aula e volse in giro lo sguardo. Con gli occhi un po’ abbagliati dalla luce di fuori, per quanto scarsa, intravide anche lui nell’aula numerosi studenti, e ne rimase stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.
Una ventina di soprabiti impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano quel giorno tutto l’uditorio del professor Bernardino Lamis
Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentì gelarsi il sangue, vedendo il professore leggere così infervorato a quei soprabiti la sua lezione, e si ritrasse quasi con paura.
Intanto, terminata l’ora, dall’aula vicina usciva rumorosamente una frotta di studenti di legge, ch’erano forse i proprietarii di quei soprabiti.
Subito il Ciotta, che non poteva ancora riprender fiato dall’emozione, stese le braccia e si piantò davanti all’uscio per impedire il passo.
– Per carità, non entrate! C’è dentro il professor Lamis.
– E che fa? – domandarono quelli, meravigliati dell’aria stravolta del Ciotta.
Questi si pose un dito su la bocca, poi disse piano, con gli occhi sbarrati:
– Parla solo!
Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.
Il Ciotta chiuse lesto lesto l’uscio dell’aula, scongiurando di nuovo:
– Zitti, per carità, zitti! Non gli date questa mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell’eresia catara!
Ma gli studenti, promettendo di far silenzio, vollero che l’uscio fosse riaperto. Pian piano, per godersi dalla soglia lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell’ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.
– ...ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in fondo, che cosa è? Ditelo voi! Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro illustre storico tedesco, signor Hans von Grobler...


(Luigi Pirandello, Novelle per un anno)


domenica 7 giugno 2009

I nodi al pettine
Finalmente è calato giù il sipario. Si sono spenti i riflettori su una campagna elettorale desolante, deformata dai proclami populistici, da venditore di pentole, trasmessi da ogni canale TV, di un premier che confonde sempre di più i desiderata escogitati da una patologica mania di grandezza, con le problematiche dirette, da confronto reale, del Paese. È nervoso. Non riesce ad imbavagliare la stampa libera delle democrazie liberali, non può camuffare, intorpidendo l’elettore cattolico e moralista, le proprie immorali vicende da don Giovanni incontenibile, amante della giovinezza.
Le elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo sono abbinate ad una capillare tornata di prove amministrative. Si vota in ogni dove. Il responso delle urne, domani sera, lascerà intendere quale sia la condizione di salute delle opposizioni, svelando agli osservatori delle tribune elettorali la diagnosi delle patologie autodistruttive che hanno infettato integralmente i partiti sinistri. La compassione dell’elettore probabilmente non decreterà ragioni sufficienti per sciogliere il PD, il partito dalle infinite contraddizioni. È molto interessante la sfida a sinistra, fra la coalizione rossoverde e i veterocomunisti vinti dalla storia. È del tutto improbabile che entrambe le liste superino lo sbarramento del 4 %; è possibile che si attestino entrambe al di sotto della soglia. In ogni modo, Sinistra è Libertà sembrerebbe avere qualche chances in più. Me lo auguro vivamente.
Liberale di sinistra, sacrificando straordinariamente la condivisione dei contenuti del Manifesto del PES, ho votato per la prima volta per i Radicali. Era un'idea che vagava fra i miei pensieri dal giorno in cui la Curia proibì la cerimonia funebre di Welby, consentendo, al contempo, sepolture nelle cripte di chiese di campagna a padrini e camorristi. Una scelta radicale, testimonianza diretta della presa di coscienza di una crisi di orizzonti e valori programmatici che impone processi di rifondazione del centrosinistra italiano. Il coraggio di cambiare o la barbarie berlusconiana. Tertium non datur.

