La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 29 settembre 2009

Seguendo un passo
nudo nella notte
Fra Roma e Renacavata (Camerino)


Non ha alcun senso ingannarsi: bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che non tutte le persone che sono inscritte nel circolo soggettivo dell’affettività abbiano la stessa dignità o lo stesso statuto gerarchico. Il cuore con le sue presunte ragioni non è ispirato quasi mai da prìncipi ideali di stampo egualitario o liberalsocialista. Si è disposti a sacrificare tutta una vita per una persona ponendo tutto il resto del mondo sullo sfondo dell’indistinzione percettiva. Amori struggenti possono decomporre l’anima, prima ancora del corpo. Legami di solidarietà reciproca riescono disperatamente a dare un senso alla vita, aiutandomi a dimenticare – come del resto credo – che “ogni cosa alla lunga mi molesta”, come canta Guccini in una vecchia canzone, che ascolto ripetutamente negli ultimi mesi. Le motivazioni per cui possa esserci la disponibilità al sacrificio per una persona piuttosto che per un’altra affondano le loro determinazioni causali nel tessuto delle esperienze condivise fecondato costantemente dalla memoria. L’oblio spegne le relazioni sociali e fa in modo che l’anima scavi in se stessa rifugi in cui accovacciarsi per decenni, o per sempre.


M. è uno dei miei amici più cari, uno dei pochi che non mi stanco mai di rivedere, ascoltare, sentire. Pur non essendo un misantropo – mi considereo piuttosto una finestra spalancata sul mondo – tendo ad essere molto selettivo nella definizione delle possibilità di confronto amichevole. Sono pochissime le persone con cui provo pienamente un senso di piacere intellettuale e di piena soddisfazione nel corso della frequentazione. Nella maggior parte dei casi, dissimulo, per cortesia, la manifestazione della giusta curiosità intellettuale, desiderando comunque che le lancette svolgano velocemente il loro compito per lasciarmi solo con me stesso, con i miei pensieri serali, che per me hanno più significato di infiniti bar e corsi di gente fasulla e ripetitiva. Replicazione reiterata dello stesso tipo sociale. Produzione seriale di fotocopie malriuscite e sbiadite . . . Venerdì della scorsa settimana ho avuto l’occasione, attraversando le viscere di Roma e conversando sine ratione con diversi ragazzi in diversi momenti della giornata, di comprendere che qualche nota di confronto estemporaneo possa avere davvero più senso di diverse esistenze consacrate alla noia delle periferie e delle giornate opache. Su una panchina antistante la facciata laterale della facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata, ho conversato per un’ora con una studentessa anonima che mi ha presentato la collezione dei momenti più significativi della sua esistenza, trascurando di dirmi come si chiamasse. È intelligente, riflessiva, pacata nei modi, tutt’altro che rassegnata a recitare la parte che i manovratori occulti della nostra società avrebbero intenzione di affidarle (eh già, rinunciare alla storia della fotografia per dare il resto dalla cassa di un supermarket abbandonato dal mondo o affettare salami ungheresi). Cerco gente così.




M
. rientra senza dubbio nella categoria. Poche settimane dopo il nostro primo incontro – avvenuto nel corridoio del secondo piano della palazzina A della Facoltà di Lettere e Filosofia di Cassino – avevo già compreso che saremmo diventati testimoni di un legame di amicizia, intrecciato dalla tutela dei motivi di differenza. Vicenda dell’autunno del 2002. M. ora ha intrapreso un sentiero di santificazione dell’esistenza, consacrando la sua disponibilità alla perenigrazione da un convento cappuccino all’altro. Il convento di Renacavata è un luogo dell'anima. Dovevo essere presente alla cerimonia di professione semplice con cui è entrato a far parte ufficialmente della grande famiglia francescana. Ho dormito in convento. Alle 5.50 di domenica 20 settembre la terra ha tramato. Magnitudo 4.6. Vecchie strutture rette da incastri di nuda pietra. Il sonno inquieto viene spezzato dalla vertigine. Per pochi istanti ho pensato che stessi per sprofondare per le vie anguste dell’Ade, dimenticato da notti anonime, sepolto da un brandello di calce polverosa. Non mi sono rifugiato sotto il letto, così come non ho tentato di fuggire. Inspiegabilmente mi sono rassegnato. Timori e tremori di solitudine estrema. Non ho divinità da ringraziare. Cerco solo di dormire per tentare di colmare la voragine che la notte marchigiana ha scavato nel mio petto.

sabato 26 settembre 2009

Blogger per le libertà
(quelle autentiche)



Lo scarso impegno della politica nella diffusione della banda larga sul territorio e nell’alfabetizzazione informatica della popolazione e l’inarrestabile susseguirsi di iniziative legislative volte a scoraggiare l’utilizzo della Rete come veicolo di diffusione ed accesso all’informazione costituiscono indici sintomatici della ferma volontà di non consentire che la Rete giochi il ruolo che le è proprio: primo vero mezzo di comunicazione di massa ed esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nella storia dell’umanità. L’emendamento D’Alia sui filtraggi governativi dei contenuti, il DDL Carlucci contro ogni forma di anonimato, il DDL Lussana finalizzato ad accorciare la memoria della Rete, il DDL Alfano attraverso il quale si vorrebbero applicare all’intera blogosfera le disposizioni in tema di obbligo di rettifica nate per la sola carta stampata e, infine, il DDL Pecorella – Costa, con il quale ci si prefigge l’obiettivo di trasformare ex lege l’intera Rete in un immenso quotidiano e trattare tutti i suoi utenti da giornalisti, direttori o editori di giornali non possono lasciare indifferenti. Esiste il rischio, ed è elevato, che ci si risvegli un giorno non troppo lontano e ci si accorga che la Rete è spenta e che la prima e l’ultima speranza di uno spazio per l’informazione libera è naufragata. Muovendo da tali premesse riteniamo importante che la blogosfera e la Rete italiana partecipino alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà di informazione, sottolineando che esiste una “questione informazione in Rete” che non può e non deve passare inosservata perché se la libertà della stampa concerne il presente quella della blogosfera riguarda, oltre il presente, il futuro prossimo di ciascuno di noi. L’auspicio è pertanto che quanti hanno a cuore le sorti dell’informazione in Rete, il 3 ottobre aderiscano alla manifestazione chiedendo alla politica che, in futuro, ogni iniziativa governativa o legislativa si ispiri a questi elementari principi di libertà e democrazia che costituiscono la versione moderna dell’art. 11 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino: La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi per l'uomo: quindi ogni cittadino può parlare, scrivere, pubblicare in Rete liberamente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge. Nessun sito Internet può formare oggetto di sequestro o di altro provvedimento che ne limiti o impedisca l’acceso se non in forza di un provvedimento emesso dall’Autorità giudiziaria nell’ambito di un giusto processo. L’attività di informazione on-line di tipo non professionistico e non gestita in forma imprenditoriale è libera ed il suo svolgimento non può essere soggetto ad alcun genere di registrazione o altro adempimento burocratico. La disciplina sulla stampa e quella sull’editoria non si applicano alle attività di informazione on-line svolte in forma non professionistica ed imprenditoriale. Nessuno deve venir molestato per le sue opinioni, fossero anche sediziose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge.

venerdì 25 settembre 2009

La carriòla
L' eroe dimenticato


Frugando tra le carte dimenticate nel fondo di un vecchio baule, ho trovato un ingiallito foglio di giornale datato 8 maggio 1978. L’articolo, qua e là macchiato dai segni del tempo, mi ha incuriosita. Ve lo propongo.

Il personaggio epico per antonomasia è, non si sbaglia in proposito, Odisseo, ovverosia Ulisse secondo la terminologia latina. La parola ‘eroe’ deriva dal greco e in origine significava “uomo nato da un dio e da un essere mortale”, il quale dimostrava la propria natura semidivina compiendo imprese impossibili ad uomini normali; poi il termine è stato esteso ad indicare chiunque (anche non “semidio”) compia gesta notevoli. Quando un racconto o un poema hanno per protagonisti degli ‘eroi’, allora si suole adoperare il termine ‘epico’ per indicare il genere di racconto che si occupa di avvenimenti grandiosi, tali da colpire la fantasia degli uomini e nei quali intervengono personaggi eccezionali (fortissimi, audacissimi, intelligentissimi), appunto gli ‘eroi’.
Negli ultimi anni anche il cinema ci ha offerto una forma particolare di eroi o di anti-eroi, se si vuole. A giudizio di chi scrive sembra del tutto verosimile poter individuare le caratteristiche del personaggio epico, al di là - seppure non troppo lontano - della mitologia greca, anche in quella figura polverosa che lenta s’allontana verso il tramonto sistemato lì giù a bella posta a separare con la precisione della livella, la terra sconfinata dall’eterno cielo color zafferano stanco. È il cow-boy. Non un cow-boy qualunque, uno di quei tanti che ci hanno esibito negli innumerevoli film western interpretati da John Wayne (di cui ne abbiamo avuto ben donde). Bensì, il cow-boy senza nome, l’eroe solitario sperduto nel selvaggio west alla ricerca del bottino da arraffare, il cow-boy che ha una mira eccellente, che accende il fiammifero sfregandolo sul tacco dello stivale e che riesce a spostare il sigaro da un lato all’altro della bocca senza farlo cadere. Il cow-boy – eroe epico è, se si vuole, quella figura mitica venuta fuori dall’estro impareggiabile del maestro Sergio Leone, a cui il cinema italiano deve tributare onore e rispetto per quella rivoluzione ed evoluzione che ha apportato alla pellicola cinematografica grazie alle sue idee innovative che si son scoperte in quei primi piani mai realizzati prima (il cinematografo americano, ad esempio, ha sempre preferito l’inquadratura fin sotto la cintola perché considerato d’obbligo far rientrare nell’inquadratura stessa anche la pistola, oggetto simbolo dell’eroe di turno), o nei campi lunghissimi che si perdono oltre gli spazi sterminati di Almerìa, e ancora, nei tempi decisamente prolungati che tracciano tutti i profili del duello classico tra gli antagonisti del film.
La trilogia western –
Per un pugno di dollari (il cui budget è stato talmente misero da indurre gli autori a rispecchiare simpaticamente la malconcia situazione economica nel titolo dell’opera e per la quale - altra curiosità - il regista, allo scopo di sprovincializzarla, ha ritenuto opportuno trasformare il proprio nome nel ben più americanizzato Bob Robertson), Per qualche dollaro in più e Il Buono, il brutto, il cattivo – è un vero trionfo di genialità. I duelli sulla piattaforma circolare di pietra e i primi piani che scandiscono i minuti precedenti la pressione del dito sul grilletto e i movimenti lenti, filmati alla perfezione, apoteosi bizzarra mescolata all’ansia dello spettatore che attende lo sparo e il cattivo stramazzare al suolo; e poi la musica, che non è affatto di contorno – la musica del maestro Morricone non è un contorno ma l’essenza stessa in cui si riflette la scena – è la colonna sonora dell’eroe (eroe che sovente nei film di Leone è anch’esso un farabutto, sebbene alcuni lampi di altruismo nascosti sotto lo sguardo glaciale tendano a renderlo decisamente interessante) che calpesta il delirio deplorevole del furfante: la verità che trionfa sull’ingiustizia. In C’era una volta il west
, il battito delle ciglia, il galoppo, tutto, tutto deve assolutamente procedere a passo con la musica. Sapienza certosina e perfezione meticolosissima di un regista che non ha assolutamente rivali degni di nota che lo intimidiscano.
La leggenda si rispecchia nell’espressione barbuta di un genio sistemato dietro e avanti la macchina da presa. I ragazzini di qualche anno fa che, fantasticando, immaginavano di essere il cow-boy o l’indiano di turno, sono stati spodestati dai nuovi ragazzini che sognano ora di esser il Biondo (il buono), Sentenza (il cattivo) o Tuco (il brutto).
Al maestro dell’ingranaggio perfetto non si può non chiedere di continuare ad inventare eroi che ci tengano col fiato sospeso quando comodamente ci sistemiamo nelle poltroncine rosse per catapultarci, col delirio dell’adolescenza, sulla scena di un racconto epico moderno.
(A.I.)

