La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



venerdì 29 gennaio 2010

La carriòla

Risposta...

L’ispirazione chiede di essere condotta per mano dai versi semplici e ingegnosamente puri di un poeta che celebra il canto primordiale della natura detonante nel corpo elettrico dell’essere umano. Un canto di salvezza, di speranza. Che osa rispondere garbatamente alle piccole ipocrisie quotidiane, ai fantasmi dell’umanità che vagano inermi tra i campi immobili di quello che io definisco il ‘medioevo cerebrale’. Parole colme di poteri inebrianti che coprono il vuoto silente di culture a volte incolte e fradice di miserie inanellate ai piedi di un destino senza nome.
Consueto s’elabora il pensiero attorno ad un concetto meschino e senza futuro che propone la sua rima baciata con la paura che s’esprime nel precario.
Oggi, come il caro poeta cileno amava scrivere nelle sue strofe, questa volta lasciate che sia feliceOggi lasciate che sia felice… (P. Neruda, Ode al giorno felice).
La fecondità del canto vitale cerca il suo rifugio tra le note impregnate d’eterno, d’infinito. Lasciate che trovi una risposta anch’io alle insicurezze dell’esistenza, alle follie che si mischiano ai complessi dilemmi economici odierni, alle violenze che tamburellano sullo schermo inerte che ci fa compagnia durante le nostre cene o ancora alla pochezza di sentimenti che circonda le città sempre più imbrattate dalla sordida idea dell’involuzione sociale.
Lasciate che scorrano le furberie del planetario politichese, o dell’insulso stratagemma elaborato per ribaltare il piatto della stadèra divenuta, ormai, oggetto ornamentale tra le mani callose di un fruttarolo.
Oggi lasciate che cada l’inquietudine barocca di un pensiero annidato sui tetti infreddoliti di una fabbrica sicula che si scontra con le illogicità del sistema fiatiano. Lavoratori, operai, giovani studenti perduti nel labirinto infelice del presente, bramoso di rinverdire un futuro dal profilo ancora poco illuminato e illuminante, credete, non posso far finta di un udire, non posso non osservare il quadro decadente che si staglia sul muro dell’indifferenza politico-industriale. E quando si delinea l’idea buffa di carpire alle pensioni una paghetta per i propri figli disoccupati…come articolare l’espressione consona a questa celia senza pudore? Di quali pensioni si tratta, di quelle dei lavoratori licenziati o delle pensioni dei pochi ricchi accomodati sulle panche dei palazzotti romani?
Ma oggi lasciate che si sciolgano versi di speranza. Lasciate che un vecchio poeta americano ci dedichi la sua vena di luce riflessa tra le pagine di un libro. Lasciate dunque che ci declami:

Ahimè! Ah vita! di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei di senza fede, di città piene di
sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero, (perché chi più
sciocco di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato
in tanti nodi,
la domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre -
Che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?

Risposta
Che tu sei qui - che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi
con un tuo verso.

(W. Whitman, 'Ahimè! Ah vita!' poesia tratta da Foglie d’erba)

giovedì 28 gennaio 2010

Addio Salinger
maestro di adolescenze ribelli

J.D. Salinger è morto. Il padre del giovane Holden si è spento a 91 anni nella sua casa nel New Hampshire. La notizia è stata diffusa dal figlio. Nato a New York il primo gennaio del 1919, Jerome David Salinger viveva isolato da decenni nella cittadina di Cornish. La sua fama si deve a Il giovane Holden (il cui titolo originale era l'intraducibile Catcher in the Rye), pubblicato nel 1951, opera maledetta consumata da generazioni di adolescenti liberi. Le tematiche principali dell'opera di Salinger sono l'esistenza grigia ed on the road di giovani disadattati e il disgusto per le convenzioni e l'ipocrisia borghesi. Dal 1953 si era spostato da New York al New Hampshire e aveva ridotto progressivamente i contatti umani fino a vivere praticamente da recluso. Negli ultimi cinquant'anni ha rilasciato pochissime interviste. Non ha mai effettuato apparizioni pubbliche, nè pubblicato nuovi lavori dal 1965, anno in cui apparve sul «New Yorker» un racconto. Non si sa se abbia continuato a scrivere e una diceria fa riferimento ad un baule di manoscritti inediti la cui pubblicazione Salinger avrebbe vincolato a dopo la sua morte.

mercoledì 27 gennaio 2010


Orme della memoria

Un sole stanco e placido albeggia
sulla cornice di ferro di un campo remoto e solitario,
mentre il vento sussurra melodie nuove tra i resti
di un’architettura feroce e silenziosa.
Come mistica vigna
solcata dalle tracce di vite perdute nell’inganno della storia,
vi si ode, mischiato al silenzio di terre lontane,
il rumore cadenzato di suole chiodate
che raminghe e affannate saltano dai treni gremiti di folla.
E quelle scarpe logore e scucite affratellate a mille altre ancora,
disegnano le orme di un vecchio ieri non dimenticato.
Un fiore trova spazio adesso tra le pietre della Shoah:
il fiore della memoria che mai sarà calpestato.

martedì 26 gennaio 2010

Caldi ha gli abbracci



Vergini le colline,

celano il sorriso che ha ombre

e trasparenze del bosco d’autunno.


