La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



sabato 24 aprile 2010

Profilo di una maschera sciolta

Detesto lo snobismo, perché sottende nella gran parte dei casi carenza di qualità intellettuali, nonché il deserto del cuore. Può essere inteso come un rifugio per chi è vinto dal mondo e, non potendolo confessare per via della fierezza autoreferenziale, odia il mondo, odia la diversità, odia il talento, odia la spontaneità. Si desidera che si noti un accessorio dell’arredamento delle apparenze, perché non si può consentire a nessuno di scavare nel fondo di ciò che conta: il nulla spaventa e fa fuggire anche l’idiota. Detesto l’egocentrismo più ancora dell’egoismo. L’individuo egocentrico è un solipsista morale: crede sul serio che tutto ciò che si produce davanti al suo sguardo sia un dono del mondo per lui. È il perno centrale di una giostra che ruota perpetuamente, senza motore, volta ad una direzione casuale, aleatoria piuttosto che meccanica.

La carriòla

Una sera come tante

Nella sua casa, una casa qualunque, una sera come tante, dopo aver svolto le solite attività, il poeta riflette su di sé, sui suoi proponimenti disattesi, sulla sua stanchezza e sulla sua abulia: si pone quindi varie domande sul futuro, anche se sa bene che esse rimarranno senza risposta e, alla fine, si rassegna ad accettare il suo ruolo di membro di una società di persone “senza storia”, di “utenti di servizi” che hanno ormai perso l’esatta coscienza del bene e del male, appagandosi di una acquiescenza che è una viltà, nata dalla paura e nascosta sotto la maschera di una falsa bontà e di uno stucchevole perbenismo.



Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega al suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
E’ nostalgia di futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
La nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.

(Giovanni Giudici, da La vita in versi, 1965)


Ma in una giornata come tante il filantropo dalla cravatta rosa s’è finalmente infervorato di livore contro il sovrano onnipotente. Come il fantasma d’Amleto, dev’essergli apparso lo spettro di Almirante e come il calciatore che stufo della situazione decide di gettare al vento la maglia della sua squadra, il presidente della camera ha sbottato lasciando tutti nello sconcerto generale.
Vi ricordate di Petronio? Lo scrittore latino che fece parte della corte di Nerone con l’appellativo di arbiter elegantiae, cioè arbitro del buon gusto, così che l’imperatore lo predilesse come consigliere in fatto di gusto letterario e di manifestazioni mondane? Ebbene, la storia racconta che questa predilezione di Nerone per Petronio suscitò l’invidia di Tigellino, comandante delle guardie del corpo dell’imperatore; egli lo accusò di far parte della congiura contro Nerone, insinuando che Petronio era amico di un congiurato (tale Scevino) che era stato già condannato a morte. Petronio, non volendo attendere la sentenza di morte, si uccise incidendosi le vene e nel testamento rinfacciò a Nerone gli scandali di alcuni suoi cortigiani e cortigiane e le sue infamie e dissolutezze.
Ora, non sembra che F. sia stato accusato da qualche bondiano di turno d’ aver congiurato contro il sommo imperatore, fatto sta che il ribelle s’è proposto volontariamente all’ira dell’onnipotente e dei suoi servi imperituri. E non sembra neanche che si sia suicidato dopo aver dato lettura della sua epistola biliosa agli astanti suoi compagni. No, no. Ha affrontato il giudizio dell’immenso stando faccia a faccia con lui (che impertinente!) e l’ha redarguito senza remore. La storia ci svelerà senz’altro se l’arbiter elegantiae dell’adirato imperatore non avrà fatto altro che sottoscrivere la sua condanna a morte o se invece sarà riuscito a smuovere quel po’ di fango che s’annida nelle fogne della politica senza scrupoli.
F. s’è forse ispirato ai versi del poeta ligure?: “C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà”…
Se si potrà dare valore a questa rivoluzione finiana lo sapremo solo col tempo, che è galantuomo e svela sempre tutte le verità.
Continua…