Eroe: chi dà prova di grande abnegazione e di spirito di sacrificio per un nobile ideale…
È delle ultime settimane il dramma che s’è consumato a Kabul. Mi si ripropone il tema dell’eroismo. Una signora intervistata per il tg1 ha esclamato: “Hanno combattuto per noi…”. Forse mi sono persa qualcosa…Come hanno combattuto? ma non erano in missione di pace?
Sono d’accordo con Francesco quando scrive: “Sono vittime di un lavoro rischioso di cui erano perfettamente consapevoli”, sebbene creda che la penuria di lavoro possa essere uno dei motivi che spingano alcuni temerari a scegliere quest’attività tanto pericolosa.
Operai, minatori, camionisti, ferrovieri, poliziotti, carabinieri, chiunque s’adopera in un’attività non necessariamente intellettuale, chiunque adopera l’ingegno e le mani, quest’immensa energia produttiva non lavora forse per lo Stato, non compone il meccanismo delicato che mantiene in piedi la società? L’ingegnere progetta palazzi ed edifici che possano ospitare adeguatamente (e molto spesso non tanto adeguatamente da reggere all’attacco dei terremoti) uffici, scuole, ospedali, insomma le strutture pubbliche in genere; ma se non ci fossero i muratori, chi realizzerebbe l’opera impressa sulle carte? Eh già, dice, eroe è colui che si batte per un ideale, e pure nobile. Non è eroe, allora, anche Peppino Impastato (il giornalista siciliano ammazzato dalla mafia) e chi come lui tenta di spostare l’ago della bilancia verso il piatto della giustizia? Perché non tributare i funerali di Stato anche a quest’altri italiani? Ma questi so’ italiani scomodi. Chi gliel’ha fatto fa’? Eh sì, indubbiamente, so’ dei poveri stronzi che hanno immaginato – meglio sognato – di cambià le cose, di morì attaccati alle rotaie d’un treno perché volevano fa’ la storia. Eh, vi vedo cari lettori, cominciate a strofinare il sedere sulla sedia perché non vedete l’ora che finisca sto’ strazio di noja e di luoghi comuni. Forse. Ma mi dite voi a che serve inviare militari in missione di pace in un paese che di pace non ne vuole proprio sentir parlare? Ma come, l’agguato ai soldati era stato costruito alla perfezione e grazie alla complicità della popolazione locale! e allora?
È pure di questi giorni un’altra vicenda di cronaca: l’uccisione di una ragazza musulmana per mano del padre. Motivo: la colpevolezza di lei di essersi innamorata d’un giovane italiano, quindi di un non musulmano. Con tutto il rispetto per il popolo di Allah (in fondo il Padre Eterno è uno solo e ognuno lo chiama a modo suo), io non riuscirò mai a comprendere la sua visione del mondo. Come possa un padre reputare doveroso assassinare quella che è carne della sua carne, non lo capirò mai. È vero, spesse volte il telegiornale ci presenta notizie raccapriccianti di madri che uccidono i propri figlioletti, di padri stupratori, di parricidi, di matricidi, ma ogni volta, in questi casi, l’unico senso che si riesce a trovare sta rinchiuso nella follia. A volte neanche in quella. Ma il punto è, a proposito dei propositi islamici, che non si può davvero interferire con idee, convinzioni, tradizioni così radicate e radicali e tanto diverse dalle nostre. Ma riprendiamo le fila del discorso.
L’intervento armato come missione di pace (che di per sé è già contraddittorio) allora, pare quasi la cronaca di un fallimento annunciato e assomiglia all’intervento della Santanchè (santa n’ de che!?) alla manifestazione di protesta anti-burka alla festa per il fine Ramadan presso la Fabbrica del vapore di Milano, dove l’ex-parlamentare ha rimediato una ‘contusione all’emitorace sinistro e una contrattura alla muscolatura latero-cervicale’ per aver tentato di strappare il burka ad una donna musulmana al fine di opporsi (lei, la Santanchè!) al potere che l’uomo islamico esercita sulla donna, per ‘lottare’, come ha dichiarato la moderna Antigone (o Lisistrata?), contro la supremazia di violenza che calpesta l’onore delle donne musulmane “perché gli uomini musulmani non hanno mai provato a stare sotto il burka, non sanno cosa significa respirare sotto quel lenzuolo” e osservare il mondo dietro una retina; e per tutta risposta una donna musulmana ha chiarito che l’obbligo in realtà non esiste (su questo avrei dei dubbi…) e che di fatto portare il burka vuol dire mostrare rispetto per la tradizione e la religione. Santanchè, che hai fatto? Poverina, credeva che con quel gesto da donna emancipata avrebbe buttato all’aria secoli di storia e tradizione! Povera sciocca. Non ha davvero capito che anche il suo è stato un atto di violenza, un volgare atto esibizionista contro la cultura di un popolo. Ma di che t’impicci? Forse volevi trasformarti in un’eroina, dato che l’incantesimo che t’ha resa sgualdrina e misera lacchè del potere politico non riuscirebbe a sciogliersi nemmeno se proponessi un dibattito politico solitario nell’unica trasmissione che riconosce questo sacrosanto diritto, tanto sacrosanto da proporsi come sola scelta per il telespettatore stanco che pensa di riposarsi davanti ad un buon programma offerto dal palinsesto dopo una lunga giornata di vero, duro lavoro. Ecco chi è il vero eroe.

Il mio blaterare non è mancanza di rispetto per i morti. Non fraintendetemi. Questa mancanza di rispetto permettetemi di individuarla, invece, nell’espressione di circostanza esasperata e forzata che i perbenisti mostrano in televisione quando accadono simili tragedie. Scorrono le bare e i volti dei familiari massacrati dal dolore, scorrono i volti ipocriti dei politici che tributando i funerali di Stato credono di aver assolto tutti i loro doveri. Camminano con l’occhio affranto, col lutto sotto il braccio per poi azzuffarsi alla prima occasione facendo credere che si curano realmente dei problemi della gente.
Adesso gli eroi sono i familiari delle vittime, i figli che hanno perso i padri, le madri che respirano piano sui corpi lacerati dal tormento, le mogli che non avranno più l’abbraccio del ritorno. Sono eroi anch’essi, sì: dovranno saper continuare a vivere portando nel cuore solo un ricordo.
* * * * *
Memorie eroiche

Mentre fredde lacrime disegnano
le tristi sponde di un viso eburneo e dolente,
un raggio di lungo spazio
penetra tra i riflessi sonori di un canto
accennato appena da bocche assenti.

La tua mano soldato, valorosa e forte,
si staglia tra le increspature dorate
di quel tramonto sconosciuto
in un paese velato dalle
polveri corrotte delle milizie armate.

Si può forse raccogliere la pena
nel petto delle madri e delle spose
che romite e stanche
si abbandonano al ricordo
caduto nella vastità allegorica
di un drappo tricolore?

Soldato, padre valoroso,
le tue gesta e i tuoi onori
vibrano nelle menti degli astanti che
miseri ed inermi
bramano soltanto
l’invasione poderosa
di un oracolo consolatorio.

[Diciotto novembre duemilatre]

venerdì 18 settembre 2009

Funerali di Stato per ogni vittima del lavoro


La tragedia afghana non può lasciare affatto indifferenti e stimola importanti riflessioni di carattere politico sull’opportunità di prolungare la finzione per cui cittadini italiani siano impegnati in operazioni di pace in un territorio in cui – come risulta evidente ad ogni osservatore attento – sono in realtà in corso scorribande belliche. I Talebani stanno avanzano nella riconquista del Paese e non si deve affatto sottovalutare la possibilità che possano rovesciare il governo “democratico” di Hamid Karzai. In realtà è inutile prendersi in giro: Islam e democrazia sono fisiologicamente incompossibili. Al limite si può confidare nell’affermazione di un’oligarchia temperata o in regime apparentemente dal volto occidentale (come quello di Mubarack in Egitto).


La commozione e la disperazione delle vedove e dei familiari affranti dei parà assassinati merita rispetto assoluto e il cordoglio nazionale. Ma non i funerali di Stato. Per nessuna ragione al mondo. L’Italia non si è affatto liberata dalla retorica fascista dell’onore della Dea Patria. Quella gente stava lavorando dignitosamente. Non ha scelto di andare in Afghanistan per ragioni ideali o ideologiche. Non sono martiri di nulla. Sono vittime di un lavoro rischioso di cui erano perfettamente consapevoli. Nessuno ha imposto loro di lasciare le famiglie per la missione. Lo stesso discorso vale ovviamente per i caduti di Nassirya. Onde evitare discriminazioni fra esequie di serie A e di serie B, sofferenze più autorevoli – da pompa magna – di altre (è risaputo, piuttosto, che le sfumature della sofferenza e dello strazio seguono esclusivamente le dinamiche del cuore) ogni vittima del lavoro meriterebbe i funerali di Stato. Se domani un muratore dovesse cadere da un’impalcatura, quell’uomo meriterebbe – in caso di morte – lo stesso trattamento concesso ai sei sfortunati compatrioti morti in Afghanistan: sfilata di parrucconi senza speranze.

La carriòla
Al di là dello specchio
'Silhouette consuete di parvenze'

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso. Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto”.

È questo l’incipit della novella pirandelliana intitolata La carriola. Oggi, dunque, tenterò di spiegare il motivo che m’ha spinta a scegliere questo titolo per la rubrica settimanale.