Piena di vita,

nascondi la pelle del firmamento

nel prato di felce,

come lepre nella tana, anonima

come polvere spaziale.


Eppure, ha odore di fragole

ogni pendenza ed ogni tornante,

di more san le chiome

e d’aurora i rami.


Potrei fermarmi, riposare

nel caldo abbraccio,

sdraiarmi su quel ramo piegato,

aspettare come l’ape aspetta.


Trovare la pace infine,

quella del ruscello nel mare,

quella del fiore nel sole,

silvano adepto della primavera

che in viso porti.

Son due notti che non chiudo occhio per via di un molare perforato da una carie piuttosto profonda. Stamane mi sono deciso ad affrontare di petto il problema e così ho chiamato il mio dentista di fiducia, col quale ho un rapporto di complicità informale. Con un intervento d'urgenza, senza appuntamento, ha anestetizzato, scavato, devitalizzato ed otturato la fonte oscura della sofferenza corporea degli ultimi giorni. Non potendo parlare né mangiare, scrivo.

Domenica sera c'era un freddo cane. Si respirava ghiaccio per le vie desolanti della città. Non avevo intenzione di vedere, come tanti, il derby di Milano, magari per offrire un omaggio insperato alle mie antiche simpatie interiste. Vado con quattro gatti al cinema a vedere l'ultimo film di Paolo Virzì, un regista che stimo tanto. Ricordo con simpatia alcuni suoi film che mi appassionarono lasciandomi una sensazione di soddisfazione: Ovosodo (1997), visione adolescenziale, Caterina va in città (2003), disillusione universitaria, N (Io e Napoleone) (2006), passatempo d'una infinita notte d'estate e Tutta la vita davanti (2008), visione tragica delle insidie dei nostri giorni.

Non avevo visto altri film di Virzì prima di domenica sera. La sala della proiezione era piuttosto deserta: in tutto eravamo in otto, infreddoliti e curiosi. Avevo letto sui quotidiani che si tratta di una pellicola capace di maneggiare le corde dei sentimenti senza sentimentalismi. Concordo perfettamente. In più il film è un omaggio a Livorno, alla sua storia dal 1971 ad oggi. Le città - siano esse stupende o squallide - possono salvare o uccidere. Possono dilatare il cupo grigiore dell'anima o elevare lo sguardo sulla capacità di tornare a vivere. Livorno con il suo mare salva un depresso docente di italiano di un anonimo istituto alberghiero milanese dalla ripetizione infinita delle giornate, dalla vitalità eccentrica della compagna, dalla dipendenza da palliative sostanze stupefacenti. Livorno salva il depresso sconfitto dal suo passato, che si intreccia con la bellezza folgorante e pornografica di una madre capace di amare al di là delle apparenze (Micaela Ramazzotti-Stefania Sandrelli). Una madre addolcita dall'insostenibile leggerezza dell'essere. Nei momenti più difficili ha stretto a sé i propri bambini (troppo coscienti dell'ordine dell'esistente), dicendo: "Bimbi ora facciamo una cantatina". Il motivetto che dà il titolo al film diventa così il leitmotiv della forza di sopravvivere a se stessi e alla derive alle quali può essere sottoposto anche un cuore puro. La madre che ha rovinato la vita dei figlioli, alimentando la conservazione nel cuore di traumi irrisolti, è una malata terminale che con indomito coraggio non si rassegna all'evidenza dell'approdo all'ultima ora. Il martirio della madre è la condizione di un'espiazione, principio di salvezza e di resurrezione morale, nel mare livornese.

domenica 24 gennaio 2010

Sulla Precarietà


Periodicamente i quotidiani portano alla ribalta dell’opinione pubblica l’informe cambiamento in atto nella società: il crescente aumento dei single, delle convivenze, delle abitazioni condivise, dei lavori a progetto, della condizione di precarietà dei giovani tra i 25 e i 35 anni. Chi vive in città non ha bisogno di leggere i quotidiani per accorgersi di questa precarietà giovanile; la si percepisce sui mezzi di trasporto pubblici, per le strade, in pub e ristoranti, negli ambienti di lavoro, nei condomini. Non c’è quasi più necessità anzi di parlare di precarietà in senso negativo, poiché è scomparso dal vocabolario “mentale” dei giovani il suo concetto contrario “stabilità”.
Per questo quando qualche mese fa Tremonti pronunciò le parole “posto fisso”, era banalmente implicito che polemiche si sollevassero da ogni dove. “Posto fisso”: un sintagma obsoleto ormai, un’aspettativa scomparsa, un desiderio rimosso dalla censura del mondo. E infatti, l’opinione pubblica ha reagito alle parole di Tremonti con lo stesso impeto con cui uno psicotico potrebbe reagire ad una parte del suo passato tornata in circolazione attraverso una parola, di cui si è persa o si è voluto perdere l’origine. Diciamo che Tremonti l’ha buttata lì, amaramente e che noi non ci crucciamo per il posto fisso perché, sebbene faccia parte del nostro “inconscio collettivo”, noi non sappiamo nemmeno che cosa sia il “posto fisso”, noi non possiamo ricordarlo se non come evocazione dell’immagine dei nostri genitori. Il lutto pervade piuttosto chi nel “posto fisso” ci credeva, chi ci sperava e vi faceva affidamento per il futuro, i precari della scuola per esempio, gli operai delle fabbriche e tutti quelli che, avendo già una famiglia, hanno perso il lavoro in questi ultimi due anni.
Ora il nostro desiderio più che sul “posto fisso” si è fissato su un “posto”, solo un “posto”. Comunque, la precarietà divenuta condizione esistenziale e non passaggio dialettico verso una condizione di stabilità, è ancor più fattore sociale di trasformazione, di cui si avvertirà la consistenza forse solo fra dieci anni. Sono indispensabili allora, almeno tre direttive in questo “mondo da precario”: 1) informazione e dialogo: perché solo attraverso la conoscenza di quel che succede si può avere una parallela nozione di comunanza, e solo attraverso la comunanza tra persone ci si può sentire meno soli (il mio pensiero va a tutti quelli che si suicidano durante gli studi universitari, e non sono pochi); 2) lotta serrata allo sfruttamento: per contrastare tutte quelle strategie economiche strutturate che giocano sul fattore “debolezza del precario” per trarne profitto; 3) tenere alla propria felicità: perché si può sempre fare qualcosa di quel che è stato fatto di noi.
Sembra che per il precario non ci sia un attimo di pace, beh forse è proprio così. Ma se non c’è più nessuno a garantire i diritti del cittadino, se l’Italia “E’ una Repubblica fondata sullo stage”, se ai problemi reali del Paese si risponde con un brunettiano moralismo inutile e debilitante, non ci resta altro che indossare la nostra panoplia, in una mano la lancia e nell’altra lo scudo per proteggere se stessi e il compagno, facendo avanzare insieme la compatta falange.

