La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



sabato 28 febbraio 2009

“Un altro infelice . . . ”



Sono reduce di una giornata molto impegnativa, consacrata alla coltivazione dei miei interessi e alla valorizzazione delle ricerche bibliografiche che conduco da ormai diversi mesi. Ho rivisto a distanza di diverse settimane volti ormai cari, che porterò sempre con me. Non dimentico mai un volto, qualunque esso sia; per non condannarlo all’indifferenza o all’oblio mi è sufficiente fissarlo per qualche minuto, dialogando. L’aula 10 di Villa Mirafiori alle 9.30 era ancora deserta, in stridente contrasto con i corridoi e le piazzole esterne animati dalle attese dei parenti dei nuovi dottori. Dopo pochi minuti accoglierà non più di una decina di appassionati culturi di filosofia, pronti a seguire dotte disquisizioni sulle declinazioni problematiche seguite dal pensiero di Leibniz. Due i relatori, studiosi importanti. Ho costruito la mia comprensione del leibnizianesimo, i miei castelli ermeneutici sul fondamento anche dei loro studi. Il moderatore del seminario si mostra talmente cortese da presentarmi ad entrambi i relatori. Il primo mi ignora beatamente. Il secondo si mostra, invece, più interessato alle mie ricerche, al soggiorno di studio in Sassonia, ai progetti aleatori che dovrebbero dare un senso ai prossimi mesi o anni. Interrompe la presentazione. Mi fissa. Gli sguardi si incrociano. Sorride. Ricambio. Dice: “Ecco, abbiamo un altro infelice”. Resto a guardarlo perplesso, del tutto incapace di formulare una replica sensata o ragionevole.
Sono molto stanco. Fra pochi minuti il mondo si annichilirà per me. Non ci saranno più il papa, Berlusconi, la mia gatta, i miei libri, i lampioni accesi, la foschia notturna. Fluttuerò intorno al tentativo ludico e vano, passatempo oscuro da notte di fine inverno, di dare un senso a quella frase, che ormai mi frulla in testa da stamattina. Non credo nelle profezie. Quindi potrei dormire tranquillo. Eppure, un sospetto mi lascia intendere che ci sia in quella frase un elemento atomico di verità difficile da confessarsi. Forse è preferibile dormire per poi risorgere.

mercoledì 25 febbraio 2009

CANZONE
di Allen Ginsberg




Il peso del mondo
è amore.
Sotto il fardello
della solitudine,
sotto il fardello
dell'insoddisfazione

il peso,
il peso che trasportiamo
è amore.

Chi può negarlo?
Nei sogni
sfiora
il corpo,
nel pensiero
costruisce
un miracolo,
nell'immaginazione
langue
finchè è diventato
umano -

si affaccia dal cuore
ardente di purezza -
perchè il fardello della vita
è amore,

ma trasportiamo il peso
stancamente,
e così dobbiamo riposare
fra le braccia dell'amore
finalmente,
dobbiamo riposare fra le braccia
dell'amore.

Non c'è riposo
senza amore,
non c'è sonno
senza sogni
d'amore -
pazzi o gelidi,
ossessionati da angeli
o da macchine,
il desiderio estremo
è amore
- ma non può essere amaro,
non può negare,
non può concedersi
se negato:

il peso è troppo greve

- deve dare
senza nulla riavere
come il pensiero
è dato
in solitudine
in tutta l'eccellenza
del suo eccesso.

I tiepidi corpi
brillano insieme
nel buio,
la mano si muove
verso il centro
della carne,
la pelle trema
di felicità
e l'anima viene
gioconda nell'occhio -

sì, sì,
è questo che
volevo,
ho sempre voluto,
ho sempre voluto,
ritornare
al corpo
in cui sono nato.


