La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



venerdì 13 febbraio 2009

Folle, folle, folle d'amore per te . . .
di Federica Passarelli

Chi non conosce Medea, la maga barbara e crudele, il personaggio probabilmente più noto, estremo e coinvolgente del teatro antico? Medea, la nipote di Circe, quell’altra maga che l’impavido Odisseo ha avuto modo di conoscere durante il suo viaggio di ritorno a casa. Medea, dalla lunga chioma dorata. Eh, sì! Perché di solito la si immagina come una donna dall’aria arcigna e dai capelli…neri! Chissà perché, poi? Forse perché di regola la bontà la si sposa sempre con i visetti ben fatti e incorniciati da un alone di luce che si riflette nel biondo dei capelli! Ciò forse in virtù di quell’antica regola di bellezza secondo la quale ciò che è buono fa rima con bello. Ma tant’è. Proseguiamo serenamente e soprattutto evitiamo di far aspettare ancora una signora, anche perché, essendo una maga, si potrebbe rischiare di diventare vittima di qualche suo curioso sortilegio (ammettiamo che voglia adoperare la formula magica che la zia scaraventò sui compagni di Ulisse! Eh, non sarebbe decoroso continuare a scrivere in quelle vesti!). Bene, dicevamo? Ah, sì. Medea e le arti magiche, Medea e la sua spietata crudeltà, Medea e…l’amore. Già, l’amore. Stiamo per essere travolti dall’ondata furiosa del 14 febbraio e dalle innumerevoli proposte commerciali che rendono un giorno qualunque l’espressione massima del consumismo più sconsiderato! E che, i fiori e i cioccolatini aspettano di essere regalati solo in un giorno preciso dell’anno? Naturalmente chi ama, ama sempre (sebbene questa sembri – e forse lo è! – una frase fatta e costruita a bella posta!). E per amore intendo l’amore nelle sue infinite sfaccettature: l’amore per gli animali, l’amore di un genitore, l’amore per i nonni, l’amore per la natura e via discorrendo. Ma mi domanderete, che c’entra in tutto questo la maga della Colchide? Vi rispondo subito. Perché contrariamente all’immagine crudele e assassina che viene fuori dalla tragedia di Euripide, Medea assume l’aspetto più romantico e spettacolare nelle pagine di un’opera epica intitolata Le Argonautiche, di tale Apollonio Rodio. Il caposcuola della poesia ellenistica traccia un profilo completamente affascinante della nostra cara maga: egli esplora gli infiniti labirinti del cuore umano fino a delineare con Medea, protagonista della più cupa storia d’amore mai raccontata, un personaggio grandioso e indimenticabile.
Ecco perché ho pensato di dedicare a lei questo giorno colorato di rosso. Ma rispolveriamo un po’ la storia, così, per evitare di blaterare inutilmente.
Queste precisazioni sono necessarie esclusivamente per agevolare la lettura, ed è chiaro che non si vuole menomamente dubitare della vostra buona memoria in proposito. Dunque…

Ricorderete benissimo Giasone. Bene, Giasone è l’eroe (oddio!, in fondo ‘‘eroe’’ è una parola grossa per questo personaggio che spesso nell’opera di Apollonio Rodio si mostra fragile e assolutamente privo di motivazione eroica!) che guida gli argonauti nella spedizione alla ricerca del vello d’oro nella regione chiamata Colchide. Eeta, re della Colchide e padre di Medea si rifiuterà di consegnare agli argonauti il vello d’oro, a meno che Giasone non riuscirà a superare delle prove.
Era e Atena (le dee che prendono a cuore l’impresa di Giasone) ritengono che solo l’astuzia e le arti magiche di Medea permetteranno agli argonauti di riportare in terra di Grecia il vello d’oro. Ma per questo è necessario che Medea s’innamori perdutamente di Giasone. E allora concertano di affidarsi a Venere affinché la dea dell’amore convinca suo figlio Eros a scagliare i suoi dardi infuocati verso il cuore della maga. E così…

Intanto giunse Eros per l’aria chiara, invisibile,
violento, come si scaglia sulle giovani vacche
l’assillo che i mandriani usano chiamare tafano.
Rapidamente nel vestibolo, accanto allo stipite,
tese il suo arco e prese una freccia intatta,
apportatrice di pene. Poi, senza farsi vedere,
varcò la soglia con passo veloce e ammiccando,
e facendosi piccolo scivolò ai piedi di Giasone;
adattò la cocca in mezzo alla corda, tese l’arco con ambo
[le braccia,
e scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le
[le prese l’anima.
Lui corse fuori, ridendo, dall’altissima sala,
ma la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla
come una fiamma; e lei sempre gettava il lampo degli
[occhi
in fronte al figlio di Esone, e il cuore, pur saggio,
le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava
[nient’altro
e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo.
Come una filatrice, che vive lavorando la lana,
getta fuscelli sopra il tizzone ardente, e nella notte
brilla la luce sotto il suo tetto - si è alzata prestissimo - :
la fiamma si leva immensa dal piccolo legno,
e riduce in cenere tutti i fuscelli; così a questo modo
il terribile Eros, insinuatosi dentro il cuore,
ardeva in segreto; e, smarrita la mente,
le morbide guance diventavano pallide e rosse”.