Post scriptum
Scriveva Petronio nella sua epistola a Nerone:

[…] “Non credere, te ne prego, ch’io sia offeso per aver tu ucciso tua madre, tua moglie e tuo fratello; per aver incendiato Roma e mandato all’Erebo tutti gli uomini onesti che vivevano nei tuoi domini. No, pronipote di Chronos. La morte è retaggio dell’uomo, da te non c’era da aspettarsi altro. Ma assassinare per anni interi le orecchie della gente con le tue poesie, vedere il tuo ventre di Domizio su cotesti steli di gambe, roteato a mulinello in una danza pirrichia, udire la tua musica, la tua declamazione, i tuoi versi canini, miserabile poetastro da suburbio, è cosa che oltrepassa le mie forze, e ha detestato in me il desiderio di morire. Roma si tappa le orecchie quando t’ode, il mondo ti schernisce. Non posso né desidero più fare il viso rosso per te. I latrati di Cerbero, quantunque somiglino alla tua musica, mi faranno meno male, perché non sono stato mai amico di Cerbero, e non ho bisogno di vergognarmi del suo abbaiare. Addio, ma smetti di cantare, commetti omicidi, ma non scrivere più versi, avvelena la gente, ma non ballar più, sii incendiario, ma non suonare la cetra. Questo è l’augurio e l’ultimo amichevole consiglio che ti manda l’Arbiter elegantiae.”
[Tratto dal romanzo Quo vadis? dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz]

lunedì 19 aprile 2010

È un periodo intenso, dominato da incombenze di diversa natura. Le giornate traboccano di traduzioni, letture, scritture, impegni vari ed eventuali, deduzioni, induzioni. Inoltre, anche Federica ha davvero buone ragioni per mettere in po’ in garage la sua carriola. Bisogna aggiungere che diventa snervante dedicare l’attenzione alle liti dei maggiorenti, alla lottizzazione del Paese, alle follie della TV, a Berlusconi che sfrutta anche un funerale per filmare un superspot, a servizi morbosi e ricostruzioni maniacali di delitti di trent’anni fa. E poi, il blog non è stato plasmato per diventare un contenitore di noie o capricci personali. La logica del GF non può corrompere anche una delle poche riserve indiane di resistenza al Pensiero Unico. Il centrosinistra è deprimente. D’Alema fa venire l’orticaria. La mediocrità si diffonde in giro come una chiazza d’olio versata da un foro morto. Sarà il libro della sera, il custode della notte, a dare un senso alle nebbie della primavera? La notizia è la seguente: nonostante le ragioni contrapposte fossero preminenti, il blog resta in vita.

