La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



venerdì 21 maggio 2010

Frammenti fotografici del sabato poetico


Stasera Linus mi ha consegnato la cartella delle foto che ha scattato sabato sera. Lo ringrazio, perché ha rubato alle corrosioni dell'oblio il senso di un appuntamento, che ho ideato per gettare una piccola pietra nella noia di periferia. In una piccola città di provincia l'unica ragione per andare avanti coincide con l'investimento del tempo e delle energie su se stessi. Eppure detesto l'individualismo perché fa danni piuttosto gravi. Talvolta bisogna fermarsi, ritrovarsi con persone che sono animate da interessi attigui ai propri, ragionare, discutere, produrre occasioni di valorizzazione culturale. Sono convinto che sarebbe opportuno farlo più spesso. Vedremo.
Ringrazio la bravissima Bruna Marcelli e il carissimo professor Fausto Pellecchia per aver reso possibile l'allestimento di un sabato alternativo, un omaggio al pensiero. Ringrazio Linus e Vincenzo Brusello per la preziosa collaborazione che mi hanno assicurato. Sono grato a quanti hanno voluto raggiungerci nel cuore del Centro Storico, vincendo l'opposizione di un temporale gotico, che avrebbe potuto compromettere la riuscita dell'appuntamento, poiché la sala dell'AUSER è distante dalle vie ordinarie del traffico e della vita sociale della città.

giovedì 20 maggio 2010


Moralmente parlando, i modelli hanno un che di impersonale. Sintetizzano l'esistenza dell'altro fornendo un quadro che di tutto sa men che di vero. Sono da considerare modelli tutte quelle conoscenze di cui disponi sulla vita di chi è distante; coloro di cui puoi dire di compatire o invidiare o ammirare qualcosa. Anche l'odio talvolta si riduce ad uno schema di pensieri ed azioni. Questi sentimenti hanno raramente per te un valore, da che il detto: ciò che non è nostro non ha valore. La vita degli altri e forse la tua si riducono in fondo a riassunti, alcuni davvero poco apprezzabili, tanto da essere dimenticati o quasi nei magazzini della memoria, come un quadro appeso in un corridoio o sul muro delle scale, qualcosa che vedi raramente e solo di sfuggita... un errore grammaticale su un assegno che foraggia chi sa apprezzare la tua superficialità. E da questa considerazione segue un pensiero, ovvero che se la tua vita si riduce ad un riassunto quasi del tutto impersonale, quasi che non ti appartenesse, come potresti mai preoccuparti dell'altro tu che a te stesso sei estraneo? Allora è vero o no, che solo chi ama se stesso può amare anche l'altro, o almeno imparare a farlo?

lunedì 17 maggio 2010

La rivolta della Signora della Danza
Il video è emblematico, intriso di significati decisivi per comprendere compiutamente la deriva della vita politico-culturale del Paese. La storia di Gianni Alemanno è nota a tutti: si tratta del frutto maturo di un’intera fazione politica, piuttosto improvvisata, di fascisti imborghesiti che, pur di raggiungere i piani più elevati del potere, hanno fatto il possibile per smarcarsi dal loro passato imbarazzante, diluendolo nelle tinte grigie della moderazione clericale. Da pugliese, è riuscito a vincere quasi per caso le elezioni comunali della Capitale. Il centrosinistra riuscì nell’impresa di designare come candidato di coalizione l’unico personaggio che poteva avere qualche chances di sconfitta. Un minestrone riscaldato indigesto per tutti. E già: Roma non è una città emiliana o umbra e le direttive di partito non vengono recepite pertanto dall’elettorato progressita o legato alle amministrazioni uscenti come una conditio sine qua non. Gli ex missini sono davvero distanti dalle valorizzazioni delle potenzialità culturali delle realtà sociali in cui operano, poiché continuano ad associare l’esperienza intellettiva ad un passatempo da intellettuali radical-chic, gente che vota per i partiti di sinistra e che storce il naso anche dinanzi allo Scudo Crociato. Per questa ragione, il loro slogan ideale è: meno concerti e conferenze, ma strade senza buche o più illuminate, o cose del genere. Il pragmatismo di Alemanno è incompatibile con la promozione pubblica delle arti. Roma si sta lentamente spegnendo. Un concerto di un cantante machista in Piazza Navona vale mille conferenze o mostre. La rivolta di Carla Fracci, la Signora della Danza, denuncia questo scarto. Alemanno l’ha cacciata dalla direzione del corpo di ballo del Teatro dell’Opera, senza preoccuparsi neppure di comunicarglielo de visu. L’ha fatto per far largo ai giovani, non annunciando che in realtà il sostituto prescelto è un sessantaseienne di fiducia. La Signora della Danza si scompone, rinuncia all’eleganza scenica del proprio passo per urlare una denuncia sociale.