martedì 24 febbraio 2009

I s p i r a z i o n e
di Federica Passarelli

“Non so immaginare un artista senza ispirazione”. Mi sembrò stesse blaterando qualcosa di estremamente ovvio. “E’ chiaro che un artista deve essere rapito dall’ispirazione prima di creare alcunché”, risposi senza badare più di tanto al ragionamento che s’accingeva a propinarmi. “Certo, hai mai sentito parlare delle muse? Ogni artista ne ha una che fa al caso suo”, risposi ancora, quasi macchinalmente, alle sue affermazioni.
“Sì, ma cos’è una musa? Una giovane donna avvolta in un candido lenzuolo modello antica Roma, forse? No, no. Io credo ci sia qualcosa di più interessante nell’attimo creativo di un artista. Sì, qualcosa che…”, aveva ripreso a mormorare altre frasi senza conclusione.
“Si può sapere cosa diavolo vai farneticando, oggi?”, le urlai tentando di restare calma. Dovete sapere che periodicamente se ne viene fuori con strani argomenti e riflessioni senza tempo. Quel giorno, poi, mi sembrava particolarmente agitata. Chissà cos’altro le era venuto in mente!
“Ecco, ad esempio, prendiamo un musicista”, ricominciò senza dar tregua al mio mal di capo. “Beethoven è un buon esempio di musicista, no? Ecco, sappiamo che Beethoven negli ultimi anni della sua vita divenne sordo, però continuava a comporre musica. È questo forse merito soltanto dell’uomo?”. Oddio! pensavo, oggi è peggio del solito, pare impazzita.
“No! Se fosse solo merito dell’uomo allora l’ispirazione dove sarebbe andata a finire?”, continuò imperterrita nella sua arringa dinanzi ad un tribunale immaginario. Temevo che quello fosse solo il preludio di una sonata terribilmente lunga e articolata. Non mi sbagliavo! E va bene, pensai, sorbiamoci pure ‘sta sonata a Kreutzer, magari si calmerà e tornerà pacifica com’è solitamente quando non è turbata da questi attacchi di isteria ‘psico-filosofica’!
“Già, non può essere solo merito dell’uomo la creazione di un’opera d’arte. Voglio dire…e segui il mio ragionamento”, ed io invece stavo tentando di fare un giro col pensiero verso quel paio di scarpe che la mattina avevo visto in una vetrina di quel negozio…, “…segui il mio ragionamento, dunque, e dimmi se non ho ragione. Il fatto è che mi si fa sempre più chiara l’idea che la prova, come dire…probabile?, dell’esistenza di Dio la si ritrovi nell’artista”.
“Come dici?, perdonami, non ascoltavo. È che stamattina ho visto un paio…”, “no, non distrarti, ascoltami. Allora, dicevo. La prova dell’esistenza di Dio è nell’artista. Tu credi davvero che Beethoven abbia composto tutto da solo l’Inno alla gioia?”, era l’Inno alla gioia, non Kreutzer!, notai, “…alla gioia? Fu proprio lui a dire che la musica è la voce di Dio e colui che crea melodie non è altro che un mezzo di cui il Padre Eterno si serve per diffondere questa voce. Non è fantastico! Dio s’avvicina all’uomo mediante la partitura suggerendogli all’orecchio la comprensione d’un linguaggio che nella natura s’esprime assoluto. Attraverso l’arte l’uomo trova Dio in un cantuccio nascosto delle sue viscere! Il talento è l’espressione della divinità. Voglio dire, ammettiamo pure che l’uomo derivi esclusivamente dalla scimmia e si sia evoluto piano piano, che abbia fatto un percorso in salita migliorandosi continuamente - in virtù dell’evoluzione - sia esteticamente che mentalmente e che proprio grazie a queste migliorie abbia reso sicura la sua vita con la scienza, la tecnica, la medicina. Perché mai, dunque, avrebbe dovuto avvertire il desiderio di amare, di creare musica, di scrivere versi? L’uomo evoluto non avrebbe avuto bisogno di queste cose, gli sarebbe bastato d’aver inventato la ruota, il telescopio, la penicillina, i tribunali, l’arco a sesto acuto”, e con l’arco a sesto acuto completò la sua procella linguistica. Io continuavo ad ascoltare come un’ubriaca quell’incursione di parole e a momenti mi parve si fossero materializzate e volassero indisturbate tra le pareti della stanza. Ma devo dire che ne rimasi stupefatta! In fondo, pensai, non mi paiono pensieri degni d’un Aksèntij Ivànoviĉ Popriščìn!
“Cosa credi, che il Buonarroti abbia fatto tutto da se il Giudizio Universale? Nel senso, credi forse che quella profondità, quell’accuratezza nella scelta dei colori, quei corpi e quei volti dei dannati, siano esclusivamente opera delle mani d’un uomo? Ecco, con un’analisi spicciola da inesperti critici possiamo immaginare che inizialmente l’artista fosse mal disposto ad eseguire l’opera: un lavoro come tanti altri, probabilmente, un lavoro commissionato e che forse gli avrebbe anche rubato troppo, tanto tempo. Così, quasi costretto ad adempiere il suo dovere, Michelangelo diede sfogo ai suoi sentimenti. Ed ecco, meraviglia! Pian piano si va svelando quella luce dorata che gli si confondeva nel petto: come una crisalide che perde il suo vestito consunto per dar spazio alle ali, Michelangelo si spoglia della sua vecchia pelle di peccatore perché ormai quella luce dorata l’ha definitivamente redento. Quell’idea atea che in principio soffiava sull’opera va scomparendo: in punta di piedi affiora lo spirito di fede che inconsapevolmente aveva ispirato l’artista. E la nascita dell’uomo nuovo si pone parallelamente alla resurrezione del Cristo: l’alone di luce che circonda il Redentore evidenzia la scomparsa delle tenebre, l’abbandono della rabbia e del dolore; quel giallo così intenso, che si nasconde dietro la schiena possente del Risorto, rappresenta la gioia riscoperta”, concluse la sua analisi con un vigore e un’eccitazione tali che mi sembrava stesse per perdere i sensi. Ma riprese subito fiato e con un’espressione consueta a colui che ha appena fatto una nuova scoperta, esclamò: “L’artista possiede e custodisce nella sua anima una parte di cielo che il talento srotola sulla tela, sul pentagramma, sui fogli bianchi dell’esistenza”, e fu allora che mi ricordai di quei versi danteschi coi quali l’Alighieri definisce Dio come ‘l’Amor che move il sole e l’altre stelle…’, ma nel medesimo istante in cui la terzina mi faceva capolino dal cassetto dei ricordi, la finestra si spalancò di colpo, la memoria fu disarcionata dalle mie attenzioni e fui attirata a guardar fuori: i colori e i profumi della primavera invadevano tutta la pianura. La brezza che si sprigionava dagli alberi, il calore che si spandeva sui fiori all’orizzonte, il fragoroso pigolìo dei passerotti rannicchiati sui rami mi sussurravano all’orecchio quell’antica sinfonia e se ne approfittò colei che per l’intera mattinata m’aveva stordita con le sue teorie da filosofo mancato, colei che fino ad un attimo prima aveva declamato con ardore le sue rivelazioni, colei che gli uomini usano chiamare Coscienza, perché come un’eco si confuse nella vastità della mia anima: “…il sole e l’altre stelle…” e la natura mi parve che cantasse nel vento l’Inno alla gioia di Beethoven. Non Kreutzer, notai.

Credete che pensi a un dannato violino,
quando lo Spirito mi parla e scrivo ciò che mi detta?
(Ludwig Van Beethoven)

Non esiste nessun essere umano che non recepisca l’arte.
Ogni opera e ogni suo singolo mezzo provocano
in ogni uomo, senza eccezioni, una vibrazione,
che nel fondo è identica a quella dell’artista.

(Vasilij Kandiskij, Il suono giallo)

venerdì 20 febbraio 2009

La fabbrica della paura

Il potere politico si fonda sulla logica del consenso ostentato, anche nel caso in cui sia saldo, non vincolato all’esito delle lotterie elettorali. Un dittatore si preoccupa di risultare piacente, per rendersi più facilmente tollerabile. Il tempo poi, con le sue inclinazioni, fa la sua parte. La politica asservita al potere è autoreferenziale, ripone in se stessa il proprio fine, nel senso che è inclinata esclusivamente nella prospettiva della propria conservazione. Tutela di privilegi. Subordinazione della costruzione del bene pubblico al perseguimento dell’interesse privato o di clan. I sistemi democratici non sono affatto immuni da degenerazioni privatistiche che risultano essere consuete o, per lo meno, fisiologiche, nel contesto di meccanismi di potere contraddistinti da scale gerarchiche. Il limite essenziale della democrazia è riconducibile alla sua promiscuità con soluzioni anarchiche, implicata dal fatto che la democrazia sembra includere in sé, riponendoli sotto una bella veste, i moduli dei sistemi gestionali precedenti che non ha potuto non ereditare. Una sezione di un partito di periferia è gestita secondo direttrici gestionali feudali. Il clientelismo fonda la fortuna di tanti, a svantaggio dell’ordinaria amministrazione di città e province, di regioni ed imperi. E’ la versione elegante della corruzione sfacciata. Eppure, nonostante la valenza di tutte queste considerazioni, non possiamo non essere democratici. L’alternativa è la barbarie. La scelta è fra i limiti della democrazia e la barbarie. Tertium non datur.