venerdì 9 aprile 2010

La carriòla
Distrazione

Nero tra il baglior polverulento d'un sole d'agosto che non dava respiro, un carro funebre di terza classe si fermò davanti al portone accostato d'una casa nuova d'una delle tante vie nuove di Roma, nel quartiere dei Prati di Castello.
Potevano esser le tre del pomeriggio.
Tutte quelle case nuove, per la maggior parte non ancora abitate, pareva guardassero coi vani delle finestre sguarnite quel carro nero.
Fatte da così poco apposta per accogliere la vita, invece della vita - ecco qua - la morte vedevano, che veniva a far preda giusto lì.
Prima della vita, la morte.
E se n'era venuto lentamente, a passo, quel carro. Il cocchiere, che cascava a pezzi dal sonno, con la tuba spelacchiata, buttata a sghembo sul naso, e un piede sul parafango davanti, al primo portone che gli era parso accostato in segno di lutto, aveva dato una stratta alle briglie, l'arresto al manubrio della martinicca, e s'era sdraiato a dormire piú comodamente su la cassetta.
Dalla porta dell'unica bottega della via s'affacciò, scostando la tenda di traliccio, unta e sgualcita, un omaccio spettorato, sudato, sanguigno, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia pelose.
- Ps! – chiamò, rivolto al cocchiere. Ahò! Piú là...
Il cocchiere reclinò il capo per guardar di sotto la falda della tuba posata sul naso; allentò il freno; scosse le briglie sul dorso dei cavalli e passò avanti alla drogheria, senza dir nulla.
Qua o là, per lui, era lo stesso.
E davanti al portone, anch'esso accostato della casa piú in là, si fermò e riprese a dormire.
- Somaro! - borbottò il droghiere, scrollando le spalle. - Non s'accorge che tutti i portoni a quest'ora sono accostati. Deve esser nuovo del mestiere.
Così era veramente. E non gli piaceva per nientissimo affatto, quel mestiere, a Scalabrino. Ma aveva fatto il portinajo, e aveva litigato prima con tutti gl'inquilini e poi col padron di casa; il sagrestano a San Rocco, e aveva litigato col parroco; s'era messo per vetturino di piazza e aveva litigato con tutti i padroni di rimessa, fino a tre giorni fa. Ora, non trovando di meglio in quella stagionaccia morta, s'era allogato in una Impresa di pompe funebri. Avrebbe litigato pure con questa - lo sapeva sicuro - perché le cose storte, lui, non le poteva soffrire. E poi era disgraziato, ecco. Bastava vederlo. Le spalle in capo; gli occhi a sportello; la faccia gialla, come di cera, e il naso rosso. Perché rosso, il naso? Perché tutti lo prendessero per ubriacone; quando lui neppure lo sapeva che sapore avesse il vino.
- Puh!
Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l'altro, l'ultima litigata per bene l'avrebbe fatta con l'acqua del fiume, e buona notte.
Per ora là, mangiato dalle mosche e dalla noia, sotto la vampa cocente del sole, ad aspettar quel primo carico. Il morto.
O non gli sbucò, dopo una buona mezz'ora, da un altro portone in fondo, dall'altro lato della via?
- Te possino... (al morto) - esclamò tra i denti, accorrendo col carro, mentre i becchini, ansimanti sotto il peso d'una misera bara vestita di mussolo nero, filettata agli orli di fettuccia bianca, sacravano e protestavano:
- Te possino... (a lui) – Te pij n'accidenteO ch'er nummero der portone non te l'aveveno dato?
Scalabrino fece la voltata senza fiatare: aspettò che quelli aprissero lo sportello e introducessero il carico nel carro.
- Tira via!
E si mosse, lentamente, a passo, com'era venuto: ancora col piede alzato sul parafango davanti e la tuba sul naso.
Il carro, nudo. Non un nastro, non un fiore.
Dietro, una sola accompagnatrice.
Andava costei con un velo nero trapunto, da messa, calato sul volto; indossava una veste scura, di mussolo rasato, a fiorellini gialli, e un ombrellino chiaro aveva, sgargiante sotto il sole, aperto e appoggiato su la spalla.
Accompagnava il morto, ma si riparava dal sole con l'ombrellino. E teneva il capo basso, quasi piú per vergogna che per afflizione.
- Buon passeggio, ah Rosi'! - le gridò dietro il droghiere scamiciato, che s'era fatto di nuovo alla porta della bottega. E accompagnò il saluto con un riso sguaiato, scrollando il capo.
L'accompagnatrice si voltò a guardarlo attraverso il telo; alzò la mano col mezzo guanto di filo per fargli un cenno di saluto, poi l'abbassò per riprendersi di dietro la veste, e mostrò le scarpe scalcagnate. Aveva però i mezzi guanti di filo e l'ombrellino, lei.
- Povero sor Bernardo, come un cane, - disse forte qualcuno dalla finestra d'una casa.
Il droghiere guardò in su, seguitando a scrollare il capo. - Un professore, con la sola servaccia dietro... - gridò un'altra voce, di vecchia, da un'altra finestra.