martedì 11 maggio 2010

Che ne sarà dei poeti e delle cose
addormentate che più nessuno ricorda?

Un omaggio al genio di García Lorca

Presentazione de “El amor brujo” di Bruna Marcelli


Sabato 15 maggio 2010 ore 18.30
Sede AUSER, via Plebiscito Venafro


Intervengono:


Francesco GIAMPIETRI
Scuola Superiore di Filosofia
Università di Roma “Tor Vergata”
Elide DI DUCA
Edizioni Edimond
Città di Castello

Fausto PELLECCHIA
Università di Cassino
Bruna MARCELLI
Autrice de ‘El amor brujo

lunedì 10 maggio 2010

JORGE LUIS BORGES

E se al mondo esistessi soltanto io?


«Le enciclopedie sono state la lettura principale della mia vita. Sono sempre stato interessato alle enciclopedie. A Buenos Aires andavo alla Biblioteca Nacional e, siccome ero timido, non osavo chiedere un libro o avvicinare un bibliotecario, e così cercavo sugli scaffali l’Enciclopedia Britannica. Ovviamente poi mi portavo il libro a casa. Sceglievo un volume a caso e lo leggevo. Una notte fui ben ricompensato perché lessi tutto sui Drusi, su Dryde \ e sui Druidi, tutti nello stesso volume, ovviamente, il “DR”. «Poi mi venne l’idea di un’enciclopedia di un mondo vero e poi di una, ovviamente molto rigorosa, di un mondo immaginario, dove tutto sarebbe stato collegato. Dove, per esempio, ci sarebbe stato un linguaggio, poi la letteratura, poi la storia, e così via. Poi ho pensato di scrivere una storia dell’enciclopedia fantastica. Naturalmente per scriverla ci sarebbero volute molte persone diverse che discutessero molte cose - matematici, filosofi, uomini di lettere, architetti, ingegneri, e anche narratori o storici. Poi, siccome mi serviva un mondo assolutamente diverso dal nostro, - non bastava inventare nomi stravaganti - mi dissi, perché non un mondo basato sulle idee di Berkeley?». Un mondo in cui è Berkeley a rappresentare il senso comune e non Cartesio? «Sì, proprio così. Quel giorno scrissi Tlön Uqbar, Orbis Tertius. Ovviamente l’intera storia si basava sulla teoria dell’idealismo, l’idea che non ci sono cose ma solo eventi, che non ci sono nomi ma solo verbi, che non ci sono cose ma solo percezioni...». Tlön è un buon esempio di racconto dove, comunque finisca la storia, il lettore è incoraggiato a continuare ad applicare le sue idee. «Bene, lo spero. Mi chiedo però se siano le mie idee. Perché, davvero, io non sono un pensatore. Ho usato le idee dei filosofi per i miei scopi letterari, ma non credo proprio di essere un pensatore. Penso che il mio pensiero sia stato fatto per me da Berkeley, Hume, Schopenhauer, forse Mauthner». Lei dice di non essere un pensatore... «Ciò che intendo dire è che non ho un sistema filosofico mio. E non ho mai cercato di crearmelo. Sono solo un uomo di lettere. Nello stesso modo - beh, forse non dovrei scegliere questo esempio - nello stesso modo in cui Dante usava la teologia per gli scopi della sua poesia, o Milton la teologia per la sua poesia, perché io non dovrei usare la filosofia, soprattutto l’idealismo - la filosofia che mi attira - per scrivere un racconto, una storia? Penso che sia lecito, no?». Lei condivide di sicuro una cosa con i filosofi: la fascinazione per la perplessità, il paradosso. «Sì, ovviamente - presumo che la filosofia sgorghi dalla nostra perplessità. Se avete letto quelli che potrei essere autorizzato a chiamare “i