sabato 23 gennaio 2010

Il Bel Paese dei matti

Se c'è una cosa che davvero faccio fatica ad accettare è il convincimento - proprio di alcuni parlamentari di maggioranza - dell'assuefazione dei cittadini alla recezione passiva di quanto pretenderebbero di far passare per verità o realtà. Il TG1 di oggi offre un valido esempio di questo sfruttamento iperbolico della presunzione da potere in merito alla vertenza giudiziaria Mediatrade-Rti. La notizia del caso è l'iscrizione nel registro degli indagati di Silvio e Pier Silvio Berlusconi per la creazione di fondi neri nel corso della compravendita dei diritti televisivi. Il commento del Ministro della Giustizia rilasciato all'inviato del telegiornale è a dir poco sconcertante e tradisce una palese deformazione della realtà, pegno per il riconoscimento dovuto al Patronus che ha fondato le sue fortune politiche ed istituzionali. Il fatto che Alfano non sia un semplice avvocatuccio siciliano è merito esclusivo del Premier, che ha selezionato ministri e parlamentari sulla base del criterio esclusivo della lealtà clientelare. Si tratta di personaggi privi di particolari qualità, che non avrebbero avuto alcuna possibilità di diventare quel che sono. Per questa ragione, devono tutto al loro Signore e sono disposti ad affrontare anche ogni difficoltà pur di assicurare la soddisfazione dei suoi interessi parziali. La dichiarazione del Guardasigilli è stata la seguente:

Non conosco gli atti del procedimento ma conosco il presidente del Consiglio: Berlusconi da anni si dedica esclusivamente al bene del Paese. In tutti questi anni non gli ho mai sentito fare una sola telefonata o una sola conversazione che avessero ad oggetto i suoi antichi interessi imprenditoriali, che non sono piu' di sua pertinenza

Si tratta si una menzogna al di là del bene e del male. Il Ministro ha mentito con la consapevolezza di ingannare quei telespettatori che non si distinguono per una particolare facoltà critica di discernimento. Angelino Alfano da Agrigento ha così svenduto inesorabilmente la propria dignità professionale ed istituzionale. Per cosa poi? Per essere ricordato fra qualche anno come il peggior Guardasigilli della Seconda Repubblica.
Faccio fatica a comprendere anche le pulsioni autolesionistiche del Partito Democratico. Il partito di Bersani sembra perseguire il fine di consegnare ai berlusconiani e ai leghisti il maggior numero possibile di Regioni. I dirigenti si preoccupano di sedurre gli appetiti istituzionali dei centristi di Casini, sfasciando così non solo la funzione, ma anche la storia del centrosinistra in Italia. La gestione della scelta dei candidati alla carica di Governatore nel Lazio e in Puglia è imbarazzante oltre che patetica.
Quasi nulla avviene secondo ragione: le maestre di una quinta elementare di Pessano con Bornago (MI) hanno dettato ai bambini il testo di Inno a Roma, una canzone fascista degli anni '20, affinché i piccoli studenti potessero cantarla durante la gita a Roma. C'è davvero da uscir matti.