Nel sole, quelle voci dall'alto sonavano nel silenzio della strada deserta, strane.
Prima di svoltare, Scalabrino pensò di proporre all'accompagnatrice di pigliare a nolo una vettura per far piú presto, già che nessun cane era venuto a far coda a quel mortorio.
- Con questo sole... a quest'ora...
Rosina scosse il capo sotto il velo. Aveva fatto giuramento, lei, che avrebbe accompagnato a piedi il padrone fino all'imboccatura di via San Lorenzo.
- Ma che ti vede il padrone? Niente! Giuramento. La vettura, se mai, l'avrebbe presa, lassú, fino a Campoverano. - E se te la pago io? - insistette Scalabrino.
Niente. Giuramento.
Scalabrino masticò sotto la tuba un'altra imprecazione e seguitò a passo, prima per il ponte Cavour, poi per Via Tomacelli e per Via Condotti e per Piazza di Spagna e Via Due Macelli e Capo le Case e Via Sistina.
Fin qui, tanto o quanto, si tenne su, sveglio, per scansare le altre vetture, i tram elettrici e le automobili considerando che a quel mortorio lì nessuno avrebbe fatto largo e portato rispetto.
Ma quando, attraversata sempre a passo Piazza Barberini, imboccò l'erta via di San Niccolò da Tolentino, rialzò il piede sul parafango, si calò di nuovo la tuba sul naso e si riaccomodò a dormire.
I cavalli, tanto, sapevano la via.
I rari passanti si fermavano e si voltavano a mirare, tra stupiti e indignati. Il sonno del cocchiere su la cassetta e il sonno del morto dentro il carro: freddo e nel buio, quello del morto; caldo e nel sole, quello del cocchiere; e poi quell'unica accompagnatrice con l'ombrellino chiaro e il velo abbassato sul volto: tutto l'insieme di quel mortorio, insomma, così zitto zitto e solo solo, a quell'ora bruciata, faceva proprio cader le braccia.
Non era il modo, quello, d'andarsene all'altro mondo! Scelti male il giorno, l'ora, la stagione. Pareva che quel morto lì avesse sdegnato di dare alla morte una conveniente serietà. Irritava. Quasi quasi aveva ragione il cocchiere che se la dormiva.
E così avesse seguitato a dormire Scalabrino fino al principio di Via San Lorenzo! Ma i cavalli, appena superata l'erta svoltando per Via Volturno, pensarono bene d'avanzare un po' il passo: e Scalabrino si destò.
Ora, destarsi, veder fermo sul marciapiedi a sinistra un signore allampanato, barbuto, con grossi occhiali neri, stremenzito in un abito grigio sorcigno, e sentirsi arrivare in faccia, su la tuba, un grosso involto, fu tutt'uno!
Prima che Scalabrino avesse tempo di riaversi, quel signore s'era buttato innanzi ai cavalli, li aveva fermati e, avventando gesti minacciosi, quasi volesse scagliar le mani, non avendo piú altro da scagliare, urlava, sbraitava:
- A me? a me? mascalzone! canaglia! manigoldo! a un padre di famiglia? a un padre di otto figliuoli? manigoldo! farabutto!
Tutta la gente che si trovava a passare per via e tutti i bottegai e gli avventori s'affollarono di corsa attorno al carro e tutti gl'inquilini delle case vicine s'affacciarono alle finestre, e altri curiosi accorsero, al clamore, dalle prossime vie, i quali, non riuscendo a sapere che cosa fosse accaduto, smaniavano, accostandosi a questo o a quello, e si drizzavano su la punta dei piedi.
- Ma che è stato?
- Uhm... pare che... dice che... non so!
- Ma c'è il morto?
- Dove?
- Nel carro, c'è?
- Uhm!... Chi è morto?
- Gli pigliano la contravvenzione!
- Al morto?
- Al cocchiere...
- E perché?
- Mah!... pare che... dice che...
Il signore grigio allampanato seguitava intanto a sbraitare presso la vetrata d'un caffè, dove lo avevano trascinato; reclamava l'involto scagliato contro il cocchiere; ma non s'arrivava ancora a comprendere perché glielo avesse scagliato. Sul carro, il cocchiere cadaverico, con gli occhi miopi strizzati, si rimetteva in sesto la tuba e rispondeva alla guardia di città che, tra la calca e lo schiamazzo, prendeva appunti su un taccuino.
Alla fine il carro si mosse tra la folla che gli fece largo vociando; ma, come apparve di nuovo, sotto l'ombrellino chiaro, col velo nero abbassato sul volto, quell'unica accompagnatrice - silenzio. Solo qualche monellaccio fischiò.
Che era insomma accaduto?
Niente. Una piccola distrazione. Vetturino di piazza fino a tre giorni fa, Scalabrino, stordito dal sole, svegliato di soprassalto, si era scordato di trovarsi su un carro funebre: gli era parso d'essere ancora su la cassetta d'una botticella e, avvezzo com'era ormai da tanti anni a invitar la gente per via a servirsi del suo legno, vedendosi guardato da quel signore sorcigno fermo lì sul marciapiedi, gli aveva fatto segno col dito, se voleva montare.
E quel signore, per un piccolo segno, tutto quel baccano...