Il potere politico deve conservarsi, sopravvivendo agli impeti rivoltosi, alla tentazione di non votare, di spalancare le porte della polis al disimpegno, alla resa civica, al qualunquismo ozioso. L’esigenza della sopravvivenza si afferma con particolare impeto in occasione delle recessioni economiche, delle crisi politiche, dei mutamenti sociali. La politica ha diversi mezzi per farsi riconoscere come strumento irrinunciabile per il perseguimento dell’utilità sociale. Alcuni sono nobilissimi. Basti fare riferimento alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui grandi temi di interesse sociale. Altri sono senz’altro meno nobili e più strumentali, ma fuor di dubbio fecondi per la loro funzionalità, garantita dal loro sfruttamento storico. Ci riferiamo all’abuso delle passioni tristi del cittadino, alla mercificazione politica delle sue paure notturne. La politica fonda se stessa così sul terrore psicologico. Il cittadino spaventato va a votare. Non si tira indietro. Sostiene con convinzione quelle forze politiche (essenzialmente populiste o xenofobe) che sembrerebbero tutelarlo di più in relazione alla garanzia della sicurezza sociale. Chi non ricorda i poster metropolitani che accartocciavano le nostre città nel corso dell’ultima campagna elettorale? Stiamo sviluppando considerazioni che spiegano in parte le fortune di Berlusconi e della Lega Nord in Italia, di Le Pen in Francia, di altri movimenti di ultradestra in tutta Europa. La fabbrica della paura è l’arsenale della politica volta alla tutela di interessi parziali. La paura feconda l’ignoranza e la schiavitù, ci rende talmente schiavi da lottare per la nostra schiavitù come se fosse la nostra salvezza. Come scrive Spinoza nelle prime pagine del Trattato teologico-politico: Se gli uomini potessero dirigere tutte le loro cose con sagge e certe decisioni, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché spesso si trovano in difficoltà tali che non sanno prendere alcuna decisione, e poiché di solito, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smodatamente, fluttuano miseramente fra la speranza e la paura, il loro animo è quanto mai incline a credere a qualsiasi cosa: quando è preso dal dubbio, esso è facilmente sospinto or qua or là, e tanto più quanto esita agitato dalla speranza e dalla paura, mentre nei momenti di fiducia è pieno di vanità e presunzione. Non è un caso il fatto che Spinoza fu vituperato, odiato, insultato per tutta la vita. Condusse un simulacro di vita. Solo con se stesso, fabbricatore di lenti. Pagò il carissimo prezzo della verità.

Gli ultimi mesi del governo di Romano Prodi furono caratterizzati da furenti polemiche. Le opposizioni accusavano a viva voce, sostenute dai media asserviti, la totale mancanza di sicurezza sociale. Stupri quotidiani, rumeni assatanati, assalti ai negozi, violenze nelle ville venete, catastrofi, cataclismi, orde barbariche, assassini notturni. Una persona spaventata è disposta a credere a tutto, anche alla falsificazione strumentale della realtà.

Ed oggi? Cosa è cambiato? Le cose vanno forse meglio? Niente affatto. Eppure una persona responsabile si guarda bene dall’accusare il governo di essere il responsabile dello stupro collettivo di Guidonia o di altri orrori. Questione di stile, forse.

Come rispondono gli operai della fabbrica della paura all’evidenza della continuità della delinquenza e della violenza, anche nella fase della loro reggenza? La risposta è scontata e fa riferimento alla radicalizzazione della paura, alla sua conversione in azione. Basti pensare alla follia delle ronde padane, alla vigilanza notturna dei quartieri. Sceriffi in casa propria, col Far West in giardino. Il cittadino viene precettato, indotto ad investire i suoi timori nel capitale della fabbrica delle paure. Le fobie di tanti edificano le ragioni del Reggente Forte, del premier dai pieni poteri.

In questa fase delicatissima di recessione economica, molte industrie medio-grandi sono a rischio di collasso. La fabbrica della paura gode, invece, di ottima salute. Sarà forse tardi quando si prenderà coscienza della velenosità delle sue emissioni. Ora sembra prematuro. La persecuzione del Rumeno come figura del Male va di moda, come il sostegno agli imprenditori del terrore sociale. La distruzione della fabbrica della paura sembra essere una condizione irrinunciabile per la pacificazione degli animi e la normalizzazione della vita sociale nazionale. Vedremo. Un passo importante è segnato dalla presa di coscienza del problema. II resto è noia metropolitana, nebbia di periferia, rabbia di frontiera.

martedì 17 febbraio 2009

Un libro dimenticato:
Le confessioni d’un Italiano
di Federica Passarelli

Leggere le confessioni di un ottuagenario, essere assorbiti dal suo stile elegante e sobrio nel narrare le vicende della sua esistenza, appassionarsi ai personaggi, alle storie e alle infinite capacità espressive e poetiche quali sereni come quei cieli d’autunno nei quali il sole abbellisce la natura senza scaldarla; insomma, abbracciare completamente i ricordi di gioventù sciorinati dalla penna gentile d’un vecchio e ricordarsi, mano a mano che si va avanti nella lettura, che in realtà l’io narrante altro non è che un giovane ventottenne dalla fantasia straordinaria. Bisognerebbe pure ricordare che questo giovane talento si pone di diritto tra i due più noti e applauditi romanzieri della nostra beneamata Letteratura Italiana, ossia Manzoni e Verga. Ma chi è dunque questa promessa della cultura letteraria, quest’ingegno del bello scrivere, quest’immagine scomposta che si delinea e si realizza attraverso le pagine di un libro dalla mole generosa? Si tratta, invero, anche d’un personaggio di una certa importanza storica, avendo partecipato attivamente al sogno patriottico dell’Unità d’Italia: Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!, scrive quasi urlandolo attraverso l’inchiostro stampato. Vediamo se citandovi nomi come ‘Quarto’, ‘Calatafimi’, ‘Mille’ vi tornano alla mente le gesta di quegli eroi colorati di rosso che hanno disegnato la forma della nostra penisola. Già, è proprio lui lo scrittore al quale viene affidata la viceintendenza generale della spedizione da… Garibaldi in persona! Ma adesso basta con i misteri: il romanziere che mi si è parato davanti affinché lo riconoscessi tra i mille volti della scrittura letteraria è il padovano Ippolito Nievo.

Ciò che colpisce subito di questo scrittore è, come ho detto all’inizio, la sua maestria nel raccontare vicende in realtà mai vissute – perché appartenenti ai ricordi di un ottuagenario – con una precisione disarmante che sorpassa ogni immaginazione. Dovete sapere, infatti, che Nievo muore all’età di trent’anni per il naufragio della nave che lo portava dalla Sicilia a Napoli. Mi piacerebbe darvene un esempio concreto di questo estro letterario e posso farlo soltanto attraverso la sua scrittura.

Io non sono né teologo né sapiente né filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che per quanto ignorante, può a buon dritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatré anni, figliuoli; posso dunque dire la mia. […] Molto vissi e soffersi; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e cascaggine umana, pur sollevano l’anima alla serenità della pace e della speranza quando tornano poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. […] Al limitare della tomba, già omai solo nel mondo, abbandonato così dagli amici che dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne, libero per l’età da quelle passioni che sovente pur troppo deviarono dal retto sentiero i miei giudizi, e dalle caduche lusinghe della mia non temeraria ambizione, un solo frutto raccolsi della mia vita, la pace dell’animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa io addito ai miei fratelli più giovani come il più invidiabile tesoro, e l’unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti. Un’altra asseveranza deggio io fare, alla quale la voce d’un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è, che la vita fu da me sperimentata un bene; ove l’umiltà ci consenta di considerare noi stessi come artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell’amico ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca omai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonchè essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell’essere. La pace di cui godo ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l’ardito navigatore trova un passaggio per l’oceano infinitamente calmo dell’eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà più differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad essi lega fidente le proprie colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i propri voti da compiere.