miei lavori”, avrete visto che lì dentro c’è in continuazione un evidente simbolo della perplessità: il labirinto. Labirinto e stupore vanno insieme, no? Un simbolo di stupore potrebbe essere il labirinto». Ma i filosofi non sembrano contenti di essere semplicemente messi di fronte alla perplessità, vogliono risposte. «Hanno ragione». Hanno ragione? «Beh, forse nessun sistema è completamente raggiungibile, ma la ricerca di un sistema è molto interessante». Lei definirebbe il suo lavoro la ricerca di un sistema? «No, non sarei così ambizioso. Lo definirei non fantascienza ma racconto filosofico, o racconto onirico. Sono anche molto interessato al solipsismo, che è poi una forma estrema di idealismo. È strano come tutti quelli che scrivono di solipsismo lo facciano per confutarlo. Non ho visto un solo libro a favore del solipsismo. So quello che vorreste dirmi: dato che c’è un solo sognatore, perché scrivo un libro? Ma se c’è un solo sognatore, perché non potrei sognare di scrivere un libro?». Che cosa pensa del solipsismo? «Che in senso logico è inevitabile: non ammette confutazione e non produce convinzione». In conclusione, lei ritiene che una storia possa rappresentare una posizione filosofica più efficacemente delle argomentazioni di un filosofo? «Non ci ho mai pensato, ma presumo di sì. Penso a qualcosa in termini di Gesù Cristo. Se ben ricordo, non ha mai usato argomentazioni, usava lo stile, usava certe metafore. Usava frasi che facevano colpo. Non diceva: non sono venuto a portare la pace ma la guerra, bensì: non sono venuto a portare la pace ma la spada. Cristo pensava per parabole. Blake diceva che un uomo, se è un cristiano, non dovrebbe essere solo intelligente, dovrebbe essere anche un artista, perché Cristo ha insegnato l’arte attraverso il suo modo di predicare, perché ognuna delle frasi di Cristo, se non ogni singola parola, ha valore letterario e la si può prendere come metafora o come parabola». Ma allora, che cosa distingue l’attitudine filosofica da quello lettaria, se condividono così tante cose? «Il filosofo ha un modo molto rigoroso di pensare, mentre lo scrittore è interessato anche alla narrazione, racconta delle storie, usa le metafore». Lei ritiene che un racconto, soprattutto un racconto breve, possa essere rigoroso in senso filosofico? «Direi di sì. Ovviamente in quel caso sarebbe una parabola. Ricordo una frase letta nella biografia di Oscar Wilde di Hesketh Pearson, a proposito della predestinazione e del libero arbitrio. Pearson chiese a Wilde dove mettesse il libero arbitrio, e quello rispose con una storia di aghi e chiodi che vivevano nei pressi di un magnete e dicevano: dovremmo andarlo a trovare, senza rendersi conto che si stavano slanciando sul magnete, il quale sorrideva perché sapeva che stavano andando a trovarlo. In questo modo Wilde dava la sua opinione: noi pensiamo di essere attori liberi, ma ovviamente non lo siamo... Vorrei però chiarire che, se si devono trovare idee in ciò che scrivo, quelle idee arrivano dopo la scrittura. Intendo dire che io comincio a scrivere, comincio con la storia, con il sogno. E poi, forse, entra qualche idea. Non comincio con la morale, per poi scriverci su un racconto che la dimostri».



(1976, intervista di LAWRENCE I. BERKOV e DENIS DUTTON, MICHAEL PALENCIA-ROTH).