La novella si apre con la descrizione di un avvocato, padre di famiglia, che si sta recando nella propria abitazione dopo una lunga giornata di lavoro. Il protagonista sta viaggiando in treno, e mentre attende che il viaggio si concluda, cerca di trovare una soluzione ad una causa inoltrata da un suo cliente. Mentre sfoglia le carte da studiare ad un certo punto alza gli occhi e inizia a guardar fuori dal finestrino. Guarda, ma non vede nulla, assorto com’è nella difficoltà di quella causa. "Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità dalla campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano". Piano piano, però, quasi si fosse allentata l’attenzione rivolta alla difficoltà che l’occupava, il protagonista comincia ad immaginare di vivere una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, là, in quella infinita lontananza scorta attraverso il finestrino del treno. S’addormenta e continua a sognare "quella vita che non era nata". Quando il treno sta per giungere a destinazione egli si ritrova "d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come votati di senso". Poco più tardi, mentre l’avvocato si accinge ad aprire la porta della sua abitazione, resta come impietrito ad osservare la targa ovale, d’ottone, sulla quale è riportato il suo nome, i suoi titoli, i suoi attributi scientifici e professionali e ad un tratto comincia a ‘vedersi da fuori’, ad osservare la sua vita ‘da fuori’ per non riconoscersi e non riconoscerla sua. Dunque, si chiede, chi è quell’uomo fermo dinanzi alla porta di casa con la busta di cuojo sotto il braccio, chi lo ha voluto così, chi lo fa muovere e parlare e chi gli ha imposto tutti quei doveri uno più gravoso e odioso dell’altro? “Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro - ero io? io? propriamente? ma quando mai?”. Anche il pensiero della moglie e dei figli gli si rivela gravoso, quasi non gli appartenessero, perché lui non è l’uomo che essi credono di conoscere. Ma proprio il pensiero dei ragazzi, del fatto che avessero bisogno delle sue cure, dei suoi consigli e del suo lavoro riesce a farlo rientrare in se stesso, nell’uomo insoffribile che sta davanti alla porta.
Nel momento in cui apre la porta egli non solo entra nella sua casa ma rientra anche nella vita di prima. Si rifugia così nel suo studio e comincia a rendersi conto di non poter liberarsi dalla forma che gli altri gli hanno dato; può soltanto ribellarsi, vendicarsi, per un attimo solo, ogni giorno con quell’atto che compie nel massimo segreto e cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, perché nessuno lo veda. Anzi! Guai se lo vedessero!
E a questo punto non posso assolutamente privare il lettore del fascino letterario che emerge dalla penna dello scrittore agrigentino. Non proverò a riassumere nulla, ma riporterò il finale della novella così com’è stata scritta dal maestro:

Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja. Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire: ‘Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno’. Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardato così. Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro. Questo è tutto. Non faccio altro. corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile. Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere - ripeto - che non è nulla, che stia tranquilla, che non mi guardi così. Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio. Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita”.

L’umorismo pirandelliano non è solo poetica; è anche l’espressione coerente del pensiero e della cultura del relativismo filosofico. Lucido interprete della crisi dell’uomo contemporaneo angosciato dalla solitudine e dall’alienazione, Pirandello, nelle sue opere, mette a nudo il vuoto e la falsità di un mondo fondato più su ciò che appare che non su ciò che è e avvia una spasmodica ricerca della verità fino ad arrivare a concludere che non esiste una sola verità, ma ne esistono tante quante sono le situazioni e gli individui. Questa concezione relativistica della vita e dell’uomo si esprime, nelle sue opere, attraverso una serie di situazioni paradossali e assurde a cui l’autore guarda con amara ironia, ma anche con un sentimento di umana pietà.
Il titolo della rubrica è dunque una forma d’omaggio all’arte letteraria di Pirandello, ma è anche un modo d’ intendere la mia scelta di collaborare allo sciorinamento telematico delle pieghe libertarie!
Come il protagonista della novella, che col suo gesto quotidiano si libera della realtà soffocante che lo attanaglia senza requie, afferro la mia penna e lascio che scorra veloce sul foglio bianco, così, per avvalermi di una certa capacità di movimento, di una certa sensazione di libertà. Penna e foglio dovrebbero essere gli unici testimoni di questa folle corsa alla libertà, ma il delirio peggiore sta proprio nel fatto di scrivere, così, liberamente davanti a tutti. Scrivere è un po’ guardarsi dal di fuori, è un po’ evadere dalla realtà, per sentirsi liberi, per guardarsi vivere e non morire di noia.

martedì 15 settembre 2009

Cometa


Dea Musica
Volare, sentire l’anima sublimare all’infinito nel circoscritto tempo di una canzone, trovarsi in un luogo sconosciuto restando comodamente seduti in un angolo della stanza o stesi con un cuscino poggiato sul viso a creare una notte artificiale. Commuoversi, ricaricare le pile dell’esistenza senza far più caso alla gravità, alla pioggia, allo scorrere del tempo e alla recessione.
Il potere della musica è grande. Come una cometa lentamente taglia in due la volta celeste. Un astro che lascia dietro sé polvere inquieta, fluorescente. Un fenomeno che affida a chi l’osserva un ricordo indelebile, meraviglioso, sempre vivo, uno scrigno da conservare gelosamente.
Una canzone contiene gioie, delusioni, sdegnose verità, ma forse il potere più grande che ha è quello di far germogliare continuamente sogni, speranze e amori.



BELLEZZA-Marlene Kuntz > Bianco Sporco (2005)

Noi sereni e semplici o cupi ed acidi,

noi puri e candidi o un po' colpevoli

per voglie che ardono:

noi cerchiamo la bellezza ovunque.

E noi compresi e amabili o offesi e succubi

di demoni e lupi,

noi forti ed abili o spenti all'angolo:

Noi cerchiamo la bellezza ovunque.

E passiamo spesso il tempo così,

senza utilità (quella che piace a voi)

senza utilità (perché non serve a noi)


lunedì 14 settembre 2009

Invito alla lettura di What a Carve Up!
di Jonathan Coe



L'opera richiederebbe diverse ore di tempo per poter essere presentata degnamente. Purtroppo diverse faccende impongono la definizione di una presentazione più scarna che, in nessun modo, intende essere una soluzione sbrigativa o superficiale, fatta soltanto per salvare le apparenze. Nelle opere di Jonathan Coe si svela il volto autentico dell'Inghilterra e - in particolar modo - di Londra, spoglio delle facili mitizzazioni da agenzia turistica che sono diffuse con disinvolutura dai media. Cartoline interessate. A pochi passi dalle arterie centrali della City si sviluppano nella nebbia vie e parchi intristiti dalla foschia che difficilmente potrebbero essere frequentati con spensieratezza nelle ore serali. Versione vagamente più elegante delle più squallide realtà deturpate della provincia italiana. In questo senso, i romanzi di Coe denunciano sempre delle disfunzioni sociali.

Nel caso specifico, l'attenzione del lettore viene attirata da una rete di trame ad incastro in cui i destini dei protagonisti si intrecciano variamente, sviluppando la magistrale lezione di Italo Calvino. Si intersecano le vicende private di Michael Owen - scrittore intorpidito senza particolari qualità, abbandonato dall'ispirazione e tradito dalla vita - con la logica del potere e della sopraffazione attuata da una famiglia corrotta fino in fondo dalla spregiudicata ricerca di interessi lucrativi - gli Winshaw appunto - di cui Michael - non senza un motivo come si scoprirà nelle ultime pagine - è stato incaricato di narrare le gesta da Tabitha, reclusa per tutta la vita in un manicomio per essersi opposta al (pre)potere del fratello Lawrence. In realtà, al lettore attento la patologia mentale della zia matta apparirà - fino all'ultima clamorosa pagina - soltanto un pretesto strategico di eliminazione di un parente scomodo. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, Lawrence ha venduto ai tedeschi il fratello, il buon Godfrey, impegnato nell'aviazione. La famiglia Winshaw ha raggiunto l'apice del successo nel corso degli anni folli dei governi di Margaret Thatcher. Liberismo estremo fino al delirio della discriminazione sociale. Un nipote di Lawrence e Tabitha, Henry, il politico di famiglia, è consigliere e sostenitore sfrenato della Lady di Ferro soltanto fino al momento in cui quelle frequentazioni risultano fruttuose. Ciò spiega il suo imbarazzante passato da deputato del Labour Party. Da laburista sosteneva i conservatori. Ciò che conta è l'esclusivo interesse di sfruttare al meglio le circostanze per attivare il motore dell'Avidità, macchina di frantumazione di ogni barlume di moralità. Suo fratello Thomas è un banchiere disposto ad offrire l'anima in pasto al diavolo pur di far rientrare le proprie speculazioni spregiudicate nei margini di una legalità fittizia. Figlia di Lawrence, Dorothy ha trasformato una fattoria di campagna in un campo di concentramento volto alla produzione industriale di prodotti alimentari contagiati da tossine di morte. Scatolame da supermarket dell'intossicazione Figlio di Godfrey, Mark è un criminale che trae smisurati profitti dagli affari che combina con Saddam Hussein ai tempi della Guerra del Golfo. A lui si oppone, l'intrepido Graham . . . Mortimer è fratello di Lawrence e Tabitha. Assente per quasi tutta la narrazione, si rivelerà - nelle pagine finali dell'opera, sperimentazione autentica di un thriller- il protagonista assoluto del romanzo, l'autore del riscatto dettato dall'odio e della vergogna. Mortimer agisce, riscattando alfine i soprusi attuati dai suoi stessi figli. Roddy è un mercante d'arte che non fa altro che ingannare giovani artiste, portandole a letto in cambio della promessa - mai mantenuta - di allestire mostre o esposizioni; a lui si oppone - per certi versi - Phoebe. Dopo aver fatto fallire un'importante società presso la quale ha svolto mansioni manageriali, Hilary si è inventata opinionista per una testata molto popolare; la sua rubrica orienta fino alla manipolazione l'opinione pubblica, in relazione agli interessi esclusivi di famiglia.
Carattere di incontro fra Michael e i Winshaw, il vecchio detective Fidley - anch'egli assoldato da Tabitha, la cui caratterizzazione offre a Coe lo spunto per denunciare la persecuzione liberale dei gay attuata fino a qualche anno fa nella civile England. Fidley consuma la sua esistenza a fasi alterne in prigione, per pagare la ricerca di piaceri effimeri nei servizi pubblici.

Per interesse, gli interessi dei Winshaw sono intrecciati. Le loro fortune derivano da continue agevolazioni reciproche. Nulla avviene a caso. Nulla si concede in cambio di niente. Le anime si prostituiscono nel bordello della Londra thatcheriana. Ricca di invenzioni, profili, raffigurazioni estremamente realistiche e di note mai scontate di intrattenimento, l'opera è grandiosa e monumentale, a tratti irripetibile. Diario corale di un delirio statale di (pre)potenza oligarchica.

La famiglia Winshaw è un romanzo che ogni lettore dovrebbe leggere, non solo per sviluppare una comprensione di sistema dell'Inghilterra degli anni '80, ma anche per chiarire alcuni fenomeni sociologici che sono stati disseminati nella provincia italiana dal cancro berlusconiano.

Ogni lettore italiano può raffigurarsi almeno un'esemplificazione nostrana di famiglia Winshaw. L'invito alla lettura vuole essere un invito al riscatto, rinunciando ovviamente ai tratti estremi delle ultime pagine del romanzo - pubblicato in Inghilterra nel 1994 - per sciogliere politicamente questo cappio nazionale.

Jonathan Coe, La famiglia Winshaw, traduzione di Alberto Rollo, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 478, Euro 8.50

domenica 13 settembre 2009

DOMENICA


Un giorno grigio, triste, troppi pensieri nutrono la mia ansia mai sazia.
Avrei voluto che quella porta si aprisse, se quella casa m’avesse accolto adesso sarei certamente più sereno e la mia anima non setirebbe così forte la voglia di evadere, il mio amico non c’era.
Piove, sulle case, sulle auto ferme ai semafori, piove su “questi cazzo di anni zero” e piove anche un po’ dentro me…

"L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando gli sei vicino".