Un brivido corre dietro la schiena. Solo uno scrittore di alto livello potrebbe scrivere con questa qualità espressiva, con questa misura e con l’arte nel cuore. Solo una mente superiore potrebbe srotolare versi poetici quali La gioventù è il paradiso della vita; ed i vecchi amano l’allegria che è la gioventù eterna dell’anima. Ma questa è solo una delle tante creazioni musicali della penna padovana. Come non riferire, poi, quell’altro incanto dal sapore psicologico

Per me la memoria fu sempre un libro, e gli oggetti che la richiamano a certi tratti de’ suoi annali mi somigliano quei nastri che si mettono nel libro alle pagine più interessanti. Essi ti cascano sott’occhio di subito; e senza sfogliazzar le carte, per trovare quel punto del racconto o quella sentenza che ti ha meglio colpito, non hai che a fidarti di loro. Io mi portai sempre dietro per lunghissimi anni un museo di minutaglie, di capelli, di sassolini, di fiori secchi, di fronzoli, di anelli rotti, di pezzuoli di carta, di vasettini, e perfino d’abiti e di pezzuole da collo che corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi o dolorosi, ma per me sempre memorabili, della mia vita. Quel museo cresceva sempre, e lo conservava con tanta religione quanta ne dimostrerebbe un antiquario al suo medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll’anima mia, io non avrei che a far incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi, per tornarvi in mente tutta la storia della mia vita, a mo’ dei geroglifici egiziani.

Altro che il sapore della madeleine di Proust! Non è vero, infatti, che anche noi ci portiamo dietro pezzi della nostra esistenza, segnalibri della nostra memoria da andare a sfogliare quando abbiamo più bisogno di sentirci, di toccarci e di comprenderci? Dunque, in virtù di quanto sostiene Nievo, per non trovarsi impreparati dinanzi al varco della vita è bene conservare nella memoria non solo i momenti belli, ma anche quelli che non lo sono stati: occorre, cioè, conservare i sorrisi e le lagrime, le rose e le spine, perché solo così lo spirito s’adagerà rassegnato nel pensiero dell’ultima necessità. Ma tutta questa sapienza espressa da un lontano vegliardo quasi al limite della sua esistenza, proviene dal cuore di un formidabile ventottenne! Uno che seppe ricamare di Foscolo (proprio lui!) una sì intrepida descrizione!

Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliolo d’un chirurgo di cascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di Sant’Angelo, avea furoreggiato per sette sere filate. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. […] In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell’autor di Tieste. Allora meglio che un letterato egli era il più strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazione universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell’eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantoché avrebbe scritto a tu per tu una lettera di consiglio all’Imperator delle Russie e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de’ suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano così facilmente né all’apatia né alla morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta.

E che dire? A questo punto mi chiedo come mai uno scrittore di tale levatura sia così poco considerato tra i banchi di scuola.
Certo, lo so. Non voglio assolutamente declassare le virtù dello scrittore del ramo di Como, o non riconoscere il dovuto rispetto all’imponente espressione del verismo verghiano, ma signori! È forse opportuno lasciare nel cassetto un romanzo tanto completo come Le confessioni d’un Italiano? Questo libro possiede tutte le qualità, tutta la passione, tutto l’amore. Non c’è forse abbastanza spazio per contenere la grandezza di Ippolito Nievo? Il mio non è un monito, è piuttosto un invito. Un invito a riconoscere a questo brillante scrittore il posto che merita nella biblioteca della nostra Letteratura. Chi ama davvero le arti letterarie non può fare a meno di apprezzare il profumo talentuoso che promana dalla sua scrittura. Inoltre, lasciatemi aggiungere che se si considerasse con più attenzione anche il suo traboccante ardore per l’ideale della Patria! quali colori ne verrebbero fuori! Magari il trittico della bandiera potrebbe ritornare vivido almeno durante la lettura visto che oggi sempre di più tende a sbiadire senza possibilità alcuna di salvezza.
Ed ora vi lascio facendovi raccogliere gli ultimi pensieri celebri e oserei dire futuristici del mio amico Carlo Altoviti-Ippolito Nievo

Ed ora che avete stretto dimestichezza con me, o amici lettori, ora che avete ascoltato pazientemente le lunghe confessioni di Carlo Altoviti, vorrete voi darmi l’assoluzione? Spero di sì. Certo presi a scriverle con questa lusinga, e non vorrete negare qualche compassione ad un povero vecchio, poiché gli foste cortesi di sì lunga ed indulgente compagnia. Benedite, se non altro, al tempo nel quale ho vissuto. Voi vedeste come io trovai i vecchi ed i giovani nella mia puerizia, e come li lascio ora. E’ un mondo nuovo affatto , un rimescolio di sentimenti di affetti inusitati che si agita sotto la vernice uniforme della moderna società; ci pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia.

Non abbiate timore di attribuire al nostro connazionale l’importanza che merita. Perché se è vero che abbiamo avuto pochi grandi romanzieri, Ippolito Nievo non può non appartenere a tale limitato novero. Per amor di patria riconosciamo il merito ad uno che ha contraddistinto i caratteri salienti della nostra letteratura, così da renderla pari a quella greca e a quella russa che a parer mio occupano un posto d’onore sull’olimpo dell’arte letteraria.

sabato 14 febbraio 2009

Le ragioni del cuore: la scelta dell'amato



Nella sfera dell’amore, inteso come vincolo fra due persone, si compie il sacrificio di tutto il mondo, l’annichilimento dell’universo. L’individuo non è fatto della polvere della strada che percorre, dal momento che può essere inteso come un sistema innato di preferenze e rifiuti. L’individualità più intima non coincide con il temperamento sul quale si sedimenta il cumulo delle opinioni e delle esperienze. Il dispositivo della personalità è il cuore, macchina della scelta e del diniego, piano delle inclinazioni. L'individuo può essere compreso come un pianeta, una stella soltanto apparentemente errante, in realtà da sempre destinata a compiere un'orbita prestabilita mediante un moto gravitazionale che appare irregolare soltanto per effetto delle finzioni esistenziali. Io ho l’esigenza morale di conoscere il programma valoriale dell’altro per comprendere le sue parole e le sue azioni. Io devo conoscere il suo segreto inaccessibile, quel che è nascosto dalle simulazioni sincere dei modi di essere nella commedia delle buone intenzioni. Soltanto amando l’individuo svela in parte, senza esserne consapevole, la propria intimità più profonda. L’individuazione ha un fondo erotico: sono individuato anche dalla scelta della persona amata, che è tutt’altro che indifferente o priva di ragione. Come ha scritto José Ortega y Gasset, l’amore è un impeto che emerge da quanto di più sotterraneo esiste in noi, e affiorando dalla superficie visibile della vita trascina con sé come in un’alluvione alghe e conchiglie dell’abisso interiore. La scelta amorosa porta alla luce la soggettività subliminale. Contrariamente a quanto sosteneva Descartes, la razionalità e la libertà sono la pellicola esterna della coscienza, anche perché il fondo dell’individualità è umbratile. Le proporzioni rassicuranti del senso derivando da un fondo caotico. Le idee da cui la nostra ragione è formata ci giungono già pronte da un abisso oscuro, immenso situato sotto la nostra coscienza. Ugualmente, i desideri si presentano sul palcoscenico della nostra mente cosciente come attori che arrivano già vestiti recitando la propria parte fra misteriose, tenebrose quinte.