[Dalla raccolta di novelle 'La vita nuda' di Luigi Pirandello]


* * * * *
Cara patria, quanto laida e comica sembri, così sballottata per le vie più perigliose di un futuro misurato sul nulla. Che infausto cocchiere ti traghetta su per l’erta via del centro, ostentando la sua fiera aria da vespillone con l’eterno vizio di distrarsi dalle necessità latenti del momento per accorgersi tardivamente della realtà misera che circonda il paese. Ora spinge il carrozzone verso la salita del Colle, e s’inerpica, e s’arrabatta per non cadere dal posto a cassetta e conquistare l’ambito premio per poi andare in pensione? No, niente. Giuramento. O patto mefistofelico? Fino alla fine dei tempi il vespillone resterà saldo e ci condurrà tutti all’inferno. Prosit.

martedì 6 aprile 2010

Un anno dopo. Il dovere di non dimenticare
NESSUNO


lunedì 5 aprile 2010

Mostri del Signore per l'Olocausto bianco

Piegare un corpo o una coscienza è un atto di brutalità. Ma forzare un corpicino ancora immaturo per la soddisfazione di certe pulsioni animalesche è uno crimini più oscuri che si possa concepire. Si tratta di un'azione carica di violenza dis-umana, capace di sgretolare la coscienza sull'impressione di un livido che resta per sempre, un gesto degno di abominio che è al di là del bene e del male, né immorale né amorale, quanto piuttosto premorale, ovvero riconducibile ad una dimensione disopraffazioni bestiali, impero della carne e deserto del cuore. Il pedofilo violenta la ragione della civiltà agendo nel registro della sospensione degli imperativi morali: è il servo ottuso delle proprie inconfessabili perversioni. Si tratta di una figura imperdonabile, da bandire dalla civitas. La comunità deve abortirlo e rimuoverlo, rovesciandolo nel fondo oscuro di una cella, finché - per la grazia del mondo - non avrà tolto il disturbo. Non ha alcun senso prestar fede alla logica che promuove strategie di recupero o di riabilitazione sociale, poiché il pedofilo è per principio recidivo. Dopo anni di piaceri solitari (volti a soffocare in masturbazioni innocue, ma non innocenti, i fantasmi che attraversano i suoi visceri), può improvvisamente riconquistare la prima pagina dell'opinione pubblica.