Charles Bukowski

sabato 12 settembre 2009

La consolazione
del sabato sera


<<Rectius sentiuntur bona malis permixta: nec malorum cumulus bona superare credendus, cum exigua pars universi vel, si mavis, civitatis Dei nobis nota sit, & exigua malis specimina sufficiant ad utilitatem, quam bonum capit ex malo. Nihil prohibet etiam fixas innumeras incoli a creaturis felicibus & in spatiis coelum stellarum ambientibus bona abundare>>

Si ritiene giustamente che i mali
siano commisti ai beni e non è da stimare
che il cumulo dei mali prevalga sui beni,
dal momento che ci è nota un’esigua regione dell’universo o, se preferisci, della Città di Dio,
e gli scarsi indizi del male sono sufficienti
a presentare l’utilità che il bene trae dal male. Nulla vieta, inoltre, che innumerevoli stelle fisse siano popolate da creature felici e che negli spazi circondanti il cielo stellato sovrabbondino i beni.
Estratto di un testo inedito di Gottfried Wilhelm Leibniz tradotto da Francesco Giampietri.

venerdì 11 settembre 2009

La carriòla
Trompe-l'oil
E pensare che avevo quasi deciso di abbandonare la nave… e dicevo tra me: “Ma chi vuoi che legga articoli che si perdono nei meandri delle pagine sconfinate della beneamata letteratura. A chi vuoi che interessi conoscere le mie lucide follie che fanno capolino tra i capolavori di scrittori russi o portoghesi. Chi può trovare interessanti quei perduti componimenti poetici che si sbracciano e sbraitano e mi minacciano con i loro versi e versacci perché pretendono di vedersi riconosciuta almeno la pubblicazione sul blog?”. Strano modo di comunicare. Curioso amplesso di favole sempiterne che impongono all’essere umano il desiderio, a volte increscioso, altre volte puramente da analisi psichiatrica, di rivelare ciò che, silenzioso, macina dentro l’anima.
Ecco quali pensieri si proponevano l’uno dopo l’altro come visitatori presuntuosi e inopportuni e mentre io stavo già tentando di accontentarli nelle loro richieste…♪ ♫ ♪…la colonna sonora di Lupin (la mia suoneria. Reminiscenze infantili! Ma la sigletta soffiata nella fisarmonica del cartoon era davvero tanto carina!) comincia a reclamare la mia attenzione. Rispondo. L’autore del blog mi propone l’inserimento di una ‘mia’ rubrica. Che dirgli? Che qualche rigo più su avevo pensato bene di dare le dimissioni e tuffarmi con la mia piccola scialuppa nel mare dell’incertezza? Sì, va be’. Glielo confesso. Ride. Ride? Ma non sto scherzando! Tra i suoi incontestabili articoli filosofici e l’estro inconfutabile del buon Mirza, la mia penna diventa assolutamente inopportuna! Santa Misericordia (espressione questa che, a detta di qualcuno, vale come segno di identificazione), non c’è scampo per me! C’è un piccolo legnetto, lì lontano, lo raggiungo e cerco di approdare alla riva della razionalità.
Ma mentre il pensiero silenzioso mi ubriaca con tutte queste congetture, il silenzio viene interrotto dalla mia folle risposta sonora: «Mah, vedremo. Cercherò di pensare al titolo da dare alla rubrica». Com’è che a volte si pensa una data cosa e dalla bocca vien fuori il pensiero materializzato al contrario? No. Non cito in giudizio l’incoscienza, né tanto meno l’acume investigativo di Freud e compagnia bella. L’ho detto: lucida follia. Solo, lucida follia.
Ah, il titolo della rubrica? La carriola...

giovedì 10 settembre 2009


EMANUEL CARNEVALI


« Volevo maledire i miei occhi encefalitici,

ma non maledissi nulla,

perché la mattina era bella e c'era pace nel mio cuore. »

(Emanuel Carnevali, Castelli sulla terra - Le montagne)




Fuggito a New York a sedici anni da un padre reazionario e violento, genio precoce quanto sregolato, dotato di una scrittura potente e lucidissima, Carnevali trascorre anni difficili in America, quotidianamente a combattere per non morire di fame.
Scrive quando può, nei rari momenti in cui non è impegnato a tenere pulito il Lincoln Park, quando non è costretto a lavorare come uno schiavo nelle sale da pranzo e nelle cucine di noti ristorati e alberghi, quando l’encefalite letargica permette di farlo.
Dimenticato dalla critica e dal pubblico, ha lasciato un piccolo, tagliente e forte segno nella letteratura americana del Novecento. Ma se altri poeti dopo la scomparsa hanno riscattato l’indifferenza patita da vivi, a Carnevali, per molto tempo, non è stato concesso nemmeno questo gesto di gratitudine per ciò che ci ha lasciato, per quei brandelli di vita tradotti in poesie simili a rose recise, fiori bellissimi. Oggi I racconti di un uomo che ha fretta, ventisette anni dopo l’uscita de Il primo dio, vanno con giustizia a colmare tale grave mancanza.

Potente e disperato al tempo stesso, l’anima che vibra mentre il corpo si lascia morire, ricordo bene il trasporto emotivo con il quale lessi la prima volta le poesie di Emanuel Carnevali, ricordo le lacrime trattenute a stento, ricordo la tristezza e la rabbia dopo averne letto la biografia, tutto sommato era un ragazzo, quasi la mia stessa età.
Parole vomitate su un foglio, scritte per non soccombere alla vita, Parole forti che vanno a segno profonde come lame fredde e sottili.

Quartiere generale del dolore - In grigio

Il giorno mi pesa addosso come una tonnellata di fumo.
Le cose già fatte sono
cadaveri che riempiono di fetore
le stanze grigie dei miei ricordi.
Il futuro è una fila di
bambini nati morti.
La pozza dell'oblio è fangosa.

Solo ricordi in lenta marcia
avanzano lungo la strada dell'oggi.
Cielo grigio
per ridestarmi un momento.
Ma un sonno tetro è il programma per oggi:

sonno che sale dal cuore come un gas nero.
Io so
che per avere dormito a lungo i morti hanno ripreso forza.
In giorni come questi
spalancano a calci le loro tombe
e ne balzano fuori con eleganza.
Sussurrano orribili segreti
l'uno all'altro e a me.
Portano i loro sudari e

li scuotono animosamente.
O Divinità del terrore e della malinconia
vienimi in aiuto!
Ho ancora baci sfioriti per te,
baci che non voglio buttare via perché sono molto povero,
distaccami dai miei ricordi.
Essi mi inquietano tanto che il sonno sussulta e fugge,

sussulta e fugge.

mercoledì 9 settembre 2009

Sulla metafora
Analisi critica di concezioni antiche e contemporanee
di MEHMEDOVIC MIRZA


Nel presente lavoro parleremo di alcuni aspetti caratterizzanti il fenomeno linguistico chiamato “metafora”. In particolare analizzeremo alcuni aspetti della teoria della metafora in Aristotele, Cicerone, Lakoff e Johnson, nonché di alcuni approcci della IA, come quello di James Martin e Dan Fass. Le ragioni per toccare una gamma così variegata di autori sono essenzialmente due: In primis mostreremo le difficoltà dei rispettivi approcci (qualora avremo sufficientemente materiale per farlo), la loro forma, ed eventuali contraddizioni. Questa “pars destruens” sarà finalizzata all’eliminazione di elementi della teoria obsoleti. In secondo luogo, qualora saremo riusciti ad isolare gli elementi veramente necessari alla spiegazione del fenomeno della metafora, metteremo insieme tali elementi e congettureremo intorno alle caratteristiche indispensabili alla formulazione di una teoria della metafora sufficientemente rigorosa. Chiameremo questa “pars costruens”. Per ragioni di brevità le analisi non saranno divaganti, né tantomeno incentrate su ogni aspetto di ciascun approccio teorico.


PARS DESTRUENS


Cominceremo quindi con Aristotele. Il filosofo ateniese, come sapete, si è distinto per l’infinità di contributi filosofici e non solo. Ad ogni modo, concentrandoci sulla specificità del tema, possiamo elencare alcuni elementi che caratterizzano la sua teoria della metafora. Possiamo elencarli in questo modo:


1 Il parlante che elabora metafore, non lo fa sulla base di un apprendimento. Il parlante deve, per così dire, essere portato per natura all’elaborazione di metafore. In tal senso si dice che la metafora è un prodotto dell’ingegno.
2 La metafora ha una componente cognitiva, nel senso che riguarda certi processi di pensiero. Per questo l’interprete è solitamente impegnato in un momento di analisi della proposizione metaforica.
3 La metafora deve essere breve per essere efficace.
4 La metafora deve coinvolgere elementi (nomi) i cui campi semantici siano sufficientemente distinti.
5 La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro oggetto. Tale trasferimento avviene: “dal genere alla specie”, “dalla specie al genere”, “dalla specie alla specie”, “per analogia”.


Cosa possiamo dire al riguardo? Per prima cosa possiamo dire che la tesi uno è per certi aspetti discutibile. Che genere di apprendimento si richiede perché un parlante sia in grado di formulare metafore? Aristotele ci dice che non è necessario alcun apprendimento. Tuttavia è piuttosto ovvio che il parlante capace di produrre metafore deve innanzitutto essere un parlante esperto, nel senso che deve saper padroneggiare un vocabolario relativamente ricco di vocaboli. Che poi non si abbia bisogno di uno studio specifico della metafora anche questo è discutibile. L’autore della metafora è in genere un individuo capace di leggere e scrivere, che talvolta ha preso in mano un opera poetica ecc. Ciò non è certo indispensabile, e forse nemmeno necessario. Così leggeremo la cosa in quest’altro modo: il parlante che produce metafore è un individuo appartenente ad una certa cultura. Poiché le cose stanno certamente così, il parlante deve aver appreso una serie di espressioni metaforiche così come accade ad ognuno di noi: espressioni come “il tempo è denaro”, “cogli l’attimo fuggente” si suppone siano espressioni metaforiche che “ereditiamo”. L’apprendimento è in tal senso avvenuto, sebbene non sia quello che chiameremmo comunemente un apprendimento accademico o scolastico (non in senso stretto). Quello che ci rimane è l’abilità nello sfruttare questi elementi appresi. Il nostro cervello modula espressioni sulla base della forma di apprendimento che abbiamo presupposto esserci per qualunque parlante. In tal senso ci sono individui più capaci di altri nel formulare metafore, così come ci sono individui più capaci di altri nel risolvere problemi matematici ecc.
Sulla seconda tesi possiamo concordare tutti. L’unico difetto della riflessione di Aristotele consiste nel dire che la mente è impegnata in un processo di analisi quando una proposizione metaforica esibisce un’identità del tipo “Martina è il sole”. Certo, egli lo ha fatto per dirci che è il momento di riflessione quello che ci permette di apprezzare l’efficacia dell’analogia. Ma quanto tempo si richiede perché si abbia un’analisi che porti l’individuo ad apprezzare la metafora? In verità questo è un discorso problematico. Possiamo supporre che con ogni probabilità esso sia mal posto. Un calcolo matematico può essere impegnativo quanto l’interpretazione di una metafora. Una metafora si distingue da un calcolo matematico perché consiste in una “composizione di immagini” che non hanno una relazione? Che sia proprio questo elemento ad aiutare il nostro filosofo? Ciò non spiegherebbe altre difficoltà. Prendiamo, infatti, il caso delle metafore che fanno parte del modo comune di esprimerci. Esse non catturano affatto la nostra attenzione, al punto che spesso non le consideriamo metafore. Eppure sono metafore, il che significa che non è una proprietà essenziale della metafora l’essere capace di catturare la nostra attenzione e immaginazione in qualche modo, sebbene sia proprio questo l’elemento che più apprezziamo il più delle volte. Se, quindi, alcune metafore entrano nel modo comune di esprimerci e non vengono più considerate tali, indipendentemente dalle ragioni per cui ciò accade, è necessario osservare che il momento di analisi su cui si sofferma la mente secondo Aristotele viene meno. Ci sono, inoltre, giochi di logica che implicano accostamenti di immagini che non sembrano avere una relazione evidente. Diremo allora che: Una proprietà essenziale della metafora è tale se e solo se caratterizza in modo significativo ogni metafora. Gli aspetti contingenti e le interpretazioni che esibiscono un certo grado di arbitrarietà vanno eliminati. In tal senso anche la definizione che abbiamo dato della metafora è discutibile. Prendiamo l’espressione “composizione di immagini” riferita alle metafore; siano tali immagini più o meno prive di relazione. Ora, una metafora è davvero un accostamento di immagini? Se diciamo “Martina è il sole” possiamo affermare che è un accostamento di immagini. Cosa dire però delle metafore “il tempo è denaro” e “la fiducia è vita”. Quale genere di immagini possiamo attribuire a tali espressioni? Nessun genere di immagini, o almeno un immagine parziale, come quella che possiamo dare al denaro ma non al tempo.
Prendiamo ora la tesi tre, anch’essa falsa. È del tutto arbitrario che una metafora efficace sia breve o meno. Essa può essere, in verità, molto lunga e, insieme, molto efficace. Prendiamo il seguente esempio tratto dall’opera di Rimbaud “Il battello ebbro”:

Io, perduto battello sotto i capelli delle anse
scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli,
io, di cui né Monitori né velieri Anseatici
avrebbero potuto mai ripescare l’ebbra carcassa d’acqua
libero, fumante, cinto di brume violette.
o che foravo il cielo rosseggiante come un muro
che porta, squisita confettura per buoni poeti,
i licheni del soie e i moccoli d’azzurro;
io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
legno folle, scortato da neri ippocampi,
quando luglio faceva crollare a frustate’
i cieli oltremarini dai vortici infuocati;
io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe
la foia dei Behemots e i densi Maelstroms,
filando eterno tra le blu immobilità,
io rimpiango l’Europa dai balconi antichi!


Sarebbe improprio dire che queste quattro strofe, per lo più metaforiche, siano un esempio di brevità. Ne consegue che nemmeno la brevità è caratteristica essenziale della metafora.
La quarta tesi è vera e non ci soffermeremo ad analizzarla. Possiamo solo dire che “Martina è il sole” evidenzia sufficientemente questo aspetto della metafora. D’altra parte, se avessimo affermato che “Martina è la pentola”, avremmo avuto qualche problema nel riconoscere la metaforicità dell’espressione. Ciò però non riguarda strettamente il grado di “distanza” tra campi semantici, bensì la nostra capacità di interpretare le intenzioni del parlante. Possiamo immaginare culture in cui espressioni come “Martina è il ferro da stiro” siano espressioni metaforiche in senso stretto, nonché molto efficaci nel senso prima definito.
La quinta tesi è vera, ma non ci dice molto. Non ci soffermeremo oltre sulla teoria della metafora di Aristotele. La sua fenomenologia gli ha consentito di dare una descrizione più o meno condivisibile di un certo fenomeno, del quale ha colto, inoltre, l’aspetto che oggigiorno può maggiormente interessare gli studiosi: vale a dire la componente cognitiva.
Nominando Cicerone, possiamo in breve dire questo circa le sue note speculative: Egli ha sostenuto la tesi secondo cui la metafora ha il ruolo di riempimento degli spazi vuoti della struttura concettuale di una data cultura. Sicchè le espressioni metaforiche sarebbero essenziali per poter dire con parole ciò che altrimenti sarebbe relegato nella sfera di ciò che si mostra unicamente. Questo è proprio sbagliato! Non si può negare che la metafora assolva ad un ruolo comunicativo di primo ordine. Nondimeno non si può certo affermare che senza la metafora una data lingua sarebbe incompleta. Si noti che qui non stiamo sostenendo che la metafora è un prodotto del linguaggio letterario, sebbene sia anche questo (a dire il vero una linea di demarcazione tra linguaggio letterario e linguaggio comune non può esserci affatto). Stiamo per ora solo negando che la metafora renda un certo linguaggio, il nostro per esempio, un linguaggio “completo”. Pensate a quello che dice Wittgenstein nelle “Ricerche filosofiche”, facendo riferimento all’immagine dataci da Agostino del modo in cui impariamo a parlare:
Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino: Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore A, e un suo aiutante, B. A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre e travi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamente nell’ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistente delle parole: <mattone>, <pilastro>, <lastra>, <trave>. A grida queste parole; - B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido. Considera questo come un linguaggio primitivo completo. (§2)
Possiamo considerare il linguaggio dei muratori “completo”, nella misura in cui esso assolve al bisogno di comunicare qualcosa. Un linguaggio del genere, sebbene troppo povero di elementi comunicativi, è un linguaggio privo di metafore. Diciamo allora che è possibile immaginare linguaggi privi di metafore, capaci comunque di potere comunicativo direttamente proporzionale alle esigenze dei parlanti. Dicendo questo si rischia di dar ragione a Cicerone. Noi però abbiamo detto che egli si sbaglia circa il ruolo assegnato alla metafora. Possiamo allora affermare che la metafora è essenziale a certi scopi comunicativi. Il problema è capire cosa accadrebbe se decidessimo di eliminare le espressioni metaforiche dal linguaggio. Dovremmo osservare noi stessi dall’esterno e valutare le conseguenze di un tale depauperamento. Ma il punto è un altro: si è affermata una certa immagine del ruolo della metafora nella comunicazione, quella secondo cui senza metafora certi concetti sarebbero inesprimibili. Se tuttavia la metafora è passibile di interpretazione, allora non si può certo sostenere che ciò che può essere detto mediante metafora non possa essere detto in altro modo. Detto mediante altre metafore? Nell’opera “Metafora e linguaggio quotidiano” i linguisti Lakoff e Johnson hanno affermato svariate tesi, alcune molto forti. Lasciandoci alle spalle il passato, prenderemo ora ad esaminare la loro proposta teorica. Possiamo innanzitutto osservare quanto dicono in alcuni passaggi dell’opera in questione. Questi passaggi saranno intesi come le tesi (non tutte verranno elencate) di Lakoff – Johnson:


1 LA METAFORA STRUTTURA LA MAGGIOR PARTE DEL NOSTRO SISTEMA CONCETTUALE: “La metafora è da molti considerata come uno strumento dell’immaginazione poetica, un artificio retorico, […] Noi invece abbiamo trovato che la metafora è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano. […] Se abbiamo ragione a ipotizzare che il nostro linguaggio è il larga misura metaforico, allora la metafora viene a rivestire un ruolo centrale nel nostro pensiero, nella nostra esperienza e nelle nostre azioni quotidiane”. (pag. 19)
2 LA METAFORA E’ STRUTTURALE: “Dal momento che, nel nostro linguaggio, le espressioni metaforiche sono connesse in modo sistematico ai concetti metaforici, possiamo usare le espressioni metaforiche linguistiche per studiare la natura dei concetti metaforici e per ottenere una comprensione della natura metaforica delle nostre attività”. (pag. 25)
3 LA METAFORA ORIENTA PARTI DELLA STRUTTURA CONCETTUALE: “Ma vi è un altro tipo di concetti metaforici, che invece di strutturare semplicemente un concetto in termini di un altro, organizzano piuttosto un intero sistema di concetti in termini di un altro. Chiameremo queste metafore metafore di orientamento, dal momento che molte di loro hanno a che vedere con l’orientamento spaziale: su-giù, dentro-fuori, davanti-dietro, profondo-superficiale, centrale-periferico. (pag. 33)
4 ALCUNI CONCETTI SONO COMPRESI DIRETTAMENTE, SENZA ALCUNA METAFORA: “I concetti che più probabilmente sono compresi in modo immediato sono quelli spaziali, come SU. Il nostro concetto spaziale di SU deriva direttamente dalla nostra esperienza spaziale: noi abbiamo un corpo e stiamo in posizione eretta; […] Quindi SU non è compreso puramente in termini autonomi ma emerge a sua volta dall’insieme delle funzioni motorie costantemente praticate e che si riferiscono alla nostra posizione eretta relativamente al campo gravitazionale in cui viviamo.” (pagg. 77-78)
5 OGNI ESPERIENZA E’ CULTURALE: “In altri termini ciò che chiamiamo “diretta esperienza fisica” non è mai il puro e semplice fatto di avere un corpo di un certo tipo; piuttosto ogni esperienza ha luogo all’interno di un vasto retroterra di presupposizioni culturali. Può quindi essere fuorviante parlare di diretta esperienza fisica come se vi fosse un nucleo di esperienza immediata, che noi poi “interpretiamo” in termini del nostro sistema concettuale. […] Sarebbe più corretto dire che tutta la nostra esperienza è completamente culturale e che noi facciamo esperienza del nostro “mondo” in modo tale che la nostra cultura è già presente perfino nell’esperienza stessa.” (pag. 78)
6 LE METAFORE POSSONO DARCI UNA UNOVA COMPRENSIONE DELLA NOSTRA ESPERIENZA DEL PASSATO, DELL’ESPERIENZA QUOTIDIANA, DI CIO’ CHE SAPPIAMO O CREDIAMO: “Innanzitutto la metafora mette in luce certi tratti e ne lascia altri in ombra. Ad esempio, il lato attivo dell’amore è messo in primo piano attraverso la nozione di OPERA, sia in OPERA FATTA IN COLLABORAZIONE sia in OPERA D’ARTE. […] In secondo luogo la metafora non implica puramente altri concetti, come OPERA/LAVORO O PERSEGUIRE SCOPI COMUNI, ma anche aspetti molto specifici di questi concetti. […] In terzo luogo, poiché la metafora illumina e rende coerenti importanti esperienze d’amore, mentre ne lascia in ombra altre, essa dà all’amore un nuovo significato. […] Quarto, le metafore dunque possono essere appropriate perché sanzionano azioni, giustificano esperienze, e ci aiutano a stabilire degli obiettivi. Ad esempio, certe azioni, interferenze e scopi sono suggeriti dalla metafora L’AMORE E’ UN’OPERA D’ARTE FATTA IN COLLABORAZIONE, ma non della metafora L’AMORE E’ FOLLIA. Se l’amore è follia, io non mi concentro su quello che devo fare per conservarlo; ma se è lavoro, allora è anche attività, e se è fatto in collaborazione, allora è anche un fenomeno più ristretto e specifico. Quinto, il significato che una metafora può avere per me, sarà in parte determinato culturalmente, in parte connesso alle mie esperienze passate. Le differenze culturali possono essere enormi, poiché ognuno dei concetti della metafora in discussione – ARTE, LAVORO, COLLABORAZIONE E AMORE – possono variare grandemente da cultura a cultura.” (pagg. 175-176)
Questa è un’immagine stringata delle intenzioni teoriche di Lakoff e Johnson; Nondimeno ci permetterà di introdurre una serie di osservazioni volte ad eliminare eventuali contraddizioni e falsità. Abbiamo omesso la definizione data dai due linguisti della metafora. Diciamo che: LA METAFORA E’ STRUTTURAZIONE DI UN CONCETTO IN TERMINI DI UN ALTRO CONCETTO. Diversamente da quanto detto prima, quindi, la metafora non è semplicemente un accostamento di immagini non correlate. Poiché la gran parte del nostro sistema concettuale è metaforico, dobbiamo supporre che certe metafore ne spieghino altre e che, in generale, ogni spiegazione dei fenomeni “fisici” o “culturali” sia metaforica. La vaghezza della definizione di metafora fornita da Lakoff e Johnson (da adesso semplicemente L-J) non ci mette nelle condizioni di comprendere a fondo in che modo intendere la questione. Analizziamo perciò alcuni elementi della teoria e vediamo che cosa succede. Dalla tesi 1 sappiamo che il nostro sistema concettuale è metaforico, cioè che è tale per cui, in esso, i concetti ricorrono ad altri concetti per essere chiariti. Certi concetti devono per questo essere più chiari di altri, come i due affermano. Ora, chiari in che senso? Se supponiamo che una metafora sia un’espressione che richiede interpretazione, cosa di essa può essere chiarito quando affermiamo che è strutturata in termini di altri concetti. Se, inoltre, essa è spiegata per mezzo di altre espressioni a loro volta metaforiche, quale sarà il significato del termine “interpretazione”? La nostra teoria dell’interpretazione è tale per cui ci serviamo di concetti differenti (più chiari) per spiegarne altri (poco chiari). Ma cosa può essere “chiaro” in un sistema basato sulla metafora? O non tutto è metafora, o siamo condannati a servirci ricorsivamente di concetti a loro volta strutturati. Questo è proprio dello spirito teorico di L-J. Nel criticare le teorie del significato standard, essi sostengono che è sbagliato pensare che vi siano concetti “primitivi”, non ulteriormente analizzabili. Per fare questo, ad ogni modo, si suppone che L-J siano in grado di giustificare sufficientemente e coerentemente la propria posizione. Vedremo come, malgrado il grande grado di convincimento da essi esercitato, essi siano ben lontani dall’essere in possesso di una teoria rigorosa della metafora.
Consideriamo in primis la loro critica all’oggettivismo. Negli ultimi capitoli di “Metafora e vita quotidiana” L-J si scatenano a più riprese contro l’oggettivismo quale dottrina che considera date certe verità, un certo mondo indipendente da noi, descrivibile una volta per tutte ecc. Nondimeno essi sono in contraddizione con quanto sostengono, soprattutto se consideriamo quanto affermato a pagina 257: “Il nucleo della tradizione oggettivista in filosofia deriva direttamente dal mito dell’oggettivismo: il mondo è fatto di oggetti distinti, con proprietà intrinseche e relazioni fisse fra essi a ogni dato momento.”, e quanto affermato sempre da loro a pagina 79: “[…] i concetti OGGETTO, SOSTANZA E CONTENITORE emergono direttamente. Noi ci viviamo come entità, separate dal resto del mondo – come contenitori con una parte interna ed una esterna. Facciamo anche esperienza delle cose esterne a noi come entità […] Facciamo esperienza di noi stessi come fatti di sostanze […] e degli oggetti esterni come fatti di vari tipi di sostanze – legno, pietra, metallo ecc. Attraverso la vista e il tatto percepiamo numerose cose come dotate di confini precisi”. La domanda che possiamo porci è la seguente: quale finalità ha la critica all’oggettivismo se, nell’analisi operata, noi riveliamo di noi stessi di essere dei naturali oggettivisti, di concepire gli oggetti come entità distinte da noi, che a nostra volta siamo entità separate dal mondo? Inoltre, nella tesi 4 alcuni concetti vengono considerati come direttamente derivanti da esperienze che facciamo di noi stessi nel mondo. Quali esperienze sono più dirette di altre L e J non sanno proprio dircelo. A dir la verità una gran varietà di esperienze possono essere considerate propriamente fisiche. Un individuo vissuto come un selvaggio senza il contatto con altri uomini ha una percezione della realtà fisica e la vive come tale, imparando a sue spese gli effetti della gravità e di altre forze della natura. Non per questo diciamo che un uomo del genere dispone di un retroterra culturale, perché altrimenti non potrebbe avere esperienze così e così. Basterebbe questo a rendere obsoleta tutta l’architettura della teoria di L-J. Tuttavia possiamo fare di meglio. Diciamo che, oltre all’esperienza del SU e del GIU’, esperienze della gravità, dei colori e delle forme degli oggetti sono esperienze genuinamente fisiche. Che gli uomini siano costantemente “calati” in una cultura non significa che l’uomo dipenda da tale cultura per poter respirare o per avere sete, per mangiare o dormire, per aver paura o per dubitare. Anche gli animali “inferiori” hanno paura, sebbene di questo sentimento solo l’uomo sia in grado di fare un elemento in connessione con certi fatti relativi alla propria cultura. Diciamo che si può avere paura dello spazio aperto, dei film horror, degli insetti, dell’insegnante manesca” ecc. Come distinguere, poi, un esperienza culturale da un’esperienza fisica? Lakoff e Johnson sostengono che ogni esperienza è culturale, ma non ci danno alcuna indicazione che ci permetta di corroborare questa prospettiva. Prendiamo il seguente esempio di L-J di pagina 81:


Harry è in cucina.
Harry è in marina.
Harry è in uno stato di euforia.