Una scelta non è mai indifferente. La selezione dell'oggetto dell'attrazione non può essere aleatoria e induce il soggetto a provare interesse, convertendo la passione con la quale subisce gli stimoli del mondo in azione. L’amante non resterebbe impassibile al cospetto di due amati interscambiabili: la scelta sarebbe inclinata dalle percezioni più arcane della soggettività. L’amore è dinamico, si alimenta sempre di nuove ragioni. La prensione dello sguardo dell’altro è il fondamento non solo di una condotta giusta, ma anche della percezione chiaroscura del mistero che è nel fondo di ognuno.


venerdì 13 febbraio 2009

Folle, folle, folle d'amore per te . . .
di Federica Passarelli

Chi non conosce Medea, la maga barbara e crudele, il personaggio probabilmente più noto, estremo e coinvolgente del teatro antico? Medea, la nipote di Circe, quell’altra maga che l’impavido Odisseo ha avuto modo di conoscere durante il suo viaggio di ritorno a casa. Medea, dalla lunga chioma dorata. Eh, sì! Perché di solito la si immagina come una donna dall’aria arcigna e dai capelli…neri! Chissà perché, poi? Forse perché di regola la bontà la si sposa sempre con i visetti ben fatti e incorniciati da un alone di luce che si riflette nel biondo dei capelli! Ciò forse in virtù di quell’antica regola di bellezza secondo la quale ciò che è buono fa rima con bello. Ma tant’è. Proseguiamo serenamente e soprattutto evitiamo di far aspettare ancora una signora, anche perché, essendo una maga, si potrebbe rischiare di diventare vittima di qualche suo curioso sortilegio (ammettiamo che voglia adoperare la formula magica che la zia scaraventò sui compagni di Ulisse! Eh, non sarebbe decoroso continuare a scrivere in quelle vesti!). Bene, dicevamo? Ah, sì. Medea e le arti magiche, Medea e la sua spietata crudeltà, Medea e…l’amore. Già, l’amore. Stiamo per essere travolti dall’ondata furiosa del 14 febbraio e dalle innumerevoli proposte commerciali che rendono un giorno qualunque l’espressione massima del consumismo più sconsiderato! E che, i fiori e i cioccolatini aspettano di essere regalati solo in un giorno preciso dell’anno? Naturalmente chi ama, ama sempre (sebbene questa sembri – e forse lo è! – una frase fatta e costruita a bella posta!). E per amore intendo l’amore nelle sue infinite sfaccettature: l’amore per gli animali, l’amore di un genitore, l’amore per i nonni, l’amore per la natura e via discorrendo. Ma mi domanderete, che c’entra in tutto questo la maga della Colchide? Vi rispondo subito. Perché contrariamente all’immagine crudele e assassina che viene fuori dalla tragedia di Euripide, Medea assume l’aspetto più romantico e spettacolare nelle pagine di un’opera epica intitolata Le Argonautiche, di tale Apollonio Rodio. Il caposcuola della poesia ellenistica traccia un profilo completamente affascinante della nostra cara maga: egli esplora gli infiniti labirinti del cuore umano fino a delineare con Medea, protagonista della più cupa storia d’amore mai raccontata, un personaggio grandioso e indimenticabile.
Ecco perché ho pensato di dedicare a lei questo giorno colorato di rosso. Ma rispolveriamo un po’ la storia, così, per evitare di blaterare inutilmente.
Queste precisazioni sono necessarie esclusivamente per agevolare la lettura, ed è chiaro che non si vuole menomamente dubitare della vostra buona memoria in proposito. Dunque…

Ricorderete benissimo Giasone. Bene, Giasone è l’eroe (oddio!, in fondo ‘‘eroe’’ è una parola grossa per questo personaggio che spesso nell’opera di Apollonio Rodio si mostra fragile e assolutamente privo di motivazione eroica!) che guida gli argonauti nella spedizione alla ricerca del vello d’oro nella regione chiamata Colchide. Eeta, re della Colchide e padre di Medea si rifiuterà di consegnare agli argonauti il vello d’oro, a meno che Giasone non riuscirà a superare delle prove.
Era e Atena (le dee che prendono a cuore l’impresa di Giasone) ritengono che solo l’astuzia e le arti magiche di Medea permetteranno agli argonauti di riportare in terra di Grecia il vello d’oro. Ma per questo è necessario che Medea s’innamori perdutamente di Giasone. E allora concertano di affidarsi a Venere affinché la dea dell’amore convinca suo figlio Eros a scagliare i suoi dardi infuocati verso il cuore della maga. E così…

Intanto giunse Eros per l’aria chiara, invisibile,
violento, come si scaglia sulle giovani vacche
l’assillo che i mandriani usano chiamare tafano.
Rapidamente nel vestibolo, accanto allo stipite,
tese il suo arco e prese una freccia intatta,
apportatrice di pene. Poi, senza farsi vedere,
varcò la soglia con passo veloce e ammiccando,
e facendosi piccolo scivolò ai piedi di Giasone;
adattò la cocca in mezzo alla corda, tese l’arco con ambo
[le braccia,
e scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le
[le prese l’anima.
Lui corse fuori, ridendo, dall’altissima sala,
ma la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla
come una fiamma; e lei sempre gettava il lampo degli
[occhi
in fronte al figlio di Esone, e il cuore, pur saggio,
le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava
[nient’altro
e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo.
Come una filatrice, che vive lavorando la lana,
getta fuscelli sopra il tizzone ardente, e nella notte
brilla la luce sotto il suo tetto - si è alzata prestissimo - :
la fiamma si leva immensa dal piccolo legno,
e riduce in cenere tutti i fuscelli; così a questo modo
il terribile Eros, insinuatosi dentro il cuore,
ardeva in segreto; e, smarrita la mente,
le morbide guance diventavano pallide e rosse”.

(Apollonio Rodio, ARGONAUTIKA - vv.275-298)



Ecco fatto! Il dio dell’amore ha eseguito alla perfezione il compito affidatogli dalla madre. Ma se credete che l’abbia fatto esclusivamente per vanagloria, vi sbagliate di grosso! Non è che il dio dell’amore si scomoda così per niente. Venere ha dovuto promettergli in dono il balocco stupendo di Zeus, quello che fece per lui la nutrice Adrastea nell’antro dell’Ida, quand’era ancora bambino, una palla veloce. Quanto sono umani questi dei! Vero è che, se da un lato si sottolinea il tratto più irrazionale e infantile di Eros, dall’altro la considerazione muta se si tiene conto che l’oggetto in questione – secondo una allegoria simbolica – rappresenti invece l’universo. Ah, ora si capisce il perché dei lamenti infantili del poppante dall’antico potere! Ma non perdiamoci dietro al volo acrobatico del dio greco. Ritorniamo alla maga, che è stata colpita dai dardi infuocati. Cosa le accade? Possiamo immaginarlo, ma affidiamoci ai versi di Apollonio Rodio:

Ma nel suo animo
si agitavano tutti gli impulsi d’amore:
davanti ai suoi occhi si formavano ancora le immagini
di ogni cosa: l’aspetto di Giasone e l’abito che indossava,
come parlava, e come sedeva, e come si mosse ad uscire,
e nel pensarvi le sembrò che simile a lui non ci fosse
nessun altro uomo; le tornavano sempre alle orecchie
la voce e le dolci parole che aveva sentite.
Tremava per lui, che non lo uccidessero i tori
o lo stesso Eeta; e già lo piangeva per morto
senz’altro: scorrevano per le sue guance le lacrime
di tenero affanno e di pietà profondissima.