giovedì 6 maggio 2010

Roma e Lazio: il bue che dà del cornuto all’asino

Negli ultimi giorni si è esteso (non solo nei bar e nelle osterie) un vuoto ronzìo di lamentele volte a dannare la Lazio per l’atteggiamento arrendevole che avrebbe impostato conto l’Inter, nella partita-chiave per la soluzione del Campionato. La squadra romana avrebbe lasciato sfilare la Capolista su un velluto di rose, pur di scongiure la possibilità di favorire l’odiata Roma nella corsa verso lo scudetto. Non credo che l’Inter (la squadra epica che ha bandito il Barça dalla finale di Champions Leaugue, in una sfida d’altri tempi combattuta nel covo del nemico e, per giunta, subendo un arbitraggio sfavorevole) avesse la necessità di favori dalla Lazio, che ha rischiato a lungo, nel corso della stagione, di inabissarsi sul fondo oscuro della classifica. Vorrei che qualcuno mi spiegasse come possa essersi sentito il tifoso laziale nel vedere il personaggio televisivo Totti ‘osare’ rovesciare i pollici, per comunicare: ‘Noi vinciamo lo Scudetto e voi marcirete in B’.
L’autentica contraffazione calcistica è andata in onda stasera davanti a milioni di persone. La Roma avrebbe avuto l’occasione di vendicare lo spirito sportivo del calcio battendo l’Inter ed aggiudicandosi il primo titolo della stagione. L’inferiorità della Roma è stata oggettiva: l’Inter sta alla Roma come la Nazionale brasiliana sta a quella del Singapore. Veniamo al nodo della sportività. Sono sportivi o meno i tifosi romanisti che hanno consumato la notte davanti all’hotel dove pernottavano i giocatori dell’Inter a schiamazzare, urlare, bivaccare, per non far chiudere occhio alla squadra? E poi, in campo, i giocatori della Lupa hanno compensato la loro insubordinazione picchiando come squadristi fascisti, provocando, gettando benzina sugli spalti. Un branco di miserabili. Questo è il senso della sportività che anima coloro che si sono permessi (strumentalmente) di porsi come i custodi della vocazione olimpica del calcio. È sportivo colui che sa accettare la sconfitta non reagendo in nessun modo né arrampicandosi sugli specchi in cerca di presunte giustificazioni di copertura. Un video vale mille possibili riferiementi o richiami: Totti, il cialtrone che si arricchisce con gli spot che mette in scena con la sua velina valorizzando la sua inconsistenza esistenziale, ha calciato un uomo al posto di un pallone. E pensare che negli ultimi anni, indirizzato da buoni consigli (sempre) interessati, era riuscito abilmente a camuffare la propria identità di villano di borgata col velo del simpaticone che sa essere sornione ed autoironico nonché capace di devolvere in beneficenza gli introiti di una raccolta di barzellette centrate sulla sua ignoranza o gaffaggine. Una trovata geniale, non c’è che dire. Calciare un uomo per non accettare l’inferiorità tecnico-tattica della propria squadra: ecco il senso dello sportività dei romanisti. Per non parlare delle violenze gratuite e salvagge di gente come Perrotta, Taddei, Burdisso. Lo stesso Totti ha picchiato duro già prima di calciare Balotelli al posto del pallone. Se la partita fosse stata arbitrata con rigore, la Roma avrebbe dovuto terminare la partita in sette contro undici. Questa squadra non merita di vincere alcunché. Meriterebbe di apprendere il senso della sportività sui campetti che si trovano alle spalle delle chiese della periferia capitolina, da bambini senza storia e sporchi di sudore e rabbia.