Ora, secondo i due studiosi, il primo non è un esempio di concetto metaforico, mentre il secondo e il terzo lo sono. Ma proviamo a vedere il perché. I due hanno supposto che nessuna esperienza è propriamente fisica. Dunque, anche lo stare in cucina implica l’avere acquisito una certa cultura. Solo che, se è presupposto un retroterra culturale, allora, dal momento che il nostro sistema concettuale è metaforicamente strutturato, non ci sono ragioni sufficienti per poter affermare che la prima delle tre proposizioni non è metaforica, mentre le altre due lo sono. Questa è evidentemente una contraddizione, contraddizione che mette in conflitto la tesi 4 con la tesi 5. Perché poi non si possa parlare di esperienze fisiche dirette non è chiaro. A dire il vero in tutte e tre le proposizioni viene descritto uno scenario fisico. Che cos’è la cultura? Prendiamo l’esempio dello stare in piedi. L-J ci dicono che tale esperienza è meno culturale di un matrimonio. Il matrimonio sarebbe perciò un’esperienza più culturale che fisica. In che senso? In nessun senso specifico, a dire il vero. La cultura non consiste in altro se non nell’agire in un certo modo secondo certe “regole”. Ma questo agire è a sua volta propriamente fisico. Andare in chiesa, ascoltare la messa, comunicare, mangiare, bere, ballare sono tutte esperienze propriamente fisiche. La cultura non rappresenta altro se non il modo di relazionarsi degli attori di un certo scenario, nelle espressioni specifiche pronunciate in un certo contesto. La ritualità dell’uomo non fa dell’uomo un essere concettuale più di quanto il segnare il territorio del leone non faccia del leone un filosofo. Veniamo ora alla tesi 2. “Harry è in marina” sarebbe un esempio di metafora “I GRUPPI SOCIALI SONO CONTENITORI”(pag. 81). Ora, senza puntualizzare troppo, potremmo sostenere per un attimo la tesi secondo cui la Marina è uno stato di cose, o un insieme di stati di cose correlati. Quando siamo in Marina, ci troviamo a dover fare una serie di cose in certi luoghi. Detto in questi termini il discorso perderebbe quell’aspetto assurdo che avrebbe se qualcuno di noi pensasse alla Marina come ad un CONTENITORE (non ho mai pensato di trovarmi in un contenitore nelle ore di lavoro, anche se talvolta mi sento intrappolato).
Perché, chiediamoci adesso, certe espressioni sarebbero strutturanti ed altre no? La metafora concettuale “IL TEMPO E’ DENARO”, dicono, struttura la nostra esperienza. Come possa fare ciò una metafora è indicibile. Lakoff e Johnson ci vengono in aiuto sostenendo l’esistenza di certe connessioni tra espressioni e metafore concettuali. In tal senso diciamo che espressioni quali “Non ho tempo da dedicarti”, “Devi pianificare il tuo tempo”, “Non stai usando il tuo tempo in modo proficuo” sono espressioni che rivelano la loro natura metaforica in connessione con la metafora concettuale. Il tempo è inteso come un oggetto fisico, un’entità, una sostanza. Ora, questo è il nostro concetto di tempo? Noi pensiamo davvero al tempo considerandolo una sostanza? Domandiamo ad una persona “che cos’è il tempo” e ci risponderà come Sant’ Agostino: “Se nessuno me lo chiede, so cos'è il tempo, ma se mi si chiede di spiegarlo, non so cosa dire” (Confessioni). Sicchè un concetto astratto riceverebbe, secondo quanto affermano L e J, una chiarificazione attraverso l’uso di espressioni metaforiche. Ma che genere di chiarezza è mai questo? Davvero non si può dare una definizione non metaforica del concetto “tempo”? In verità, solo presupponendo che la natura o l’essenza del tempo sia distinta da qualunque altro concetto o esperienza quotidiana, si può pensare che tale concetto debba essere chiarito assumendo delle metafore per chiarificatori concettuali. Tutt’altro che chiarire, le metafore esibiscono al più il modo in cui concepiamo il tempo, il che non significa affatto che il tempo sia qualcosa di astratto. A rigor di logica, sostenere l’astrattezza di alcuni concetti è un buon modo per rinunciare ad una spiegazione.
La sesta tesi è in linea con quanto suggerito da Cicerone. Le metafore riempiono i buchi della struttura concettuale. Se questo è lo scopo delle metafore allora non ci sono chiare le ragioni della tesi 1, nella quale si afferma che il nostro sistema concettuale è metaforico. Se è metaforico e le metafore fanno quanto affermato nella tesi 6, ciò è possibile solo a patto che il nostro sistema concettuale non sia metaforico. Questa affermazione ha la forma del paradosso. Infatti, solo ammettendo che il nostro sistema concettuale non sia metaforico si può sostenere che la metafora abbia ruolo di “collante”, “ristrutturante”, “motivante” ecc. Se tuttavia è metaforico, allora non può agire nel modo inteso da L e J nella tesi 6, poiché si suppone appunto che un sistema metaforico sia un sistema privo di “buchi concettuali”. Evidentemente il modo di pensare la questione non può essere quello giusto. Lakoff e Johnson, possiamo congetturare, non hanno affatto presentato una teoria della metafora rigorosa. Viceversa, i due hanno presentato una teoria che fa acqua da tutte le parti.
Nella quinta osservazione della sesta tesi, si afferma: “il significato che una metafora può avere per me, sarà in parte determinato culturalmente, in parte connesso alle mie esperienze passate”. Vedremo tra poco che anche questa tesi può essere messa in discussione, poiché molte espressioni metaforiche possono essere interamente prive di qualunque elemento culturale, escludendo la lingua in cui sono espresse ovviamente. Degli altri punti non ci occuperemo, anche perché hanno per certi versi un aspetto assurdo, o perlomeno ambiguo. Né tantomeno parleremo della questione dell’embodiment metaforico, a sua volta troppo ambigua e periferica rispetto agli scopi del saggio.
Passeremo perciò all’analisi di alcuni approcci della IA (artificial intelligence) nello studio della metafora. Che cosa rappresenta questo nuovo modo di considerare e studiare la metafora? Nell’introduzione abbiamo parlato della metafora descrivendola come “fenomeno linguistico”. Questo non ci deve sorprendere. Stiamo supponendo con un po’ di buon senso che un fenomeno linguistico non possa non avere una componente cognitiva. Non c’è qualcosa come il “parlare sensatamente” che prescinda dall’“intendere qualcosa”. Quando perciò ci viene detto che la metafora è stata per secoli considerata un fenomeno “meramente linguistico”, dobbiamo badare bene al modo in cui – coloro che affermano ciò – considerano una teoria del significato metaforico. Che cosa significa “fenomeno meramente linguistico”? Queste forme d’astrazione sono del tutto ingiustificate. Quando parliamo di computazione sulla sintassi, possiamo avere il sospetto che le cose debbano stare altrimenti. Supponiamo di prendere il linguaggio nella sua dimensione meramente sintattica: combinazione di caratteri o suoni in stringhe più o meno lunghe formanti proposizioni dalle forme prevedibili. Fin qui non si è detto nulla circa il significato. Né pensiamo che qualcosa potrebbe esser detto circa il significato, a meno di non ammettere che il significato sia una questione del tutto risolta nella descrizione di una sintassi coerente e consistente. Nella IA accade qualcosa di analogo. Gli esperimenti di programmazione di sistemi in grado di formulare e di interpretare nuove metafore si basano per lo più su una forma di computazione, che può differire per forma, ma non per natura. Per motivi di brevità non descriveremo in modo esauriente gli approcci di Dan Fass e James Martin; ci soffermeremo per lo più sugli obiettivi che si sono prefissi, su alcuni risultati e sulle difficoltà. Osserviamo, avvalendoci dell’articolo di Elisabetta Gola “La metafora nell’intelligenza artificiale”, la forma che assume l’analisi di un’espressione mediante un programma che computa sulla sintassi:
Qui esamineremo solo un esempio di metafora scelto fra quelli dati dallo stesso Fass e cioè
L’auto beve benzina.
La frase viene interpretata durante un processo di composizione (collation) che cerca di combinare coppie di word-senses che contengono sia informazioni sul genus che sulle specificità di un senso rispetto ad altri appartenenti allo stesso genus (differentie) e sulle preferenze semantiche. […] Il processo di collation confronta i sense-frames delle due parole “bere” e “benzina” ed esegue un test su cinque tipi di relazione: controlla (1) se un termine è antenato (ancestor) dell’altro; (2) se è uguale (same); entrambe queste relazioni sono tipi di “inclusione”. Le rimanenti relazioni semantiche, invece, sono relazioni che denotano una relazione di “esclusione”: (3) un terzo tipo di relazione si ha infatti quando due termini sono fratelli (sisters); (4) la quarta è la relazione di discendenza, che è simmetrica rispetto a quella di antenato (descendant); (5) l’ultima è una esclusione vera e propria, in cui due termini non hanno alcun rapporto diretto (estranged). È durante il processo di collation che si decide pertanto se due sensi sono collegati tra loro, e se lo sono in modo letterale o metaforico. La relazione metaforica consiste in un match di tipo sister tra parti dei sensi, che Fass chiama analogia rilevante. (pag. 371, in “Metafora e conoscenza”, Bompiani)
Come abbiamo puntualizzato, in questo contesto il termine “semantica” ha una connotazione peculiare. Si può avere l’impressione di parlare di significato, ma questa impressione viene meno se non si accetta l’idea che il significato consista semplicemente in composizioni di termini raggruppati secondo i criteri della teoria degli insiemi. Le relazioni formali non sono affatto sufficienti; non ci permettono, né mai potranno, di dire cosa è parlare per metafore o per frasi letterali. Osservando i tipi di relazioni del test intuiamo subito che c’è qualcosa che sfugge al meccanismo. Innanzitutto se la questione è risolvibile mediante meri rapporti sintattici, un programma che valuti la mera forma non può fare altro che “indovinare” se un espressione è una metafora; non ha tuttavia i mezzi per stabilire se un’espressione, che eluda i criteri definiti dal programma, sia o meno una metafora. Ci viene detto che: “nel caso della frase il source (vale a dire animale) è ricavato dall’aspettativa disattesa del soggetto richiesto dal verbo “bere”, ossia un essere animato. Mentre il target è l’“auto”, soggetto che avviene appunto descritto attraverso il “bere”. […] Tra le informazioni del termine source il programma estrae quella rilevante a seconda del contesto.” (Ibidem, pag. 372)
In tal senso i contesti sono non altro che insiemi di termini raggruppati secondo i comuni criteri della sinonimia o della vicinanza semantica. In altre parole il programmatore decide quali saranno gli insiemi sui quali il programma opererà una selezione. L’espressione “aspettativa disattesa” non è colta dalla macchina se non nella misura in cui essa si trova ad eseguire un’operazione piuttosto che un'altra in base alle istruzioni fornite in partenza e in base alla forma dell’algoritmo. In verità, i limiti del programma META5 di Dan Fass non ci consentono nemmeno di inoltrarci nel discorso. Poiché infatti esso si basa su una estensione dell’analisi delle espressioni letterali, anche l’interpretazione delle espressioni seguirà criteri poco favorevoli all’analisi del fenomeno specifico. “Quindi di fatto la procedura Met* (come altri approcci NLP) assume che la lettura letterale sia prioritaria e che l’interpretazione metaforica scatti in presenza di una violazione semantica dei vincoli posti nelle preferenze semantiche dei word senses durante il processo di composizione.” (Ibidem, pag. 374)
Il lavoro di James Martin merita attenzione. Esso si basa su criteri definiti in conseguenza della teoria di Lakoff e Johnson. Il tentativo fatto è singolare nella misura in cui Martin assume come fondamentale la componente cognitiva della metafora. Il programma MIDAS dispone di informazioni (source) preliminari (quelle espressioni che dovrebbero rappresentare la nostra cultura metaforica) che proietta su domini di conoscenze acquisite (target), in modo tale da interpretare una proposizione nuova considerandola metafora ed esplicitandone il senso. Vengono quindi introdotte opere letterarie che, analizzate da MIDAS, ci consentono di verificarne il contenuto metaforico. Si suppone che vi sia una teoria dell’interpretazione della metafora. La teoria è, appunto, quella di L e J. Gerarchie di metafore fanno da filtro delle espressioni target in modo tale da spiegarne il senso (il tutto secondo criteri di computazione sulla sintassi). “La tesi principale che suffraga questa applicazione sostiene che la conoscenza sulle metafore convenzionali può essere rappresentata esplicitamente e in modo dichiarativo. E che quindi attraverso questa conoscenza possano essere interpretate metafore vecchie e nuove.” (Ibidem, pag. 380)
Questa tesi deriva dall’idea secondo cui ogni metafora è il prodotto di esperienze passate e della cultura in cui un soggetto si trova. Se quindi leggiamo un’ opera di Dostoevskij, dobbiamo supporre di poter indovinare con esattezza il senso che può dare lo scrittore ad una metafora basandoci sull’idea che egli debba condividere una certa cultura e certe esperienze comuni che sono la ragion sufficiente di ogni sua produzione metaforica futura. C’è una forma di arbitrarietà in questo ragionamento. Si suppone infatti che la componente di esperienza soggettiva sia secondaria rispetto al “far parte di una cultura” del soggetto. Se Lakoff e Johnson hanno ragione, ogni espressione metaforica futura potrà essere interpretata correttamente, ammesso che sia stata data preventivamente una corretta interpretazione delle metafore del bagaglio source del sistema MIDAS. Possono Lakoff e Johnson affermare di essere in grado di dare un’interpretazione corretta delle produzioni metaforiche attuali? A dire il vero il loro lavoro consiste nel selezionare concetti metaforici di pubblico dominio. Quindi fanno passare questo dominio di espressioni per il prototipo standard di ogni produzione metaforica. Anche in questo caso, il grado di arbitrarietà consiste nell’operare una selezione senza avere a disposizione criteri di selezione validi. Se siamo disposti ad affermare che non vi è un qualche grado di novità intrinseca nel significato delle espressioni future, come possiamo spiegare le differenze di significato che assumono le espressioni scientifiche? Se la questione fosse risolvibile secondo i criteri adottati dal MIDAS, potremmo presto disporre di sistemi capaci di elaborare nuove teorie della fisica, più capaci della relatività generale di Einstein di spiegare i fenomeni dell’universo. Diciamo questo perché l’idea di poter interpretare nuove espressioni equivale all’idea di poter predire nuove espressioni. Per ora, tuttavia, immaginiamo che questo non sia possibile, poiché, come verrà spiegato nella seconda parte del presente lavoro, la componente soggettiva è ineliminabile, al punto da non autorizzare nessun sistema “assiomatico chiuso” all’interpretazione di tutte le future produzioni linguistiche “dotate” di senso. Per ora diciamo che per quanti possano essere gli elementi (source) introdotti nel sistema (comprendendo anche quelli integrati sulla base di analisi di testi), il prodotto finale non cambierà. MIDAS non sarà in grado, secondo le nostre previsioni, di interpretare correttamente ogni produzione metaforica futura. Se questo discorso non è convincente, considerate bene quanto affermato da un vecchio sostenitore della teoria computazionale della mente come Fodor, secondo il quale “la mente non è operazione sulla sintassi di atteggiamenti proposizionali” (La mente non funziona così). Se la mente non computa su una sintassi predefinita, l’interpretazione delle metafore non può, a maggior ragione, essere una questione di analisi computazionale.