(Apollonio Rodio, ARGONAUTIKA - vv.451-462)


Da questo momento la situazione volgerà a favore di Giasone perché con l’aiuto di Medea e delle sue arti magiche riuscirà a superare le prove imposte da Eeta e conquistare così il vello d’oro. Medea, invece, sarà costretta a duellare con la sua passione e con la sua coscienza. E a questo proposito lasciamoci guidare dalla penna dell’autore ed esaminiamo il primo dei tre monologhi che riflette compiutamente il quadro intimo e il pathos della maga:

Perché il dolore mi prende, infelice? Vada alla malora
costui che sta per morire, grande eroe o uomo
dappoco… Oh potesse sfuggire illeso alla morte!
Sì, questo possa avvenire, divina signora
Ecate, e ritorni salvo alla patria; ma se è il suo destino
perire sotto le fiere, prima almeno lo sappia,
che io non mi rallegro della sua sorte funesta.
[vv. 464 – 470]

La preghiera per cui Giasone possa sfuggire alla morte e possa ritornare illeso nella sua patria già rappresenta un primo abbozzo di decisione. Medea comincia a procedere verso la sua definitiva deliberazione sebbene ne conosca tutte le caratteristiche dell’illegalità: e certo, intervenire in favore di Giasone per la maga significa agire contro il proprio padre e tradirlo. Ma proseguiamo col secondo monologo:

Me infelice, quale terrore mi ha dato il sogno angoscioso!
Temo che da questo viaggio sorga un’enorme sciagura.
Palpita per lo straniero il mio cuore. Là, nella sua patria lontana,
sposi una donna greca: io devo darmi pensiero
della mia vita di vergine, della casa dei miei genitori.
Tuttavia voglio crearmi un cuore che sia pronto a tutto
E non restare più sola, ma tentare, se mai mia sorella
mi chieda aiuto in questo frangente, temendo per i suoi figli.
Sì, questo potrebbe spegnere dentro il mio cuore la pena.
[vv.636 – 644]

Anche nel secondo monologo è in corso un combattimento nella coscienza di Medea. Così, se nel primo monologo sembra che la decisione sia già stata presa, in quest’altro riappare il dubbio acuito dall’angoscia prodotta dal sogno. Addirittura Medea arriva a dichiarare che sarebbe meglio per Giasone ritornare nella sua patria lontana per sposare una donna greca! Ma in realtà il dardo continua a pungere nel petto della maga se ella ad un certo punto esclama: palpita per lo straniero il mio cuore. Tenta di aggrapparsi a qualsiasi argomento, imponendosi per esempio di non allontanare da se il pensiero dei suoi genitori o anche di intervenire qualora la sorella le chiedesse il suo aiuto.
Terzo monologo:

Me infelice, tra quali e quali sventure mi trovo!
Da ogni parte il mio cuore non ha che angoscia e impotenza.
Nessun rimedio alla pena, alla fiamma ferma che brucia.
Come vorrei che mi avessero uccisa le frecce veloci di Artemide,
prima che io lo vedessi, prima che la nave greca
portasse qui i figli di mia sorella Calcione:
un dio o un’Erinni li ha guidati di là per il mio dolore e il mio pianto.
Muoia, se il suo destino è di morire sul campo.
Ma io, come potrei preparare il rimedio,
nascondendolo ai miei genitori? E cosa dire?
Quale il pensiero, l’inganno che mi dia aiuto?
Posso vederlo, rivolgermi a lui solo, senza compagni?
Infelice! Anche quando sia morto non spero di avere
respiro dai mali: allora per me verrà la sventura,
quando avrà perso la vita. Alla malora
il pudore e la fama, e lui, salvo per mio volere,
se ne vada via illeso, dove il suo cuore desidera.
Ma io il giorno stesso, quando avrà compiuta la prova,
morrò appendendo il mio collo al soffitto,
o bevendo il veleno che distrugge la vita.
Eppure anche da morta, lo so, scaglieranno
contro di me le voci maligne; l’intera città
griderà la mia sorte; e le donne di Colchide mi porteranno
con spregio di bocca in bocca, l’una contro l’altra;
“colei che amò un uomo straniero, fino a morirne,
e disonorò la sua casa e i suoi genitori,
cedendo alla lussuria”. Quale non sarà la vergogna?
Quale la mia sventura! Meglio, meglio sarebbe
in questa notte stessa, in questa stanza, lasciare la vita
per un destino nascosto, fuggendo a tutti i rimproveri,
prima d’avere compiuto colpe innominabili
.
[vv. 771 – 801]

Se il messaggio dei primi due monologhi era: “tanto più grande è l’amore, quanto più è proibito”, questo terzo monologo vi intreccia il messaggio corrispondente: “tanto più è proibito l’amore quanto è più grande”. Ormai nemmeno l’onta, nemmeno il potere paterno potrà distogliere Medea dal suo proposito. E così Medea tradirà suo padre e per questo deciderà di abbandonare la terra di Colchide e seguire Giasone in Grecia. E su questo passaggio, gli studiosi pongono la seguente problematica: “La questione posta è se la fuga di Medea, questa grande scelta tra civiltà lontane e in qualche modo opposte, abbia come sua matrice la pulsione amorosa o il terrore del padre”. Io dico che ci sono entrambe: la pulsione amorosa e la paura dell’ira paterna. Consideriamo però anche la promessa di matrimonio che Medea aveva ottenuto da Giasone, qualora fosse riuscito a riconquistare il vello. Cosa non farebbe una donna pur di sposarsi! Passatemi il sarcasmo e lasciatemi dire che Medea resta senz’altro la figura più coinvolgente, affascinante e incompresa che la mitologia abbia mai avuto. Se non fosse così il genio di Pasolini non le avrebbe mai poetato intorno attraverso la cinematografia offrendole il volto e la personalità intensa di una certa Maria Callas dal profilo maledettamente greco!