lunedì 18 gennaio 2010

Reinhardt,
dio gitano
La storia è di quelle che fanno palpitare: avventura e sventura mescolate insieme, di quelle storie che non basta un film per raccontarle. Perché è vita vera, sofferenza, passione, sogni, miseria, fortuna, genio e sregolatezza. Insomma: Django Reinhardt. Era il 23 gennaio di cent’anni fa. A Liberchies, qualche centinaio di anime poco a nord di Charleroi, Belgio, faceva un freddo cane. Appena fuori dal villaggio da qualche giorno c’era una carovana di zingari, cinque o sei roulottes malandate, coi loro cavalli smagriti, i falò per scaldarsi, e, al centro, una piccola tenda da circo. Quel giorno, in una delle roulotte, Laurence Reinhardt partorì un maschietto. Laurence era così scura di pelle da essere soprannominata «Negros». Era l’acrobata del circo ed rimasta incinta di Jean Vées, acrobata anche lui e, quando poteva, musicista: chitarra, violino, un po’ di tutto. Lei però non volle saperne di sposarlo. Il bambino si chiamò Jean-Baptiste, ma presto gli fu affibbiato l’immancabile soprannome: Django.La carovana viaggò ancora molto. Girovagarono per l’Italia, poi furono in Algeria e infine si fermarono alla periferia di Parigi. Sua madre gli regalò un banjo, e a dodici anni Django accompagnava già suo padre e suo zio che si esibivano al caffé del mercato delle pulci di Clignancourt, poco fuori Parigi. Django era bravo, molto bravo, suonava la chitarra con una grinta e una velocità da lasciare a bocca aperta. A diciotto anni aveva già registrato qualche traccia, aveva la sua piccola fama, ma era e restava uno zingaro e ogni notte tornava a dormire nella sua vecchia roulotte. La sua seconda nascita avvenne nel 1928 e fu tragica. Era ottobre, il 26. Jack Hylton, leader di un’orchestra alla Paul Whiteman piuttosto famosa, gli offrì di entrare nella sua band per una tournée in Inghilterra. Era fatta! Forse quella sera Django era eccitato, fatto sta che rovesciò la candela accesa e i fiori di celluloide da vendere l’indomani davanti al cimitero presero fuoco e in un baleno la roulotte fu avvolta dalle fiamme. Bella Baumgartner, la sua compagna, se la cavò con poco, ma Django riportò ustioni gravissime sul lato destro del corpo e alla mano sinistra. Diciotto interminabili mesi di ospedale, e alla fine, mignolo e anulare della mano sinistra rimasero paralizzati. I medici furono unanimi: la sua carriera di musicista era finita. Ma non sapevano con chi avevano a che fare. Perché da quel rogo di miseria ed emarginazione, qualcosa che ben conosciamo ancora oggi, era nato Django Reinhardt, il dio zingaro della chitarra. Dio, perché nessun essere umano avrebbe potuto essere così testardo, inventarsi un modo di suonare con solo due dita e diventare un virtuoso impressionante, rivoluzionando la tecnica e il destino della chitarra. La carriera fu sfolgorante. Incontrò il suo alter ego in Stéphane Grappelli, violinista tanto per bene quanto Django fu sempre imprevedibile, sbruffone, spendaccione. Col loro celeberrimo Quintette du Hot Club de France furono i protagonisti assoluti del trapianto del jazz in Europa, con Monsieur Grappelli perennemente imbarazzato per le figuracce cui lo costringeva Django: analfabeta vero, per il quale un contratto era solo carta; nomade nell’anima, bisognoso ogni tanto di sparire per tornare alla sua roulotte e alle sue radici. Django era fin troppo «fenomeno» per accodarsi a una musica altrui qual era in fondo il jazz. Andò in America, ma il suo idolo Duke Ellington fu una delusione: tutto troppo ordinato, ufficiale, per lui che non volle mai leggere una nota di musica. Django era un sinti, che in Francia sono detti manouche, ricchi come tutte le etnie zingare di una loro tradizione musicale tutta chitarre e violini. Django la «contaminò» e nacque il jazz manouche, jazz portatile: chitarra e violino solisti, niente batteria ma due chitarre e contrabbasso per la pompe, così si chiama quel ritmo indiavolato che ti scortica e sale su dalle piante dei piedi. Curioso sfogliare le pagine di allora. Per André Hodeir, grande jazzologo, Django non era jazz, ma solo un «incidente pittoresco». Ma girate oggi per dischi, o per locali. I gruppi di giovani e giovanissimi, calamitati da questo modo sfrenato di scoparsi la chitarra, sono una schiera e gli scaffali, quelli che restano, pieni di questa musica, un po’ jazz un po’ world music, con protagonisti dai nomi così inesorabilmente diasporici: Bireli Lagrène, Stochelo Rosenberg, Angelo Debarre, Tchavolo Schmitt ecc. Hodeir toppò, ma non Eric Hobsbawm, che nascosto dietro lo pseudonimo di Francis Newton nel 1959 pubblicava The Jazz Scene, magnifica storia del suo oggetto amato. Dice Hobsbawm: «è significativo che Reinhardt sia fino ad ora il solo europeo che abbia conquistato un posto nell’Olimpo del jazz... ed è significativo che si tratti di uno zingaro». Perché insistere su quel «significativo»? Perché un grande storico come Hobsbawm aveva capito che il destino del jazz non era quello di essere solo la musica dei neri. Il jazz era l’annuncio che una nuova musica alzava la voce: la musica di quelli che il «primo mondo» ha sempre ignorato o odiato. Django è storia di adesso.