PARS COSTRUENS



Nella prima parte del saggio abbiamo messo in discussione alcuni aspetti di teorie antiche e contemporanee. Alcune di esse condividono certi aspetti ed altre no. Nessuna delle teorie prese in esame ci soddisfa pienamente sotto ogni aspetto preso in considerazione. In sintesi abbiamo osservato come caratteristiche estrinseche delle metafore come la brevità non devono essere considerate essenziali. La brevità è una caratteristica che non concepiamo, riflettendoci sufficientemente sopra, come necessaria. Che la mente debba soffermarsi ad analizzare l’“accostamento di immagini” esibito dalla metafora non è tesi suffragata dal modo in cui consideriamo “vecchie metafore”. Abbiamo quindi osservato che ci sono buone ragioni per non considerare la metafora come un mezzo per rendere completa la nostra struttura concettuale. A sua volta, la teoria di Lakoff e Johnson non ci ha soddisfatti a causa dell’enorme numero di questioni cui da luogo e non risolve se non in modo contraddittorio o ambiguo. Infine, gli approcci della IA sono a priori resi inefficaci dal metodo adottato. La computazione sulla sintassi trascura l’elemento chiave, il significato che qualunque parlante coglie di espressioni che considera dotate di senso. Inoltre, dal momento che, come scrive Gödel, la matematica non è sintassi del linguaggio, non ci deve sorprendere che la mera analisi formale delle proposizioni non conduca a risultati entusiasmanti. Poiché, quindi, la computazione implica l’uso di regole predefinite, sistemi quali il MIDAS eredita i limiti di un qualunque sistema formale assiomatico chiuso.
Domandiamoci adesso cosa rimane una volta che ci siamo privati di una certa parte delle considerazioni teoriche considerate più o meno convincenti. In verità non molto. Nondimeno non dovete pensare che questa seconda parte debba essere nient’ altro che un collage di elementi di teorie cadute in disgrazia. Prenderemo ora in considerazione alcuni aspetti della metafora e cercheremo di vederli sotto una luce diversa. Abbiamo detto che la metafora ha una componente cognitiva, come ogni altro fenomeno linguistico che sia il prodotto di un soggetto capace di parlare avendo a disposizione un repertorio linguistico.
Chiediamoci quindi: in cosa consiste la componente cognitiva della metafora? La risposta, a dirla tutta, non può riguardare semplicemente le metafore; deve invece riguardare tutto il linguaggio, tenendo ben presente che noi non crediamo affatto che il nostro sistema concettuale sia per lo più metaforico. Per essere chiari, noi non pensiamo affatto che espressioni quali “la mia auto è blu” o “la regina d’Inghilterra è bassa” siano espressioni metaforiche, contrariamente a quanto pensiamo di espressioni quali “non voglio far stancare la macchina” o “non ho tempo da perdere” delle quali dobbiamo ancora definire la struttura.
Se vi sono aree di famiglia tra espressioni metaforiche e non metaforiche, espressioni come quelle appena citate sono in una certa misura metaforiche. Per poter affermare questo dobbiamo però spiegare come sia possibile formulare una metafora. Supponiamo perciò che il nostro sistema concettuale abbia una struttura di un certo tipo. Non possiamo chiamarla lineare o gerarchica o piramidale senza assumere, in fondo, un certo modello del sistema stesso. È infatti un prodotto del sistema il modello a piramide o quello ad albero, così come qualunque altro sistema. Come si può, allora, applicare un modello ad un sistema che genera quel modello, definendone i limiti? Assumiamo che non si possa applicare un modello soddisfacente. In effetti, sostenendo che la mente sia composta di elementi connessi in vario modo, concludiamo che la mente è un sistema aperto i cui elementi possono essere tra loro combinati secondo schemi che non sono prestabiliti. Questa è una conseguenza del principio secondo cui noi osserviamo certe connessioni tra gli elementi del sistema senza osservare, tuttavia, la necessità di tali connessioni. Non pensate a questa come ad una speculazione. La plasticità delle connessioni sinaptiche e la non prevedibilità della forma (della rete sinaptica) che avrà un sistema nervoso centrale sono fattori che ci permettono di osservare con una luce diversa la filosofia humeana, della quale possiamo apprezzare l’efficacia. Tornando a noi, quando perciò Lakoff e Johnson partono dal presupposto che la mente esibisca una struttura concettuale descrivibile mediante gerarchie metaforiche, commettono un errore di comprensione che riguarda la natura del sistema stesso. Non ci deve stupire quindi che gli abbozzi di schemi di connessioni tra elementi siano del tutto inutili. Le connessioni possono mutare, anche se non possiamo prevedere il grado del cambiamento.
Occupiamoci ora delle componenti del sistema concettuale. Congetturiamo che non vi sia una differenza tra esperienze culturali e fisiche che possa esser detta con parole. Congetturiamo inoltre che tale differenza nemmeno si mostri nel modo in cui concepiamo la nostra realtà. Dal momento in cui i nostri sensi sono attivi noi apprendiamo un numero sempre più grande di informazioni in maniera sempre più efficace. Quale natura hanno le informazioni ottenute? Esse sono, per così dire, informazioni la cui natura è proposizionale? Molti studiosi, compresi L. e J., credono questo quando affermano che ogni conoscenza è conoscenza culturale. Abbiamo mostrato che questa ipotesi della natura interamente proposizionale del pensiero è insostenibile. Basti infatti l’esempio del ragazzo selvaggio a dimostrarlo. Dalle sue deficienze circa la possibilità di apprendere il linguaggio in un periodo poco adatto non possiamo dedurre che sarà incapace di comportarsi in maniera intelligente. Prevediamo, al contrario, che sarà in grado di prevedere gli effetti di molti fenomeni naturali comportandosi, di conseguenza, assumendo strategie di tipo adattativo. Ora, se le esperienze non producono conoscenza meramente proposizionale esse producono conoscenza polimodale. Per conoscenza polimodale intendiamo questo: che i modi della conoscenza derivano dai modi della loro acquisizione, cioè attraverso i cinque sensi. Molte conoscenze richiedono combinazioni di modalità percettive. Tutte queste conoscenze non possono dirsi meramente proposizionali più di quanto possa esserlo il prurito provato ad una mano. Di conseguenza, anche l’acquisizione del linguaggio richiederà lo sfruttamento di risorse percettive, per lo più udito e vista. L’errore che commettono coloro che sostengono la tesi del carattere proposizionale del pensiero è, per così dire, parziale. Il pensiero è anche proposizionale. Quale la causa dell’errore? Probabilmente l’errore deriva dalla non considerazione del modo delle connessioni tra elementi della conoscenza. Quando parliamo di impegni epistemici, intendiamo la totalità delle esperienze polimodali. Sentire una canzone può portarci alla memoria una scena di vita vissuta, o addirittura un impegno preso, o la soluzione di un enigma.
Un aspetto della conoscenza individuale che vogliamo esaltare è il suo grado di soggettività. Ci viene detto che ogni metafora nuova trova la propria spiegazione sulla base del passato individuale e della cultura di cui l’individuo fa parte. Noi pensiamo che molte metafore possano essere interpretate senza che con ciò si sia sfiorata minimamente l’intenzione con la quale quelle metafore sono state formulate. Quando accettiamo l’ipotesi che ogni metafora sia spiegabile assumendo un nucleo metaforico condiviso, trascuriamo esattamente il carattere polimodale delle conoscenze individuali. Le interpretazioni saranno, per questo motivo, probabilmente sbagliate. Mostriamo un esempio di questo fenomeno. Prendiamo ad esempio l’espressione che recentemente ho sentito pronunciare ad una ragazza con cui ho viaggiato in Bosnia. Quello che della Bosnia abbiamo apprezzato durante il tragitto è stata la bellezza e la quantità di boschi e prati presenti sul territorio. L’espressione di cui parlo è la seguente: “Hai la Bosnia negli occhi”. Tale proposizione è stata da me compresa con facilità sulla base della nostra comune esperienza visiva. In tal senso capire una metafora è possedere gli impegni epistemici adeguati. Consapevole del verde della Bosnia, ho interpretato la metafora cogliendo il riferimento circa il colore dei miei occhi. Tuttavia, un sistema che si basi su un nucleo di metafore interpretate non può cogliere il riferimento se alla base non siano state fornite le conoscenze adeguate. Come può un sistema chiuso concepire il significato della metafora in questione quando la sua formulazione è un fatto del tutto accidentale, derivante da circostanze che potevano verificarsi o meno? Sosteniamo che non può. Analogamente, se stessimo a quanto affermano Lakoff e Johnson, la nostra metafora “Hai la Bosnia negli occhi” sarebbe un esempio di espressione della metafora concettuale GLI OCCHI SONO CONTENITORI. È chiara a tutti, adesso, la ragione per cui la connessione tra una metafora concettuale e un espressione metaforica come la nostra sia un fatto del tutto arbitrario e per lo più sbagliato. Nell’interpretare una metafora contenuta in un testo di poesie, l’approccio di Lakoff e Johnson trascura quello di cui ci siamo avvalsi: degli impegni epistemici richiesti ai fini di rendere anche solo possibile la formulazione della metafora presa a titolo di esempio. Questi elementi della conoscenza vengono ricombinati in una sintesi d’effetto. In tal senso Aristotele ha perfettamente ragione. La sintesi è reale e permette di fondere insieme elementi della realtà conosciuta esibendola attraverso una forma proposizionale metaforica. Ma è nell’interpretare la metafora che questi elementi della conoscenza devono in qualche modo essere noti all’interprete, altrimenti l’interpretazione sarà un’attività priva di valore conoscitivo. Noi non vogliamo infatti che si dia un’interpretazione della metafora, ma che sia dia l’interpretazione corretta.
Passiamo ora alla tesi secondo cui le metafore hanno forma differente e grado di metaforicità differente. Le ragioni per parlare di gradi di metaforicità sono evidenti. Se, come abbiamo supposto, le metafore sono il prodotto di una sintesi di elementi che riguardano i nostri impegni epistemici, allora non ogni metafora sarà il prodotto della medesima sintesi e richiederà impegni epistemici differenti. Alcune metafore semplicemente non possono nascere a meno che non vengano fatte certe esperienze. Possiamo pensare perciò che non vi è nessuna connessione particolare tra le metafore concettuali e le espressioni metaforiche nuove e vecchie. L’espressione “il tempo è denaro” non dà luogo né è il prodotto di qualche espressione metaforica. Essa va considerata come una mera espressione metaforica tra altre espressioni metaforiche, pena la violazione del principio secondo cui non si dà una regola per seguirne un’altra. La metafora concettuale, semplicemente, non è una regola per la formulazione di altre metafore. Certo, un sistema formale qualsiasi può combinare parole per formulare nuove espressioni che sono a loro volta metafore. Gli interpreti, inoltre, tenteranno di indovinare il significato di tali espressioni, trascurando così le condizioni della loro formulazione. Un sistema che non sia in grado di combinare conoscenze polimodali non potrà mai formulare metafore secondo qualche intenzione. Un essere umano fa, viceversa, esattamente questo. La metafora di Poe “il mormorio del grigio crepuscolo” è un prodotto di esperienze esibite in parole. Essa non è il prodotto di una cultura, se non a livello meramente sintattico. Possiamo congetturare che lo scrittore sia stato testimone di una certa scena di vita (sentire per strada il chiacchiericcio delle persone al crepuscolo). Cosa vi è di culturale in questa metafora? Il fatto che altre persone condividono questa esperienza? Quest’elemento non giustifica le possibilità di una corretta interpretazione più di quanto GLI OCCHI SONO CONTENITORI è una metafora concettuale che permette (stiamo supponendo che una metafora concettuale è un’espressione di pubblico dominio concettuale) di spiegare il significato della metafora “Hai la Bosnia negli occhi”, o viceversa. Quando, perciò, all’inizio di questo saggio abbiamo suggerito che una forma di apprendimento per la formulazione di metafore è necessaria, abbiamo semplicemente voluto dire questo: un parlante è sempre elemento di una cultura. Nella cultura il soggetto impara ad orientarsi connettendo in modo appropriato le esperienze polimodali del mondo in cui vive. Tale parlante non può, tuttavia, essere considerato in senso stretto il prodotto della propria cultura, altrimenti nessun essere umano potrebbe contribuire in qualche modo a plasmare quella cultura di cui è parte. Un artista è, per lo più, un soggetto che stravolge i parametri di una cultura, o di alcuni aspetti di quella cultura. Se un soggetto può fare ciò, allora anche un parlante sarà in grado di introdurre nella propria cultura elementi di novità linguistiche. Se quello che stiamo dicendo è ragionevole, allora non c’è modo, con i mezzi di cui disponiamo, di prevedere quanto di nuovo verrà detto, né tantomeno la forma in cui verrà detto. Questa è la componente soggettiva della metafora. Se ciò ci autorizza ad affermare che la metafora da luogo a nuova conoscenza, questo non possiamo dirlo senza ulteriori considerazioni preliminari. Solo assumendo che anche nella scienza i parlanti fanno uso di certe metafore si può congetturare che una metafora che esibisca una sintesi (per abduzione?) efficace sia una proposizione che ridefinisce i canoni della conoscenza posseduta.