giovedì 12 febbraio 2009

La bellezza estetica per il mondo

Si è scritto tanto sulle riviste scandalistiche e gossippare sulla Premiere dame. Talvolta qualcuno ha ironizzato sul suo talento di cantautrice. Qualche comico sopravvalutato ha enfatizzato la sua eleganza radical chic deformandola in snobismo altolocato. Chiacchiere vuote da vendere nelle edicole e da spendere nei caffè.
Ho prestato molta attenzione all'intervista che Carla ha concesso a Fabio Fazio, qualche settimana fa. L'ho osservata estasiato, folgorato dalla grazia che emanava nello studio, dalla padronanza di competenze ed argomenti. Adoro la sua schiettezza, soltanto in parte compressa dalle etichette cortigiane imposte dalla diplomazia politica. Apprezzo il suo spirito da piemontese laica e vagamente socialista. Del marito non intendo occuparmi.
Non si limita a sostenere apertamente delle ragioni, a convalidare le proprie opinioni argomentandole. Agisce anche. In queste ore si trova in Burkina Faso, impegnata sul campo per il proprio ruolo di ambasciatrice del Fondo mondiale per la lotta all'AIDS, la malaria e la tubercolosi.
Carla Bruni è un'icona della bellezza estetica. L'espressione "bellezza estetica" può apparire prima facie tautologica. Non è così. La bellezza estetica non coincide semplicemente con la perfezione stilistica di un corpo o con la proporzione armonica di un volto, con l'intensità chiaroscura di uno sguardo. E' la bellezza di un soggetto inteso come persona, non come corpo. E' la bellezza che permane, non consumandosi con il logorio dei tempi, non essendo effimera come la bellezza pornografica, fugace ed illusoria, propria di gusci decorativi e fragili, all'interno dei quali fluttua un verminaio di volgarità.
La bellezza estetica salverà il mondo, per citare Dostoevskij. Essendo animata da un fondamento etico, è bellezza per gli altri, bellezza per il mondo, bellezza utilitaria.

sabato 7 febbraio 2009

Taliban per le libertà

Sono incazzato nero. Lo dico senza mezzi termini. Non ne posso più. Sono sfiduciato ed indignato. E' attivo un processo vergognoso di falsificazione della realtà, per ragioni chiaramente strumentali. La violenza pretesca fa passare il signor Beppino Englaro, il protagonista di un calvario personale di diciassette anni, per un criminale. Suore invasate sostengono delle mere assurdità, esaltati rancorosi schiamazzano come galline affamate davanti alla clinica di Eluana, che dovrebbe essere cinta da un rispettoso e discreto silenzio. Il governo prende ordini dal Vaticano e innesca uno scontro istituzionale con il Presidente Napolitano, per ledere un principio irrinunciabile dello stato costituzionale di diritto: il rispetto di una decisione definitiva di un tribunale. Non ne posso più. Sono nauseato. Provo vergogna. L'orrore non ha mai fine.


giovedì 5 febbraio 2009

Sentinelle inquiete

Chiunque si ponga dinanzi all’esistenza con un’attitudine seria e se ne senta pienamente responsabile, sentirà una sorta di incertezza che lo spinge a rimanere all’erta. Il gesto che l’ordinanza romana prescriveva alla sentinella della legione era di tenere l’indice sopra le labbra per evitare la sonnolenza e mantenersi vigile. Un gesto significativo, che sembra imporre un maggior silenzio al silenzio notturno, per poter udire la segreta germinazione del futuro.

(José Ortega y Gasset)

La sentinella è inquieta per principio, come evidenzia anche il misterioso verso con cui Isaia (21, 11-12) fa riferimento ad una voce notturna che domanda: “sentinella, quanto resta della notte?”; la vedetta dell’ignoto risponde che la notte sta per terminare anche se l’alba non è ancora sorta ed invita a tornare, domandare, insistere. Credo che il passo di Isaia possa essere inteso come una proiezione metaforica di ciò che si dovrebbe fare oggi. Non dormire. Vegliare. Come dimostrano le notizie degli ultimi giorni, orde barbariche sono sempre potenzialmente galoppanti sulla linea dell'orizzonte. Vigilare. Ridestare le residuali difese immunitarie della cittadella della razionalità, assediata dall'esterno, in parte marcia all'interno. Domandare, innescare dubbi. Formare o stimolare la coscienza critica, scintilla dell'anima, nella notte che ancora non conosce le prime luci del mattino.

martedì 3 febbraio 2009

L’incontro di due maschere.
Pessoa e Pirandello
di Federica Passarelli

Cos’hanno in comune il poeta portoghese e lo scrittore siciliano? Entrambi hanno vissuto a cavallo tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Non siamo sicuri che siano stati lettori o ammiratori reciproci delle rispettive opere. Fatto sta che presentano nella loro ideologia diversi tratti somiglianti.

Il pensiero di Fernando Pessoa s’esprime tutto, o quasi, in una riflessione contenuta nelle pagine di un diario appartenuto a certo…Bernardo Soares. No. Non ho le idee confuse. Bernardo Soares è l’autore di un libro-diario intitolato “Il libro dell’inquietudine” in cui Pessoa elabora una indagine introspettiva sull’anima. Pessoa-Soares, Fernando-Bernardo: tracce riconducenti ad un’unica persona. Un’unica persona? Vedremo che in realtà le cose stanno diversamente! Leggere Pessoa è come guardare attraverso la lente di un caleidoscopio: ha personalità ricche di sfaccettature colorate e mobili! Ma procediamo per gradi. Si diceva di una riflessione contenuta nel diario di Soares. Si tratta di una riflessione importantissima perché agisce come una lente d’ingrandimento sull’anima del poeta e la definisce in tutta la sua genialità, ma per non perdersi ulteriormente nei meandri sconfinati delle metafore e delle similitudini, procedo col proporre tale riflessione:

Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi. (Il libro dell’inquietudine).

Signore e signori ecco a voi Sua Diversità l’Eteronimia! “letteralmente ‘altri nomi’, individui diversi, legati comunque in un identico stato di famiglia a un unico padre, dalla cui mente sono scaturiti. Gli eteronimi sono proiezioni dell’autore. Figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo, ossia il Pessoa anagrafico, il Pessoa-lui-stesso. Si tratta, dunque, di un fenomeno ben più complesso rispetto a quegli espedienti di comodo rappresentati da pseudonimi, apocrifi e altri travestimenti di firma utilizzati da artisti e uomini di pensiero per mimetizzarsi” (Marzio Breda). Scrivere è esattamente questo, per lui: creare creature creanti, creature di finzione che producono a loro volta finzione letteraria, scrive Antonio Tabucchi.

Vogliate perdonare l’incursione accademica sul significato di eteronimia. Non statevene col volto torvo e indispettito, s’è trattato solo di un chiarimento dovuto alla complessità del personaggio e non si voleva assolutamente dubitare del vostro grado di conoscenza in proposito. Ma andiamo avanti. Soares non è l’unico eteronimo nella poetica di Pessoa, anzi più precisamente stando a quanto sostiene lo stesso poeta di Lisbona, Soares è piuttosto un semi-eteronimo, “perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività”, dunque perché più di qualsiasi altro eteronimo è quello che maggiormente combacia con la figura di Pessoa scrittore. I tre eteronimi più noti sono: Alvaro de Campos, Ricardo Reis e Alberto Caeiro. Ognuno con una sua storia, con una sua vita, con un suo carattere. Spiega Pessoa: “Ho messo in Caeiro tutta la mia forza di personalizzazione drammatica, ho messo in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, ho messo in de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia vita”. Curiosamente Pessoa in portoghese significa ‘persona’, e ‘persona’ in latino indica la ‘maschera’ dell’attore, mentre la stessa parola in francese suona come ‘nessuno’. Il destino in un nome, si potrebbe dire.