© L'Unità, 18 gennaio 2010

sabato 16 gennaio 2010

Piazza Esedra


Portici desolanti lasciano scorrere il passeggio della sera

mi inchino sul marmo incapace di capire

la definizione delle nostre vite

una vecchia benpensante mi fissa sgomenta

un obolo di compassione cade nella sacca degli anni andati

eccessi simbolici di chi pensa troppo e vive poco

intrecci di passati discordanti in una nuova trama

La città soffocata da nubi di attesa sorride


Rifondazione del mondo nei miei occhi teoretici

Son disposto ora anche a vendere le noccioline al mercato

venerdì 15 gennaio 2010

La carriòla



Un solo popolo

Camminavano, l’uno dietro l’altro. Legati l’uno all’altro. Il sole africano bruciava la pelle e l’anima. Cosa sarebbe stata l’esistenza al di là di quell’oceano, lontano dal cuore pulsante di una civiltà ricca di storia e tradizioni… Il suono cupo del tamburo scandiva i passi sincronizzati di un popolo, e l’eco rimbombante nel petto era rotto soltanto dallo stridere di catene arrugginite e dal canto africano di una madre che cullava il proprio figlio sul seno.
La nave seguiva la sua rotta verso terre indefinite e i colori dell’Africa sbiadivano ormai dietro il velo d'ignoranza che sempre ha spinto l’uomo ad affratellarsi alle bestie.
Eppure le bestie non fanno alcuna distinzione tra una mano bianca e una mano nera. L’affetto di un cane è il medesimo a prescindere dalle varietà di colori. Cos’è che rende un uomo ‘superiore’ ad un altro? Rosso, il sangue scorre identico nell’uomo bianco come nell’uomo di colore, e nell’utero della donna bianca viene accolto l’uovo fecondato esattamente come in quello di una donna nera. Dov’è la superiorità dell’uno e l’inferiorità dell’altro? Qual è il metro di valutazione valido ad indicare un uomo migliore di un altro? Il colore della pelle, forse?
La traversata giungeva al termine dopo una infinità di giorni senza alcuna speranza, non volendosi considerare l’unica possibile: la morte. I passeggeri, non difficilmente, avranno avuto la sensazione di confondersi a delle vere bestie, accatastati com’erano e così ridotti a condividere spazi angusti, escrementi e odori nauseanti.
Scendevano dalla nave, di nuovo annodati l’uno all’altro. Gli astanti, di gusti delicati, si turavano il naso con le mani; certo loro, nelle medesime condizioni di disagio avrebbero continuato ad aver impresso sulla pelle l’odore di sapone e di biancheria pulita. Perché loro avevano un privilegio: erano del candido colore della purezza e della pulizia. Peccato che nelle viscere si delineasse il colore turbolento dell’immondo sterco umano.
L’uomo è schiavo dei suoi pregiudizi. Se solo ne fosse libero, se solo potesse seguire l’impronta della libertà di pensiero prima che 'la partitura chiuda il suo broccato rosso cadendo su una pausa…', prima che sia troppo tardi, prima che precipiti senza via di scampo nell’incongruenza di quell’idea folle e terribile secondo cui gli uomini non sono tutti eguali.


Fermatevi ancelle: dove fuggite alla vista d’un uomo?
Forse un nemico credete che sia?
Non esiste uomo vivente, né mai potrà esistere,
che arrivi al paese delle genti feace
portando guerra: perché noi siam molto cari agli dèi.
Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti,
lontani, e nessuno viene fra noi degli altri mortali.
Ma questi è un misero naufrago, che c’è capitato,
e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus
gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.
Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere,
e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento
. [Omero - Odissea, vv. 199/210]


Presso gli antichi greci l’ospitalità era sacra. Essa costituiva una regola di convivenza civile, un dovere rituale. Non esistendo leggi scritte, le famiglie erano regolate da norme orali condivise da tutti. L'ospitalità rappresentava un legame durevole di solidarietà, che si manifestava con uno scambio di beni e favori. Si era obbligati a concedere ospitalità prima ancora di sapere l'identità dello straniero, posto sotto la protezione di Zeus. Il rapporto di ospitalità veniva sancito con una stretta di mano e con scambio di doni.
Considerare ciò che è avvenuto negli ultimi giorni in una nostra regione dell’Italia meridionale riempie l’anima di vergogna e di imbarazzo. Ciò che per Omero era considerato sacro è oggi esecrato e dileggiato. Al di là del comportamento di un buon padrone di casa, al di là del rispetto delle norme di una lodevole educazione, dovrebbe essere rispettato un altro e più sostanziale principio: quello della dignità dell’essere umano.
Considerate un uomo soggetto allo sfruttamento, un uomo che non vede corrispondersi il giusto salario per le faticose ore di lavoro compiuto; considerate un uomo oltraggiato, offeso, picchiato.
Può quell’uomo sostenere tutta questa ingiustizia senza ribellarsi una volta?
Non avrei mai pensato di poter condividere, un giorno, il pensiero che Pasternàk aveva esternato nelle battute finali del suo celebre Dottor Živago. Fu proprio quell’esternazione che mi portò a considerare malamente quel vecchio libro, non condividendone affatto, allora, l’infausto paragone che la penna dello scrittore andava balbettando tra le ultime pagine del suo romanzo.
Egli sosteneva, volendo scegliere un ottimo paragone per rappresentare la bambina (piuttosto bruttina, in verità, contrariamente alla prestanza fisica dei suoi due genitori) nata dall’unione illegittima tra Živago e Lara, che: “E’ successo più volte nella storia. Quello che era stato concepito in modo nobile e alto, è diventato rozza materia. Così la Grecia è divenuta Roma […]”.
Cosa c’è di peggio che vedere il proprio popolo scagliarsi contro un altro popolo, cosa c’è di peggio della miseria umana, della volgarità d’animo che sovrasta alcuni nostri compatrioti?
Che le parole di Pasternàk possano essere contrastate dall’atteggiamento nobile di quei calabresi che hanno fatto sentire la loro voce contro la tirannia mossa ai danni del prossimo, dei propri simili. Fin quando ci saranno folli che sosterranno il contrario ci renderemo continuamente colpevoli di quei rapimenti disumani che avvenivano sulle coste dell’Africa, quando l’uomo bianco credeva di poter governare il mondo con la violenza della clava.

