Ho ancora pochi minuti a disposizione per dire la mia sulle ormai imminenti elezioni regionali siciliane. Come molti osservatori, anch’io credo che l’esito della consultazione avrà inevitabili ripercussioni sugli incertissimi equilibri politici nazionali. Se avessi diritto di voto, sceglierei senza esitazioni Rosario Crocetta. La sua esperienza amministrativa nel difficilissimo tessuto sociale di Gela, infestato dalla mafia, è stata tanto ardimentosa ed efficace, che può senza dubbio scusare una sua certa vocazione al narcisismo e all’autocompiacimento. Che sia sostenuto anche dall’UDC, a lungo il referente partitico di gruppi di potere impresentabili, non mi turba più di tanto: i sodali di Cuffaro e di Lombardo si annidano sotto le insegne di Musumeci e di Micciché. L’UDC cerca la catarsi attraverso l’espiazione. Trovo sconcertante, piuttosto, la vocazione suicida della sinistra radicale e del gruppo di Orlando. Sciocchi capricci, ripicche da tre soldi. Che senso ha ostentare una presunta verginità, per favorire il gioco delle destre? Se i siciliani premiassero Crocetta, che ha fatto della lotta alla mafia una ragione di vita, e che per giunta non dissimula la propria omosessualità in una terra ancora infervorata da oscuri pregiudizi, avrebbero compiuto davvero una rivoluzione culturale.
La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammetteGeorges Canguilhem
venerdì 26 ottobre 2012
sabato 20 ottobre 2012
La carriòla
“La nostra povera libertà si lega all’umile libertà
di una vergine che nel milleseicentoundici non ha
se non quella del proprio corpo integro e
non può capacitarsi in eterno di averla perduta.
Per tutta la vita essa si adoprò a sostituirla con un’altra,
più alta e più forte, ma il rimpianto di quell’unica restò:
mi pareva, con quei fogli scritti, d’averlo quietato”.
(Anna Banti - Artemisia)
Bevo con avidità ardente le parole di Anna mentre racconta, ormai in un tutt’uno con l’anima di Artemisia, il fuoco e la passione che sublimano e innalzano, confondendola come una divinità in terra, l’arte della pittrice nel momento in cui, sofisticata e maestosa, prende le sue armi e con la stessa crudeltà che si riflette negli occhi di Giuditta, dipinge il corpo dalla testa all’ingiù del generale supremo, Oloferne, immaginandolo Agostino Tassi, il traditore che ha rubato la sua libertà di donna deflorandola quando aveva quattordici anni.
Impugno una penna, un tratto, per onorare l’estro delle due supreme donne: l’impareggiabile bellezza dell’arte pittorica di Artemisia e l’inequivocabile abilità letteraria di Anna, riproducendo su un taccuino personale le frasi e i pensieri più reconditi di due anime intrecciate e complementari. Superba m’assale la vorticosa gioia che promana dalla mia eccelsa lettura. L’onore che diletta il mio spirito nel maneggiare quest’opera si mescola al sapore antico delle pagine ingiallite di un libro stampato l’anno precedente la mia nascita.
Mai, giuro, mai prima d’ora m’era accaduto di trasfondermi ed unirmi quasi anima e corpo alle lettere silenti impresse a stampa sulle pagine di un libro. E quando per via degli occhi stanchi e sprofondati nel rosso della luce opaca di un una misera lampadina, chiudo il mio buon compagno e vado a dormire, allora mi risveglio e m’accorgo di essere ritornata nella mia realtà feriale.
Un senso d’indulgenza diffusa, allegra come un volo, la faceva nel sonno, sorridere. Nel sonno il sorriso è quasi difficile come il pianto e bisogna liberarsene. «Ma io dipingo» scopre Artemisia, risvegliandosi: ed è salvata.
