La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



lunedì 20 febbraio 2012



Sono in viaggio, per tornare dopo quattro mesi, sempre per ragioni filosofiche, in Emilia. Attraverserò di nuovo Modena, spingendomi sulla via Emilia fino a Reggio. L’occasione del ritorno è oltremodo stimolante: nel corso del XXI Convegno Nazionale dei dottorandi in Filosofia presenterò (per essere preciso, giovedì mattina) una relazione sull’interesse di Leibniz per la medicina (La cura del mondo). Si tratta di un interessante banco di prova, dato che mi viene offerta la prima opportunità per esporre, al cospetto di un pubblico qualificato, le intuizioni che stanno facendo lievitare la tesi di dottorato.

sabato 11 febbraio 2012

La carriòla


Per Lisbona. Perché nel titolo rivive Lisbona e dunque Pessoa. Pessoa in realtà viene citato non molto spesso, due sole volte: una nel racconto, l’altra sul frontespizio del libro.


Rua dos Douradores. E se Bernardo Soares avesse deciso così, all’improvviso, di cambiare vita, di lasciare il suo lavoro e il suo ufficio e saltare sul primo treno in partenza alla stazione? Ecco, allora non avremmo avuto il Libro dell’Inquietudine. Dilaga il respiro del poeta portoghese e gonfia le pagine di quest’altro libro di cui vi scrivo e in cui si narra la storia di un professore svizzero di lingue morte – latino, greco, ebraico – che una mattina, mentre percorre la strada che lo separa dal suo liceo, s’imbatte in una donna che, a giudizio di Raimond Gregorius, pare voglia gettarsi da un ponte. Il professore scoprirà che la giovane donna è portoghese. Português. “La o, che lei sorprendentemente aveva pronunciato come una u, la sonorità stranamente soffocata e in crescendo della ê e la sc strascicata e morbida si fusero per lui in una melodia che echeggiò più a lungo di quanto non fosse accaduto in realtà, e che avrebbe amato poter ascoltare tutto il giorno”.


“Delle mille esperienze che facciamo, riusciamo a tradurne in parola al massimo una e anche questa solo per caso e senza l’accuratezza che meriterebbe. Fra tutte le esperienze mute si celano quelle che, a nostra insaputa, conferiscono alla nostra vita la sua forma, il suo colore e la sua melodia. Allorché ci volgiamo, quali archeologi dell’anima, a questi tesori scopriamo quanto sconcertanti essi siano. L’oggetto che prendiamo in esame si rifiuta di stare fermo, le parole scivolano via dal vissuto e alla fine sulla carta rimangono pure affermazioni contraddittorie. Per lungo tempo ho creduto che questa fosse una mancanza, una pecca, qualcosa che si dovesse superare. Oggi penso che le cose stiano diversamente: che il riconoscimento dello sconcerto sia la via regia per giungere alla comprensione di quelle esperienze tanto familiari quanto enigmatiche. Tutto ciò può suonare strano, anzi singolare, lo so. Ma da quando vedo la faccenda in questo modo, ho la sensazione di essere per la prima volta davvero vigile e vivo”.


Questa è l’introduzione del libro scovato per caso da Gregorius in una vecchia libreria antiquaria. AMADEU INÁCIO DE ALMEIDA PRADO, UM OURIVES DAS PALAVRAS, LIBSOA 1975, gli pronuncia a voce alta il libraio. L’orafo delle parole, non è un bel titolo? Allusivo ed elegante. Come argento opaco. Spesso, nell’osservare i suoi alunni, Gregorius s’era perso in un pensiero, sempre più frequente e tanto lontano da lui: “Quanta vita hanno ancora davanti a sé; come è ancora aperto il loro futuro; che cosa ancora può attenderli; quante esperienze possono fare ancora!” e adesso lì, in quel rifugio avvolto nell’odore di polvere e di rilegature in pelle, il libraio gli traduce un’altra frase dell’autore ignoto: “Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto?”


Il romanzo narra l’esperienza di un uomo ordinario che ad un certo punto della sua vita, contro ogni aspettativa che avrebbero potuto offrirgli il suo carattere e la sua prevedibilissima volontà, decide di darle una sterzata, di seguire l’istinto, di fidarsi della sua voglia di evadere dal mondo stantìo che lo circonda, di allontanarsi dalla sua amata Bubenberghplatz, dove aveva trascorso tutta la sua vita, dove sapeva orientarsi, dove era a casa… Il libro di Prado gli fornisce l’ingresso in un altro se stesso e il viaggio che lo condurrà a Lisbona avrà il merito di forgiarne il carattere e l’aspetto (gli occhiali ne saranno una prova). Ecco perché in qualche modo il gusto pessoiano non può che essere avvertito in ogni alito delle lettere stampate. Nel suo Livro do Desassossego il poeta scriveva: - Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera, perché nessuno sapeva che a questo mondo esistono i mascherati. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. - (Libro dell’Inquietudine, annotazione del 7 aprile 1933).