Il reato di pedofilia commesso da un individuo che ha avuto la vocazione di farsi consacrare ministro di Dio è forse la massima espressione dell'orrore. C'è più barbarie nella mano allungata di un sacerdote su un corpo innocente piuttosto che nelle condotte di un sergente della Wehrmacht. Agendo in una dimensione premorale, si macchia di uno crimini più oscuri proprio chi si impone a livello sociale come il custode e il divulgatore dell'unica morale possibile. La violenza brutale si allea con la dissimulazione in una messinscena pretesca, che è odio per la spontaneità e per la gioia di vivere. Magari quel sacerdote si rifiuta di offrire l'ostia ad una donna divorziata (costretta a fuggire dal picchiatore della sera), organizza fiaccolate contro chi, come Beppino Englaro, si è battuto per la dignità di una persona, o scaccia giovani gay dal proprio centro sociale, per poi sciogliersi in facciate mielose ed unte di ipocrisia.

giovedì 1 aprile 2010

Professor chi?
Centinaia di docenti a contratto resteranno senza un corso o saranno "costretti" a insegnare gratis. Alcuni del resto già lo fanno. Sono i precari della cattedra, quelli che da anni vengono spremuti dalle università italiane, tenuti a far lezione anche a cento o duecento allievi per volta, quelli che fanno ricevimento studenti, seguono le tesi, assistono agli esami, danno i voti. Docenti a tutti gli effetti eppure invisibili, "non strutturati": i loro nomi non si trovano né fra i ricercatori, né fra gli associati, né fra gli ordinari. Non hanno alcuna rappresentanza nelle facoltà, né negli organi di governo delle università. Sono esterni, cattedre low cost, in genere freschi di studio, aggiornati e qualificati. Molti hanno già avuto assegni di ricerca e borse di studio e vengono "parcheggiati" nella docenza più precaria che esista perché in questo modo le accademie possono continuare ad assicurare corsi a costo zero o a compensi irrisori. Dal loro canto, alcuni accettano lo stesso questi contratti capestro per proseguire il lavoro nel mondo accademico e sperando che prima o poi le università riaprano il reclutamento. Il fatto è che sono tanti, anzi tantissimi se in questa categoria di precari si includono anche assegnisti e contrattisti "costretti" pure loro a insegnare gratis. L'ultima rilevazione statistica del ministero è del 2008 e ne contava circa 38mila. Per anni gli atenei hanno pescato da questo serbatoio per creare nuovi corsi e ampliare l'offerta formativa. Di recente è entrata in vigore una norma che impone che i corsi di laurea debbano essere tenuti almeno per il 50% da docenti strutturati (cioè ordinari, associati o ricercatori). Con la stretta finanziaria del governo sulle risorse alle università, i docenti a contratto sono i primi "esuberi" ad essere tagliati. Siccome però gli insegnamenti che coprono sono numerosi, gli atenei trovano una via di fuga offrendo la docenza gratuita oppure offrendo compensi risicati e diversi da ateneo ad ateneo, o da facoltà a facoltà: da zero a mille o duemila euro l'anno. "Per uno che rifiuta c'è la fila comunque fuori dalla porta" racconta un professore dell'università la Sapienza. E' così che con la crisi finanziaria, avanza questa figura atipica, questa specie di "volontariato" della cattedra. "Anche in passato c'erano università che ci proponevano corsi a stipendio zero", spiega un ricercatore dell'università di Firenze. Il fenomeno è in ulteriore crescita. A Pisa è partita la campagna "Gratis io non lavoro" che è un invito a rifiutare di tenere insegnamenti senza ricevere in cambio alcun compenso. Ma corsi non retribuiti si incontrano in diverse università: Napoli, Palermo, Siena, Cassino, Pisa, Firenze, Roma. "Siamo noi il vero tesoretto degli atenei - spiega Ilaria Agostini, del Coordinamento nazionale ricercatori precari della Cgil - negli ultimi sei anni io ho firmato 15 contratti con le università di Perugia, Ginevra e Firenze. Quest'anno ho detto basta, non ci sto: Firenze mi ha chiesto di salire in cattedra gratuitamente, prima mi pagavano tre euro lorde l'ora adesso zero, non è nemmeno un contratto di lavoro è una carta dove ci sono soltanto doveri e un unico diritto, quello di avere una casella di posta elettronica targata unifi".