Secondo un’antica usanza africana quando nasceva un bambino il padre, una volta deciso come chiamarlo, doveva completare l’imposizione del nome con un rituale.
Stringendo il piccolo Kunta tra le braccia robuste, si portò fino al confine del villaggio e qui, sollevatolo al cielo, gli sussurrò: «Fend kiling dorong leh warrata ka iteh tee» (Guarda: l’unica cosa più grande di te)”. [A. Haley, Radici]
Potessero tutti gli uomini ricordare questa ammonizione universale.
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L'amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli.

(Così Paolo di Tarso nella sua Lettera agli Ebrei)

mercoledì 13 gennaio 2010

Pieghe reazionarie? No grazie

Un assiduo lettore del blog (M.) ha postato un impegnativo commento alla nota commemorativa che ho dedicato al piccolo G. A. : si tratta di una stroncatura che impone una replica. Procedendo con ordine, riporto il parere pubblicato da M.:

Si dovrebbe elaborare l'idea di un murales per qualsiasi morto ammazzato. I morti sul lavoro dovrebbero essere osannati coi monumenti, e per i bambini che muoiono di fame andrebbero costurite cappelle accoglienti in cui le madri possano sfogare il loro dolore. G. non è il primo ventenne la cui vita rimane spezzata tra le lamiere di un auto incidentata. Cos'è che ha scosso il sistema nervoso, il fatto che fosse tuo amico? Puntare il dito sonnacchioso contro l'Onnipotente del Vecchio Testamento è poco filosofico: è banale. Abituato come sono alla tua capacità di cogliere il nocciolo della questione, auspico di poter leggere ben altre cose tra le tue pieghe che a volte, piuttosto che libertarie, sembrano essere reazionarie. M., un assiduo lettore.

L'osservazione introduttiva è una traduzione caricaturale del mio pensiero, piuttosto malriuscita. Sarei inoltre curioso di sapere da quale nota espressiva si possa dedurre che il mio sistema nervoso sia scosso. Nel mio studio non nascondo ansiolitici o tranquillanti. Il ricorso a tonalità argomentative corrosive e al limite provocatorie non è affatto indice di uno squilibrio emotivo o di turbe psichiche. Credo piuttosto che sia una libera manifestazione della libertà di pensiero che talvolta può diventare facoltà di urlare al cielo la rivendicazione del (non) senso degli intrecci del mondo. Gridare forte significa opporre la vita alla morte. Sarei curioso di sapere per quale motivo il mio dito sia sonnacchioso(sic!). L'impegno comportato dalla gestione di un blog non è un indice di disoccupazione intellettuale o pratica. Difatti in questo periodo sono particolarmente impegnato. Ribadisco con convinzione il mio pensiero, che non ha alcuna pretesa di essere la Verità rivelata. Non sono né un profeta né un cialtrone. Scrivo soltanto quello che la mia coscienza - condizionata dagli umori delle giornate - mi suggerisce. Non sono sottoposto a vincoli di insubordinazione. Dicevo che ribadisco con convinzione il mio pensiero: "Il postulato dell'esistenza del Dio misericordioso del Nuovo Testamento è incompossibile con la morte violenta di un ragazzo di appena venti anni, che aveva ancora tutto da scoprire. Sembra più plausibile la follia del Dio del Vecchio Testamento, zoticone capriccioso e violento, Signore castigatore" ("In memoria di G. A.", Pieghe libertarie, 10 gennaio 2010). M. sostiene che sia banale e niente affatto filosofico attaccare il Signore del Vecchio Testamento. Non mi risulta di averlo attaccato. Mi risulta il contrario. Pur essendo folle postulare l'esistenza di un Dio "zoticone", capriccioso, vendicativo, autoritario e per pochi "eletti" qual è il Signore del Sabbath, quel Dio è conciliabile con una vita spezzata a venti anni, per via di imperscrutabili ragioni sottese a qualche conto ancora da fustigare. Il Dio che apprendiamo dai catechismi coattivi ai quali siamo sottoposti (indipendentemente dalla considerazione della nostra volontà) durante gli anni dolci dell'infanzia, quel Signore buonissimo è sconfessato dai mali del mondo. Se ci fosse qualche dubbio, potremmo invocare il parere autorevole di un superstite haitiano, al quale potremmo chiedere: "Amico mio, secondo te, che hai vissuto l'Inferno in terra, ha davvero un senso credere nel Dio del Nuovo Testamento?". La risposta avrebbe un senso inconfessabile. M. sostiene che sarebbe il caso di leggere altre cose sul blog. Questo onestamente mi dispiace. Evidentemente neppure le note appassionate che ho scritto a favore dei copti perseguitati in Egitto sono di suo gradimento. Pieghe libertarie è un blog libero. Viene pubblicato soltanto ciò che è liberamente suggerito dagli eventi centrifughi dell'attualità. La presentazione delle tematiche è sciolta dal vincolo della captatio benevolentiae: non c'è nessun calcolo. Come ho scritto in tempi non sospetti (cfr. "La svolta apparente", Pieghe libertarie, 2 settembre 2009), il blog non è un'appendice de L'Unità o (potrei aggiungere oggi) o di Avvenire. Pertanto mi dispiace per M. che probabilmente resterà deluso dalla mia risposta. Stando alla lettera, reazionario è ciò che si oppone ad ogni programma di innovazione, volto al ristabilimento di un precedente assetto politico e sociale (T. de Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Paravia, Milano 2000, p. 2095), mentre libertario è piuttosto è ciò che si basa sulla libertà come valore fondamentale, ispirato alla difesa della libertà (Ibidem, p. 1374). Mi pare la storia del bue che dice all'asino: "sei cornuto!". Pago soltanto il prezzo di scrivere in piena libertà i miei pensieri che sono tali in quanto valgono per me. Mi rendo conto che si tratta oggi di un'opportunità rischiosa, forse di un azzardo. L'unico padrone che riconosco è la mia coscienza.