mercoledì 3 giugno 2009

Socrate e compagnia bella

«Caro Michelangelo, tu mi hai chiesto che cos’è la filosofia e io ti ho risposto: non lo so. Bene credimi, sul serio non lo so. Ci campo sopra e anche bene. Oddio bene, diciamo benino. […]
Ad ogni modo per il mio lavoro, ma soprattutto per passione, in questi anni ho frequentato i grandi della storia del pensiero. E quando dico frequentato, intendo nel senso stretto della parola, o quasi. Con Socrate, Platone e compagni bella io sono andato a prendere il caffè, ho fatto lunghe passeggiate chiacchierando un po’ di tutto: di donne, di televisione, del traffico, del cibo, di computer. Insomma, della vita».
Così prende avvio l’ultimo libro di Luciano De Crescenzo: Socrate e compagnia bella, in cui affronta dieci tematiche filosofiche riconducibili al pensiero di altrettanti dieci amici filosofi che lo hanno sostenuto nel corso della sua vita con i loro insegnamenti e, a volte, con le loro follie!
L’autore decide di scrivere il libro per trasmettere a suo nipote Michelangelo tutto ciò che ha ricevuto dai grandi pensatori, rassicurando il quattordicenne che gli parlerà solo dei preferiti perché «i ragazzi, si sa, spesso profumano di ignoranza ed è giusto così, ma poi, quando si cresce è indispensabile la conoscenza. Gli adulti non profumano più e l’ignoranza non aiuta a vivere e tanto meno a pensare con la propria testa e quindi a essere uomini liberi».
Con leggerezza e acume lo scrittore napoletano riesce a cogliere i tratti salienti di ciascun pensator filosofo dipingendone, senza sbavature ed esagerazioni cromatiche, il profilo completo e spesso efficacemente divertente. Eraclito, ad esempio, lo definisce il «primo animalista della storia» perché «se la prendeva con quelli che per purificarsi dei peccati, sacrificavano gli animali”. Inoltre, sempre Eraclito, «si vantava di non aver mai avuto maestri. Quando sentiva il bisogno di consultarsi con qualcuno, era solito dire: “Aspettate un momento che vado a interrogare me stesso”». L’autore, quasi in un dialogo immaginario col filosofo sembra rispondergli sottovoce: “Vorrei farlo pure io, ma finora non sono riuscito ad avere un appuntamento”!
Il capitolo in cui affronta il pensiero di Galileo Galilei lo intitola La curiosità ed è davvero con spirito romantico che lo scrittore offre dello scienziato pisano una immagine tanto familiare quanto rassicurante e sincera, direi quasi da dirimpettaio di un appartamento condominiale: «Io Galileo me lo immagino così: in vestaglia, davanti a una tavoletta di legno, con in mano una palla di bronzo, e con un righello per misurare il livello dell’acqua nel bicchiere».
Per Nietzsche adopera l’aggettivo ‘esagerato’ e dato che fra le innumerevoli intuizioni che gli si possono accreditare, quella che a parere dello scrittore risulta essere più geniale è la dualità esistente tra l’apollineo e il dionisiaco, allora semplificando all’estremo, Nietzsche «nasce apollineo e muore dionisiaco».
Il capitolo di gran lunga più bello, anche perché caro allo scrittore - e tale sensazione la si avverte da subito! - è l’ultimo, quello intitolato Il tempo. Per affrontare la decima ed ultima lezione decide di far ricorso ad una squadra d’eccezione capitanata da Einstein, Sant’Agostino, Bergson e dal regista Federico Fellini. E quando al termine della lezione lo scrittore offre una sua intuizione su ciò che per lui voglia significare il tempo, bè… onora il lettore di una vera e propria pillola di saggezza filosofica.
A questo punto per il lettore ormai Michelangelo è pressoché un ricordo sbiadito. Chi legge, infatti, si è impossessato del ruolo di Michelangelo, veste perfettamente i suoi abiti e fa tutto suo l’augurio che lo scrittor filosofo gli lascia attraverso la carta stampata: «Il migliore augurio che ti posso fare è che questo libro, i suoi insegnamenti, e in generale la Cultura, la filosofia, riescano a regalarti una vita davvero larga».
Il lettore-Michelangelo ringrazia di cuore.