E poi, quando perduta nella tua storia senza tempo mi ritrovo a leggere questa fatua esclamazione esplosa all’alba in un risveglio di lagrime abbondanti, calde, covate nel sonno: Figlia mia, figlia mia che sei una donna e non capisci tua madre, ecco che ritrovo un’altra maestra, un’altra donna che se non fosse volata via in una primavera lontana avrebbe saputo ingioiellare con i suoi capaci versi il corpo possente di Artemisia: mia eterna, sublime signora Alda Merini. Chi altri avrebbe saputo confondersi con tale abilità nell’anima nerboruta della pittrice al pari della sua biografa? Sollevo il velo del tempo e dello spazio e sono colpita dalla luce abbacinante che promana dalle figure vostre di inveterate artiste sovrane.
Anna ritrae, attraverso le parole, il disagio e la tristezza di una donna sola ed inquieta. Magnifica rappresentazione di uno stato d’animo che non passa inosservato, che non può non attirare su di sé lo sguardo attento del lettore, in quanto anch’egli si riscopre, sfidando la sua meraviglia, nella turba di sensazioni che invadono clamorosamente l’altera, la superba, la passionale pittrice. Realtà e immaginazione si confondono fino a saltare fuori dalle pagine come un trompe-l’oil che sfida la capacità di discernimento dello spettatore. A questo punto non mi rimane che sublimare la mia verace scrittrice, ché mi offre così quasi inconsciamente, le indagini psicologiche di magnifica perfezione che solo l’immortale maestro russo può offrire ai suoi lettori più diligenti. E si leggerebbe d’un fiato questa storia, se non fosse per la smania di annotare tutto: parole, espressioni, frasi, sublimazioni d’artista e verecondia d’altri tempi.
Così si diviene complici della protagonista, si avverte l’amaro di una vita che si disperde anno dopo anno con vigore, regalando semmai quel poco di saggezza in più. Artemisia che apre a Napoli una scuola di pittura e accademia di disegno. Lei, una donna del diciassettesimo secolo. È forte Artemisia, dura come una roccia e debole anche, così spaurita quando apprende che il marito l’ha lasciata, sola con la sua arte e la sua ostinazione. …Mentre il dolore, questo terribile infante, si agitava nel suo seno succhiandole il sangue e mandandole in bocca l’amara saliva del pianto. Per allontanarsi da una vita che corre imbizzarrita e non soccombere al vorticare delle vicissitudini alle quali vuole proclamarsi estranea, la mia pittrice sceglie di imbarcarsi, allontanarsi per lasciar tutto alle spalle e dimostrare la virilità femminile che sempre l’ha contraddistinta. Qualcosa esiste a dimostrare che Artemisia ha vissuto, che una donna sa dipingere come un uomo, meglio, magari.
E così Artemisia parte. Parte per raggiungere suo padre, in Inghilterra. Eppure chiede in cuor suo che qualcuno la trattenga, che qualcuno le impedisca di mettere in esecuzione la sentenza d’esilio volontario. Chi può trattenerla? Il marito no, ché ormai, uomo cambiato dagli eventi, non s’accorge di non poter vivere senza la difficile compagna dalla matita veloce. Immagina allora, addirittura, un ammiratore remoto che arrivi in carrozza, che ne scenda e le dica: “No Signora, non dovete spatriarvi, son qua io per voi e guai a chi vi tormenta”. Artemisia si ritrova a fissare Porziella, sua figlia. Ecco chi è venuta a salutarla, ma non per scongiurarne la partenza e trattenerla con sé. Figlia ingrata e fredda, allevata in monastero per volere della madre e che non ha più nulla a che spartire con quei pezzenti di pittori che vuol proprio dimenticare. E Artemisia ne fissa a quel punto il profilo, il colore delle carni, lo sporgere dello zigomo che al suo somiglia, e il portamento delle spalle rotonde fuor della rigidezza del corpetto: un bel ritratto sul gusto fiammingo, non manca che la finestra aperta da cui si vede il mare. Ecco cosa significa andare in Inghilterra: guardare il viso di una figlia e vederlo come un oggetto distante, completamente staccato da sé, raggiungibile solo per effetto di memoria. E così nessuno la tratterrà. Avessi potuto trattenerti io… Eppure qualcuno l’ha fatto, t’ha ospitato nella sua quotidianità e t’ha offerto ristoro. T’ha dato ascolto, t’ha consentito lo sfogo e ha placato le tue attese. E a chi ti ha accolto, trecento anni di maggiore esperienza hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E colei che ha saputo ricordarti, perdendoti, ritrovandoti e proporti al lettore tanto ostinatamente e magnificandoti, merita anch’essa un premio, un’ approvazione che non s’è ancora dichiarata e tale sarebbe la nuova ristampa di un libro che non ha mai smesso di palpitare di vita negli ameni luoghi di una biblioteca lontana e solitaria. Ma esso sopravvive. Al tempo, allo spazio, all’incongruenza editoriale.