domenica 10 gennaio 2010

In memoria di G. A. Sarò pure un materialista d'altri tempi, ma ho sempre ritenuto che soltanto con le opere si possa sfuggire alla morte. Sono determinate azioni, oppure determinati oggetti a far sì che possa essere costantemente rinnovato il ricordo del defunto nei cuori di quanti autenticamente lo amavano. Le prediche consolatorie imparate a memoria dai preti hanno una blanda funzione sedativa, che però dura soltanto qualche giorno ed esclusivamente per le anime più semplici ed innocenti. Il cristianesimo (con le sue diverse correnti liturgiche) è la più nobile filosofia della consolazione. In realtà il postulato dell'esistenza del Dio misericordioso del Nuovo Testamento è incompossibile con la morte violenta di un ragazzo di appena venti anni, che aveva ancora tutto da scoprire. Sembra più plausibile la follia del Dio del Vecchio Testamento, zoticone capriccioso e violento, Signore castigatore. Su un edificio pubblico di proprietà del Comune della mia città è comparso da qualche giorno un murales commemorativo in memoria di uno sfortunatissimo ventenne che ha perso la vita in un incidente stradale nella mattina piovosa di una maledetta domenica di novembre. Conoscevo G., conosco la sua famiglia. Quando mi incrociava per la strada mi salutava sempre con un cenno sincero della mano. Era membro di una famiglia sana, che affronta con estrema dignità le difficoltà che impone oggi la sopravvivenza in un mondo sempre più ingiusto. Non ho mai creduto nel concetto di destino. Come potrei ammettere che il destino possa abbattersi proprio su chi ha davvero meno bisogno delle difficoltà? Sarei desideroso di conoscere l'autore o gli autori dell'omaggio tributato a G. Gli hanno reso giustizia offrendo alla sua memoria un altare del ricordo, un'occasione per vincere l'indifferenza egocentrica di tanti idioti. Un'opera per il piccolo G. Un'opera d'arte espressa da un genere di rappresentazione tipico della cultura underground (non è un caso che i ragazzi che hanno composto l'opera abbiano scelto una via decentrata), e tradizionalmente espressione di protesta sociale. Le amministrazioni pubbliche sono ovunque zeppe di analfabeti senza arte né parte, cialtroni che tentano di compensare la loro oggettiva inutilità occupando (attraverso una rete clientelare di conoscenze strategiche) le poltrone istituzionali. Per questo posso solo sperare che a nessuno venga in mente di far calare la vernice dell'oblio sulle schegge che ancora ci mozzano il respiro.