martedì 4 maggio 2010

DEMOCRAZIA E TIRANNIDE

Un tempo, nell’antica Grecia, quando la democrazia era ai suoi albori, i filosofi amavano discutere sull’ “eunomia”, letteralmente sul “buon governo”. Riflettevano sulle diverse forme di governo, per individuare il “nomos” ideale che avrebbe condotto alla realizzazione della felicità, o quantomeno di un equilibrio sociale. Anche se la democrazia è la forma di governo storicamente affermatasi, a quei tempi non era la più quotata. Aristotele ad esempio, ma anche eccellenti narratori quali Tucidide, preferivano di gran lunga l’ “aristocrazia” alla democrazia. Noi moderni abbiamo irrimediabilmente perso il senso della parola “aristocrazia”, poiché per noi essa è circondata da un alone di negatività, retaggio di secoli di battaglie fatte in nome della libertà. Eppure l’aristocrazia per i greci era semplicemente il “governo dei migliori”, i più adatti a governare per virtù. Ovviamente in una società come quella greca del V sec. a.C., i migliori erano anche i più ricchi, ma la ricchezza era garanzia di onestà poiché essi avrebbero esercitato la politica solo per amore della città. Ed erano cittadini solo i combattenti, quelli cioè che potevano pagarsi almeno l’armatura essenziale. L’altra parte della popolazione era fatta di donne, schiavi, stranieri e poveri sostanzialmente assenti dalla vita politica. Ma una delle grandi acquisizioni della democrazia ateniese, per merito di Clistene, fu l’equiparazione tra città e campagna. Tutti erano cittadini, sia l’uomo che viveva in città, sia l’abitante del demo più sperduto dell’Attica e tutti avevano il diritto/dovere di partecipazione alla vita politica.
Tuttavia i pensatori più illustri ritenevano che la democrazia, in quanto “governo del popolo”, fosse una forma di governo molto pericolosa e instabile poiché in essa era insito il pericolo della “tirannide”. Il “tyrannos” era una figura abituale della storia greca, cui i greci erano avvezzi. Ma spesso i tiranni erano dei capipopolo, capaci di influenzare le masse, di smuovere la loro “hybris” attraverso altra “hybris” (la tracotanza, il desiderio smodato, l’insoddisfazione, la rabbia, la paura, il risentimento, ecc). Il vero terrore per i greci era infatti la mancanza di equilibrio, il prevalere della “hybris” sulla virtù politica e sul bene comune. E come le tragedie greche insegnavano, la “hybris” era causa di profondi mali. Così Aristotele vedeva nella democrazia post-periclea una degenerazione della democrazia come imperialismo sfrenato e lo stesso amaro giudizio espresse Tucidide in quel capolavoro storico che sono le sue Storie. Così ben presto si diffuse la fobia della tirannide, spesso anche a scopo macchinoso attraverso la manipolazione della pratica dell’ostracismo. Per cacciare dalla città un uomo politico diventato pericoloso o fastidioso, bastava attirare su di lui l’accusa di tiranno e il suo destino era segnato.
Democrazia e tirannide sono una diade inseparabile, fin dalla loro origine.

Ah, quante risposte sul nostro tempo potremmo trovare lì, agli albori della democrazia! Chi sono i leghisti se non capipolo che incitano alla “hybris” attraverso la “hybris” come programma politico, producendo spettacoli raccapriccianti come quelli che abbiamo visto nella puntata di Annozero del 22 aprile? E perché il corpo del Duce non potrà mai essere sepolto veramente, ma sempre e continuamente esorcizzato? Democrazia e tirannide.

lunedì 3 maggio 2010

CONTRAFFAZIONI CALCISTICHE
Ha ragione lui. Non avrei mai immaginato di poterlo blaterare, ma sì, ha proprio ragione lui a dire che il calcio italiano è un vero schifo. Non so quanti di voi abbiano guardato la messa in scena costruita ieri sera sul prato verde dell'Olimpico e a quanti di voi possa interessare quello che sto per esternare, ma non riesco proprio farne a meno e perciò abbiate pazienza e lasciate che trovi consolazione scrivendo un breve post sul blog.
Una curiosa atmosfera aleggiava sul campo già al momento del calcio d'inizio: una calma olimpica (è il caso di dirlo) sovrastava indisturbata su quella che si solito chiamano curva nord ma che di curva non aveva un bel niente a parte la struttura architettonica dello stadio. Quasi un silenzio da cattedrale si librava sull'erbetta per nulla intimorita dal calpestìo (niente affatto violento) dei tacchetti degli undici calciatori. Sì undici, in quanto l'Inter giocava indisturbata contro una squadra fantasma di cui il solo portiere (evidentemente l'unico a non essere messo al corrente della tattica inesistente da dover espletare) continuava a conservare sembianze umane.
Dire che sembrava di osservare una partitella tra la prima squadra del campionato e l'ultima squadra della categoria eccellenza è dire poco. Passaggi lenti, quasi a rallentatore tra un calciatore ed un altro; aggressività da cagnolino sotto effetto di valium; abbracci festosi (al limite del bacio del perdono) tra un fallo ed un altro; calci d'angolo lanciati come se i piedi fossero stati affetti da alluce valgo o da calli e duroni incancreniti; finte corse per recuperare il pallone e, dulcis in fundo, acclamazione esultante laziale (con tanto di striscioni inneggianti alla grandezza dell'Inter e del suo allenatore!) alle reti vittoriose degli avversari interisti!
Complimenti all'Inter che ha vinto con fatica contro una vera squadra combattente e complimenti alla Lazio che non ha saputo davvero porsi al di sopra della vergogna cancellando così il vero volto della professionalità e della serietà agonistica.