Sì, signori. Ella vive. Mentre coloro che dovrebbero offrirle un riconoscimento dovuto, s’adagiano candidi nei loro sarcofaghi, ricoperti solo dalla coltre della ricchezza e del potere. Inetti esperti e zotici conoscitori dell’arte letteraria, danno spesso alle stampe curiose opere di cattivo gusto perché non possono far altro che assecondare le proprie passioni subdole e senza spessore. Storica, senza alcun dubbio, è la conosciuta casa editrice M., ma anche stimata oltre il dovuto se mostra una così matura ottusità nell’individuare quelle opere che andrebbero sottoposte ad una dignitosa ristampa. Opere come Artemisia. Cecità che si sublima nell’incompetenza degli addetti ai lavori, una genia di parassiti amorfi che lievitano stando seduti nelle loro poltrone, dietro le scrivanie a far finta di saper discernere ciò che è arte letteraria pura, da quell’altra arte degli pseudo scrittori portati alla ribalta da chissà quale sinistro intento.
Scopritori di talenti letterari, riuscite a sentire il grido di una scrittrice che reclama il suo estro e il suo giusto rispetto? Rendetele giustizia e forse sarete graziati. Da chi? Dal pubblico di lettori, che non raramente mostra di essere un passo avanti a voi. Onorate il sacrosanto diritto che vantiamo di poter leggere i veri capolavori della letteratura italiana, e per una buona volta fatevi amministratori seri di un patrimonio inestimabile che pensate di saper curare. Cercate d’aver sempre presente il benessere del lettore, perché ci sono libri da cui non si può non trarre giovamento: la ristampa di ‘Artemisia’ è un dono che non si può negare a coloro che davvero non possono fare a meno di leggere.
E per finire, permettetemi di riportare le parole che Anna Banti rivolge al lettore prima di cominciare il suo concitato, appassionato dialogare con Artemisia:
“Un nuovo accostarsi e coincidere fra vita perenta e vita attuale; una nuova misura di connivenza storico-letteraria; il tentativo d’immettere nella palude bastarda dell’italiano letterario in corso, vecchie e potabilissime fonti dell’uso popolare nostrano: tali erano le ambizioni del racconto che, intitolato Artemisia, era alle ultime pagine nella primavera del 1944. In quell’estate, per eventi bellici che non hanno, purtroppo, nulla di eccezionale, il manoscritto veniva distrutto. A giustificare l’ostinazione accorata con cui la memoria non si stancò, negli anni successivi, di tener fede a un personaggio forse troppo diletto, queste nuove pagine dovrebbero, almeno, riuscire.
Ma perché, questa volta, l’impegno del narrare non sosteneva che la forma commemorativa del frammento, e il dettato si legava, d’istinto, a una commozione personale troppo imperiosa per essere obliterata – tradita - : credo che al lettore si debba qualche dato dei casi di Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi.
Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi. ”. A.B.
“…una donna che dipinge nel milleseicentoquaranta
è un atto di coraggio, vale per Annella e per altre cento
almeno, fino ad oggi. «Vale anche per te», conclude, al
lume di candela, nella stanza che la guerra ha reso fosca,
un suono brusco e secco. Un libro si è chiuso, di scatto”.
Anna Banti, Artemisia
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