sabato 9 gennaio 2010

Se quel sabato cairota
Con la complicità criminale delle autorità egiziane, i copti conducono un'esistenza clandestina, da perseguitati. L'odio religioso è sanguinario, poiché può essere placato soltanto dalla condanna della vittima prestabilita al castigo fisico per i propri presunti peccati mortali. Durante la notte del sette gennaio si è verificata l'ultima violenza ai danni della sofferente comunità dei cristiani d'Egitto. In realtà, i soprusi e gli abusi sono quotidiani, perlopiù rimossi dal sistema dell'informazione giornalistica, che è del tutto incatenato ai dettami del regime di Hosni Mubarak, il padrone assoluto del Paese. Bisogna spendere due parole su Mubarak. Per salvare le apparenze presentandosi ai suoi alleati occidentali sotto una veste migliore, il Presidente ha riconosciuto nel 2002 (dopo 21 anni di regime) il Natale copto come festività nazionale; ad ogni modo, ha lasciato le mani libere ai gruppi islamici combattenti e ha esteso le prerogative politiche dei Fratelli musulmani proprio per legittimare il proprio controllo autoritario del potere. Nella chiesa di San Giovanni di Nag Hammadi, intorno alla mezzanotte tre terroristi hanno sparato sulla folla dei fedeli che avevano appena partecipato alla funzione della Vigilia del Natale. Il bilancio è drammatico: 7 morti e 3 feriti gravi. L'obiettivo dei criminali era il vescovo Kirollos, che ha presieduto le funzioni cerimoniali. Copto deriva dall'arabo qubt, conversione linguistica del termine greco aiguptos ("egiziano"); è un termine molto antico che inizialmente designava appunto il popolo egiziano prima della diffusione dell'Islam nel Medio Oriente e che successivamente ha denotato quegli egiziani che coraggiosamente riuscirono a conservare il loro culto cristiano, sfuggendo all'estorsione della conversione. La storia della Chiesa copta è molto suggestiva e affonda le proprie radici nelle predicazioni nel deserto dell'evangelista Marco. E' una storia molto complessa, che presuppone riferimenti eruditi per spiegare le specificità di un culto che prefigura un cristianesimo semplice ed austero. Non me la sento di fare riferimento alle decretazioni del Concilio ecumenico di Nicea (481) e alle ragioni per cui gli egiziani accolsero la dottrina monofisista. Preferisco richiamare un'esperienza personale, relativa al viaggio al Cairo dell'agosto 2007. Poco prima di partire, andai a leggere tutti i suggerimenti indicati dal sito Internet della Farnesina per affrontare serenamente un'immersione negli infiniti vicoli dell'infinita capitale egiziana. Non si trattava di uno scrupolo eccessivo, quanto piuttosto di una giusta precauzione, motivata dal fatto che il viaggio era fai da te, indipendente dalle direttrici di un'agenzia turistica. Sul sito era scritto chiaramente che il turista doveva tenersi alla larga dalle chiese cristiane, proprio perché sono spesso bersaglio di rappresaglie terroristiche. Ricordo un sabato pomeriggio interminabile. Sprofondo sul divano dell'appartamento centrale che abbiamo preso in affitto. Non ne posso più di leggere saggi ed ascoltare Battiato. Lo facevo ininterrottamente dal tardo mattino. Saremmo usciti soltanto durante la note, quando la città vive popolandosi di anime vocianti come un formicaio che sia appena stato scoperto da un bambino curioso. Vincendo le resistenze opposte dai miei compagni di viaggio, esco, pronto ad affrontare la calura folle del pomeriggio. Non so dove andare. Il buon senso mi consiglia di non allontanarmi. Decido di svoltare dalla via centrale, costeggiata dalla muraglia che cinge il parco in cui si trova la dimora privata del Presidente. Lascio alle mie spalle un viale ordinato e pulito (illuminato a giorno durante le ore della notte islamica) per scoprire un nuovo mondo. Pantani in cui si immergono bambini nudi, galline svolazzanti, tanfi nauseanti. Scorgo con la coda dell'occhio una chiesetta copta. E' protetta da un elevato muro difensivo e da monaci dotati di mitra all'ingresso del cancello. Chiedo in inglese il permesso di entrare. Mi scrutano penetrandomi negli occhi. Mostro timidamente la carta d'identità. Bisbigliano qualcosa in arabo e mi lasciano passare. Quando entro in chiesa è ancora in corso la messa pomeridiana. Incensi, canti melodiosi, partecipazioni delle mani al ritmo delle canzoni. Imito i fedeli. Anch'io sollevo le mani verso la volta per poi portarle al cuore. Il sacerdote mi fissa e mi lancia un segnale di saluto. Ricambio con il luccichio degli occhi. Conosce da sempre le sue pecorelle e un corpo estraneo non può proprio sfuggirgli. Esco fuori respirando a fatica. Dopo aver letto la notizia dell'Epifania, ho ripensato alla follia di un pomeriggio consacrato soltanto alla valorizzazione della mia indomabile curiosità intellettuale. Per uno sguardo antropologico si può rischiare di finire in un guaio. This is the question.

venerdì 8 gennaio 2010

La carriòla


L i b e r t à

E non mi chiami per nome.
Il mio nome non l’hai mai saputo.
Serrato tra gli inguini della
ragione, resto seduto a guardare
il tormento di un guerriero.
Non è freddo il tuo cavèdio
e la tua fioritura di stagione
sgambetta al ritmo binario
di un movimento naturale.
Solfeggiami sulla corda del
giorno ché la chiglia non si
frena nel mendicare la libertà.
Segui l’impronta del mio
nome prima che la partitura
chiuda il suo broccato rosso
cadendo su una pausa.
Riecheggia nella bocca dei
navigati conoscitori il mio nome,
mentre tu bruci soltanto ingoiando
la spremitura del suo pianeta sconosciuto.

sabato 2 gennaio 2010

L'ignoranza della notte

<<Però la notte, tranquilla e distante, estranea agli esseri e alle cose, con quella suprema indifferenza che immaginiamo all'universo, o quell'altra, assoluta, l'indifferenza del vuoto che rimarrà, ammesso che il vuoto possa essere qualcosa, quando il fine ultimo di tutto si sarà compiuto, la notte dicevamo, ignorava il significato e l'ordine plausibile che sembrano governare questo mondo nei momenti in cui crediamo ancora che esso sia stato creato per accoglierci, noi e la nostra follia>>.


J. SARAMAGO, Il vangelo secondo Gesù Cristo, Einaudi, Torino 2002, pp. 103-104.