“Con una tale mancanza di gente coesistibile come c’è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità se non inventare i suoi amici, o quanto meno i suoi compagni di spirito?” […] “L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante della spersonalizzazione e della simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente per me e per altri in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso”. (13 gennaio 1935)

Il libro dell’inquietudine non s’allontana di molto da un altro eventuale titolo che girovaga in linea d’aria: il libro della solitudine. Pessoa adora star solo perché odia inciampare tra le gente comune, non ama sporcarsi di banalità quotidiana.

Oggi, mentre percorrevo Rua Nova do Almada mi sono messo a osservare le spalle di un uomo che camminava davanti a me. Erano le spalle comuni di un uomo qualsiasi, la giacca di un vestito modesto addosso a un passante occasionale. Portava una vecchia borsa sotto il braccio sinistro e batteva per terra, accompagnandolo al suo passo, un ombrello chiuso che reggeva con la mano destra. All’improvviso ho provato per quell’uomo una sensazione simile alla tenerezza. Ho avuto per lui la tenerezza che si prova verso la comune banalità umana, verso il grigiore quotidiano del capofamiglia che si reca al lavoro, verso il suo focolare umile e allegro, verso i piaceri allegri e tristi di cui è fatta la sua vita senza scampo, verso l’innocenza di chi vive senza scervellarsi sulle cose, verso la naturalezza animalesca di quelle spalle vestite.

Eppure Pessoa-Soares è un impiegato di concetto, è obbligato a condividere il suo ufficio con altre persone insignificanti o superficiali.

Che piacere essere ampiamente soli! Poter parlare ad alta voce con noi stessi, passeggiare senza il fastidio di altri sguardi, reclinarsi sulla sedia in un fantasticheria indisturbata! […] I rumori sono estranei, come se appartenessero a un universo vicino ma indipendente. Finalmente siamo dei sovrani. […] Per un attimo noi siamo i pensionati dell’universo, ci adagiamo nella routine del vitalizio che ci è stato concesso, privi di necessità e preoccupazioni!.

Non gli resta che sognare. Soares-Pessoa però non dorme ma sdorme, per usare una sua parola. Soares osserva il mondo da una finestra e scopre se stesso. Così “negli occasionali e spassionati momenti in cui prendiamo coscienza di noi stessi in quanto individui che sono altri per gli altri, mi ha sempre preoccupato l’idea delle sembianze fisiche e anche spirituali che io offro a coloro che mi vedono e mi parlano quotidianamente od occasionalmente. Tutti siamo abituati a vedere noi stessi essenzialmente come delle realtà mentali, mentre vediamo gli altri come delle realtà fisiche. A causa dell’effetto che destiamo negli occhi degli altri abbiamo una vaga consapevolezza di noi stessi come entità fisica; […] Perciò mi perdo talvolta nella futile elucubrazione su che tipo di persona sarò per quelli che mi vedono, com’è la mia voce, che tipo di immagine lascio scritta nella memoria involontaria degli altri, in che modo i miei gesti, le mie parole, la mia vita apparente, si imprimono nella retina dell’interpretazione altrui. Non sono mai riuscito a vedermi dal di fuori. Non c’è specchio che ci rifletta in quanto fuori, poiché non c’è specchio che ci tiri fuori da noi stessi” (Il libro dell’inquietudine).

Ci siamo! Comincia ad emergere dall’immagine riflessa nello stagno quell’altra figura agrigentina che con la voce di Vitangelo Moscarda esclama: “…Mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. […] Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando” […] “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uomo lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no” (Uno, nessuno e centomila).





Pessoa-scrittore crea personaggi-persone perché non vuole ‘condividersi’ con la banalità degli altri e allora inventa compagni di vita e di viaggio che siano, come lui, estimatori d’arte e di letteratura, che guardino il mondo, come lui, da una finestra del quarto piano per avere ben netta la visuale delle strade e delle case sottostanti, nonché la linea dell’orizzonte e poterla scavalcare. Pirandello-filosofo evidenzia il contrasto tra forma e vita e tra personaggio e persona. L’uomo necessita di autoinganni: deve credere cioè che la vita abbia un senso e perciò organizza l’esistenza secondo convenzioni, riti, istituzioni che devono rafforzare in lui tale illusione. Gli autoinganni costituiscono la forma dell’esistenza che blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, la tendenza a vivere momento per momento al di fuori di ogni scopo ideale e di ogni legge civile: essa paralizza la vita. Il soggetto, costretto a vivere nella forma, non è più persona integra, ma si riduce ad una maschera (o ad un personaggio) che recita la parte che la società esige da lui (ecco la parte di impiegato, di marito, di padre, di figlio...) e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali. Il personaggio non è dunque coerente, solido e unitario perché non è più persona. Ha davanti a sé solo due strade: o sceglie l’incoscienza e l’ipocrisia e dunque l’adeguamento passivo alle forme oppure vive consapevolmente, amaramente e autoironicamente la scissione tra forma e vita. Nel primo caso è dunque solo una maschera, nel secondo è invece una maschera nuda consapevole degli autoinganni propri e altrui. Chi si guarda vivere, insomma, si pone fuori dall’esperienza vitale; condannato all’estraneità, guarda da fuori e compatisce non solo gli altri ma se stesso.

Capirmi dal di fuori è stata la mia disgrazia: la disgrazia della mia felicità. Mi sono visto come mi vedono gli altri e ho cominciato a disprezzarmi: non tanto perché riconoscessi in me dei motivi da farmi meritare disprezzo, ma perché da quel momento ho cominciato a vedermi come mi vedono gli altri e a sentire quel certo disprezzo che gli altri sentono per me. Ho sofferto l’umiliazione di conoscere me stesso. E siccome questo calvario è privo di nobiltà e di resurrezione qualche giorno dopo, non mi è restato che soffrirne l’infamia.

Quest’ultima citazione l’attribuireste senza dubbio a Pirandello, ne sono sicura, e non ve ne riconoscerei alcun torto. È un pensiero terribilmente pirandelliano, squisitamente rientrante nella filosofica indulgenza di Pirandello. E invece! Chi l’avrebbe mai detto che appartiene alla penna del poeta portoghese!

Eccoli, dunque: immersi entrambi nella ricerca di se stessi e nel ritrovamento dell’altro ‘io’. Eccoli, poeta e scrittore seduti a chiacchierare sulla panchina della vita!, li osservo stando al davanzale della mia finestra. Non posso sbagliarmi: Pessoa si raddrizza il papillon nero mentre Pirandello tamburella sul ginocchio il suo cappello dalle larghe falde di vecchio intellettuale d’altri tempi. Tutto questo delirio della mia penna scalza ha un senso. È il senso della gratitudine che ho tentato d’esprimere come meglio ho potuto verso due giganti della letteratura e della poesia. Ho per entrambi un maëlstrom vertiginoso di emozioni letterarie! E se l’articolo avrà come merito quello di esortarvi a viaggiare tra le pagine di questi uomini geniali, allora avrò realizzato una rivoluzione! E con le parole di Fernando Pessoa ripongo alfine la mia penna tra i personaggi e le maschere di lontane fantasie: “Se ciò che lascerò scritto nel libro dei viandanti, ammesso che qualcuno un giorno lo legga, potrà intrattenere questo qualcuno nella traversata, sarà bene. Se nessuno lo leggerà, se nessuno si intratterrà, sarà bene lo stesso”.