La struttura del romanzo è un classico libro nel libro, perché la narrazione è intercalata dalle continue annotazioni di Prado. Ma c’è qualcos’altro. Non è solo un racconto nel racconto, ossia il narrare della vita di Prado e le conseguenti rivoluzioni che essa provoca nella vita di Gregorius. Il professore, infatti, si insinuerà talmente bene nel passato del portoghese - conoscerà gli amici più cari dello scrittore affratellandosi con alcuni di loro - che arriverà a scoprire sempre più nuovi volti anche nella pedissequa, invariata sovraccoperta della sua esistenza. Ad un certo punto Gregorius si chiederà: “Era possibile che la maniera migliore per accertarsi di esistere fosse imparare a conoscere e a comprendere un altro?”. E il mio amore per i libri non può non suggerirmi che dal racconto nel racconto, dal libro nel libro, ne viene fuori un terzo: quello dell’osservatore esterno, del destinatario delle parole scritte, del lettore che di pari passo con l’eroe del romanzo compie anch’egli un viaggio, quello dentro se stesso. Ho sempre considerato la lettura una maestra di vita perché attraverso i libri s’impara a scoprire il mondo e anche un po’ se stessi: senza un libro appresso penso di non saper camminare! Leggere è vita, è amare, è stupirsi di se stessi e anche degli altri. È, come mi ricorda un piccolo poster incorniciato che ho di fronte mentre scrivo, un guardare oltre: “Chi legge…guarda lontano”, così sentenzia il motto del quadro. E mi vengono in mente i capolavori di quel genere artistico che ci lascia sempre in qualche modo perplessi e dubbiosi: siamo di fronte alla realtà o al sogno? È un trompe-l’oeil, un’immagine che salta fuori per rubarci l’anima e i desideri nascosti per poterli realizzare.


Una frase, su tutte, ha senza dubbio punzecchiato la mia attenzione ed è quella espressa a riguardo della lealtà nei confronti di se stessi: “L’impegno a non fuggire neppure davanti a se stessi. Né nell’immaginazione né nell’azione. L’essere pronti a rimanere fedeli a se stessi anche quando ci si detesta”. Poetava il mio amato Pessoa: “Penso che esprimere una cosa sia conservare la sua forza e privarla della sua terribilità”. Dunque, per restare fedeli a se stessi anche quando si ha l’impressione di scontrarsi con i propri principi, occorre svelare l’altro nostro volto che scompare dietro la patina di deferenza che si mostra fedele alle aspettative degli altri. In una delle tante annotazioni Prado elabora questo pensiero: “Succede anche agli altri di non riconoscersi nel proprio aspetto? Di avere l’impressione che la propria immagine riflessa sia semplicemente una quinta che deforma tutto in modo grossolano?”. E perdonatemi, miei due cari lettori, se ancora una volta vi strazio con la mia fisima pirandelliana. Ma non vi sovviene il superbo ‘Uno, nessuno e centomila’?: - …Mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. […] Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando” […] “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uomo lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no. -
Ho tentato così di recensire un libro, a parer mio un buon libro, che ha nel titolo il gusto del viaggio verso luoghi sconosciuti della terra e verso altrettanti luoghi che non si finisce mai di esplorare, come quelli della propria anima. Si può essere sicuramente migliori di ciò si appare. Basta scoprirlo e rivelarlo.


Treno di notte per Lisbona.
Di Pascal Mercier (pseudonimo di Peter Bieri, docente di filosofia della Freie Universität di Berlino). Perché uno pseudonimo? Perché nel suo ambiente non si può attribuire credibilità ad uno che decide di scrivere romanzi. E allora s’inventa, riconoscendosi, un altro se stesso. Tutto qua!

Dare buoni consigli significa mancare di rispetto alla facoltà
di sbagliare che Dio ha dato a tutti noi. E poi le azioni altrui
devono avere il vantaggio di non essere uguali alle nostre.
È comprensibile solo chiedere consigli agli altri:
affinché possiamo sapere, agendo in modo opposto, chi siamo
esattamente noi, assolutamente in disaccordo con l’Alterità.
(Livro do Desassossego)