(Apollonio Rodio, ARGONAUTIKA - vv.275-298)



Ecco fatto! Il dio dell’amore ha eseguito alla perfezione il compito affidatogli dalla madre. Ma se credete che l’abbia fatto esclusivamente per vanagloria, vi sbagliate di grosso! Non è che il dio dell’amore si scomoda così per niente. Venere ha dovuto promettergli in dono il balocco stupendo di Zeus, quello che fece per lui la nutrice Adrastea nell’antro dell’Ida, quand’era ancora bambino, una palla veloce. Quanto sono umani questi dei! Vero è che, se da un lato si sottolinea il tratto più irrazionale e infantile di Eros, dall’altro la considerazione muta se si tiene conto che l’oggetto in questione – secondo una allegoria simbolica – rappresenti invece l’universo. Ah, ora si capisce il perché dei lamenti infantili del poppante dall’antico potere! Ma non perdiamoci dietro al volo acrobatico del dio greco. Ritorniamo alla maga, che è stata colpita dai dardi infuocati. Cosa le accade? Possiamo immaginarlo, ma affidiamoci ai versi di Apollonio Rodio:

Ma nel suo animo
si agitavano tutti gli impulsi d’amore:
davanti ai suoi occhi si formavano ancora le immagini
di ogni cosa: l’aspetto di Giasone e l’abito che indossava,
come parlava, e come sedeva, e come si mosse ad uscire,
e nel pensarvi le sembrò che simile a lui non ci fosse
nessun altro uomo; le tornavano sempre alle orecchie
la voce e le dolci parole che aveva sentite.
Tremava per lui, che non lo uccidessero i tori
o lo stesso Eeta; e già lo piangeva per morto
senz’altro: scorrevano per le sue guance le lacrime
di tenero affanno e di pietà profondissima.

(Apollonio Rodio, ARGONAUTIKA - vv.451-462)


Da questo momento la situazione volgerà a favore di Giasone perché con l’aiuto di Medea e delle sue arti magiche riuscirà a superare le prove imposte da Eeta e conquistare così il vello d’oro. Medea, invece, sarà costretta a duellare con la sua passione e con la sua coscienza. E a questo proposito lasciamoci guidare dalla penna dell’autore ed esaminiamo il primo dei tre monologhi che riflette compiutamente il quadro intimo e il pathos della maga:

Perché il dolore mi prende, infelice? Vada alla malora
costui che sta per morire, grande eroe o uomo
dappoco… Oh potesse sfuggire illeso alla morte!
Sì, questo possa avvenire, divina signora
Ecate, e ritorni salvo alla patria; ma se è il suo destino
perire sotto le fiere, prima almeno lo sappia,
che io non mi rallegro della sua sorte funesta.
[vv. 464 – 470]

La preghiera per cui Giasone possa sfuggire alla morte e possa ritornare illeso nella sua patria già rappresenta un primo abbozzo di decisione. Medea comincia a procedere verso la sua definitiva deliberazione sebbene ne conosca tutte le caratteristiche dell’illegalità: e certo, intervenire in favore di Giasone per la maga significa agire contro il proprio padre e tradirlo. Ma proseguiamo col secondo monologo:

Me infelice, quale terrore mi ha dato il sogno angoscioso!
Temo che da questo viaggio sorga un’enorme sciagura.
Palpita per lo straniero il mio cuore. Là, nella sua patria lontana,
sposi una donna greca: io devo darmi pensiero
della mia vita di vergine, della casa dei miei genitori.
Tuttavia voglio crearmi un cuore che sia pronto a tutto
E non restare più sola, ma tentare, se mai mia sorella
mi chieda aiuto in questo frangente, temendo per i suoi figli.
Sì, questo potrebbe spegnere dentro il mio cuore la pena.
[vv.636 – 644]

Anche nel secondo monologo è in corso un combattimento nella coscienza di Medea. Così, se nel primo monologo sembra che la decisione sia già stata presa, in quest’altro riappare il dubbio acuito dall’angoscia prodotta dal sogno. Addirittura Medea arriva a dichiarare che sarebbe meglio per Giasone ritornare nella sua patria lontana per sposare una donna greca! Ma in realtà il dardo continua a pungere nel petto della maga se ella ad un certo punto esclama: palpita per lo straniero il mio cuore. Tenta di aggrapparsi a qualsiasi argomento, imponendosi per esempio di non allontanare da se il pensiero dei suoi genitori o anche di intervenire qualora la sorella le chiedesse il suo aiuto.
Terzo monologo:

Me infelice, tra quali e quali sventure mi trovo!
Da ogni parte il mio cuore non ha che angoscia e impotenza.
Nessun rimedio alla pena, alla fiamma ferma che brucia.
Come vorrei che mi avessero uccisa le frecce veloci di Artemide,
prima che io lo vedessi, prima che la nave greca
portasse qui i figli di mia sorella Calcione:
un dio o un’Erinni li ha guidati di là per il mio dolore e il mio pianto.
Muoia, se il suo destino è di morire sul campo.
Ma io, come potrei preparare il rimedio,
nascondendolo ai miei genitori? E cosa dire?
Quale il pensiero, l’inganno che mi dia aiuto?
Posso vederlo, rivolgermi a lui solo, senza compagni?
Infelice! Anche quando sia morto non spero di avere
respiro dai mali: allora per me verrà la sventura,
quando avrà perso la vita. Alla malora
il pudore e la fama, e lui, salvo per mio volere,
se ne vada via illeso, dove il suo cuore desidera.
Ma io il giorno stesso, quando avrà compiuta la prova,
morrò appendendo il mio collo al soffitto,
o bevendo il veleno che distrugge la vita.
Eppure anche da morta, lo so, scaglieranno
contro di me le voci maligne; l’intera città
griderà la mia sorte; e le donne di Colchide mi porteranno
con spregio di bocca in bocca, l’una contro l’altra;
“colei che amò un uomo straniero, fino a morirne,
e disonorò la sua casa e i suoi genitori,
cedendo alla lussuria”. Quale non sarà la vergogna?
Quale la mia sventura! Meglio, meglio sarebbe
in questa notte stessa, in questa stanza, lasciare la vita
per un destino nascosto, fuggendo a tutti i rimproveri,
prima d’avere compiuto colpe innominabili
.
[vv. 771 – 801]

Se il messaggio dei primi due monologhi era: “tanto più grande è l’amore, quanto più è proibito”, questo terzo monologo vi intreccia il messaggio corrispondente: “tanto più è proibito l’amore quanto è più grande”. Ormai nemmeno l’onta, nemmeno il potere paterno potrà distogliere Medea dal suo proposito. E così Medea tradirà suo padre e per questo deciderà di abbandonare la terra di Colchide e seguire Giasone in Grecia. E su questo passaggio, gli studiosi pongono la seguente problematica: “La questione posta è se la fuga di Medea, questa grande scelta tra civiltà lontane e in qualche modo opposte, abbia come sua matrice la pulsione amorosa o il terrore del padre”. Io dico che ci sono entrambe: la pulsione amorosa e la paura dell’ira paterna. Consideriamo però anche la promessa di matrimonio che Medea aveva ottenuto da Giasone, qualora fosse riuscito a riconquistare il vello. Cosa non farebbe una donna pur di sposarsi! Passatemi il sarcasmo e lasciatemi dire che Medea resta senz’altro la figura più coinvolgente, affascinante e incompresa che la mitologia abbia mai avuto. Se non fosse così il genio di Pasolini non le avrebbe mai poetato intorno attraverso la cinematografia offrendole il volto e la personalità intensa di una certa Maria Callas dal profilo maledettamente greco!

2 commenti:

  1. Ti faccio i miei sinceri complimenti per la stupenda riflessione che hai formulato. Mi fa sognare e mi rende immune rispetto alle spuculazioni sull'amore romantico e melodico (Moccia docet), amore che è in realtà eccesso innaturale di dolcezza che provoca nausea. L'amore autentico è folle, anarchico, senza regole. L'amore è puro quando non è ricambiato, scriveva Fénelon nel'600. E' l'amore disinteressato, l'amore per amore. Medea è un personaggio straordinariamente inquietante ed attuale. E' un simbolo universale e metastorico. E' la sintesi letteraria delle potenzialità funeste ed autenticamente libertarie del sentimento che ci rende (probabilmente) unici nell'esistente. Ognuno di noi è, così, senza esserne cosciente, un pò Medea. La quiete regge finchè (per un motivo quale un tradimento o la negazione del rispetto) non ne prendiamo coscienza... Grazie ancora

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  2. "Buono=bello"...questo scontato binomio, parte di quel simbolismo collettivo dal significato ancestrale, mi ha sempre affascinata...io direi piuttosto: "bello=armonico" pur nella coscienza che "bello", per me, è come "gusto": non esiste. Oltre queste discutibilissime mie considerazioni, adoro il testo che ho appena letto. E' scorrevole, piacevole, accattivante. "A pure like it!", direbbero in Scozia. Complimenti, Angela

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