Periodicamente i quotidiani portano alla ribalta dell’opinione pubblica l’informe cambiamento in atto nella società: il crescente aumento dei single, delle convivenze, delle abitazioni condivise, dei lavori a progetto, della condizione di precarietà dei giovani tra i 25 e i 35 anni. Chi vive in città non ha bisogno di leggere i quotidiani per accorgersi di questa precarietà giovanile; la si percepisce sui mezzi di trasporto pubblici, per le strade, in pub e ristoranti, negli ambienti di lavoro, nei condomini. Non c’è quasi più necessità anzi di parlare di precarietà in senso negativo, poiché è scomparso dal vocabolario “mentale” dei giovani il suo concetto contrario “stabilità”.
Per questo quando qualche mese fa Tremonti pronunciò le parole “posto fisso”, era banalmente implicito che polemiche si sollevassero da ogni dove. “Posto fisso”: un sintagma obsoleto ormai, un’aspettativa scomparsa, un desiderio rimosso dalla censura del mondo. E infatti, l’opinione pubblica ha reagito alle parole di Tremonti con lo stesso impeto con cui uno psicotico potrebbe reagire ad una parte del suo passato tornata in circolazione attraverso una parola, di cui si è persa o si è voluto perdere l’origine. Diciamo che Tremonti l’ha buttata lì, amaramente e che noi non ci crucciamo per il posto fisso perché, sebbene faccia parte del nostro “inconscio collettivo”, noi non sappiamo nemmeno che cosa sia il “posto fisso”, noi non possiamo ricordarlo se non come evocazione dell’immagine dei nostri genitori. Il lutto pervade piuttosto chi nel “posto fisso” ci credeva, chi ci sperava e vi faceva affidamento per il futuro, i precari della scuola per esempio, gli operai delle fabbriche e tutti quelli che, avendo già una famiglia, hanno perso il lavoro in questi ultimi due anni.
Ora il nostro desiderio più che sul “posto fisso” si è fissato su un “posto”, solo un “posto”. Comunque, la precarietà divenuta condizione esistenziale e non passaggio dialettico verso una condizione di stabilità, è ancor più fattore sociale di trasformazione, di cui si avvertirà la consistenza forse solo fra dieci anni. Sono indispensabili allora, almeno tre direttive in questo “mondo da precario”: 1) informazione e dialogo: perché solo attraverso la conoscenza di quel che succede si può avere una parallela nozione di comunanza, e solo attraverso la comunanza tra persone ci si può sentire meno soli (il mio pensiero va a tutti quelli che si suicidano durante gli studi universitari, e non sono pochi); 2) lotta serrata allo sfruttamento: per contrastare tutte quelle strategie economiche strutturate che giocano sul fattore “debolezza del precario” per trarne profitto; 3) tenere alla propria felicità: perché si può sempre fare qualcosa di quel che è stato fatto di noi.
Sembra che per il precario non ci sia un attimo di pace, beh forse è proprio così. Ma se non c’è più nessuno a garantire i diritti del cittadino, se l’Italia “E’ una Repubblica fondata sullo stage”, se ai problemi reali del Paese si risponde con un brunettiano moralismo inutile e debilitante, non ci resta altro che indossare la nostra panoplia, in una mano la lancia e nell’altra lo scudo per proteggere se stessi e il compagno, facendo avanzare insieme la compatta falange.
Per questo quando qualche mese fa Tremonti pronunciò le parole “posto fisso”, era banalmente implicito che polemiche si sollevassero da ogni dove. “Posto fisso”: un sintagma obsoleto ormai, un’aspettativa scomparsa, un desiderio rimosso dalla censura del mondo. E infatti, l’opinione pubblica ha reagito alle parole di Tremonti con lo stesso impeto con cui uno psicotico potrebbe reagire ad una parte del suo passato tornata in circolazione attraverso una parola, di cui si è persa o si è voluto perdere l’origine. Diciamo che Tremonti l’ha buttata lì, amaramente e che noi non ci crucciamo per il posto fisso perché, sebbene faccia parte del nostro “inconscio collettivo”, noi non sappiamo nemmeno che cosa sia il “posto fisso”, noi non possiamo ricordarlo se non come evocazione dell’immagine dei nostri genitori. Il lutto pervade piuttosto chi nel “posto fisso” ci credeva, chi ci sperava e vi faceva affidamento per il futuro, i precari della scuola per esempio, gli operai delle fabbriche e tutti quelli che, avendo già una famiglia, hanno perso il lavoro in questi ultimi due anni.
Ora il nostro desiderio più che sul “posto fisso” si è fissato su un “posto”, solo un “posto”. Comunque, la precarietà divenuta condizione esistenziale e non passaggio dialettico verso una condizione di stabilità, è ancor più fattore sociale di trasformazione, di cui si avvertirà la consistenza forse solo fra dieci anni. Sono indispensabili allora, almeno tre direttive in questo “mondo da precario”: 1) informazione e dialogo: perché solo attraverso la conoscenza di quel che succede si può avere una parallela nozione di comunanza, e solo attraverso la comunanza tra persone ci si può sentire meno soli (il mio pensiero va a tutti quelli che si suicidano durante gli studi universitari, e non sono pochi); 2) lotta serrata allo sfruttamento: per contrastare tutte quelle strategie economiche strutturate che giocano sul fattore “debolezza del precario” per trarne profitto; 3) tenere alla propria felicità: perché si può sempre fare qualcosa di quel che è stato fatto di noi.
Sembra che per il precario non ci sia un attimo di pace, beh forse è proprio così. Ma se non c’è più nessuno a garantire i diritti del cittadino, se l’Italia “E’ una Repubblica fondata sullo stage”, se ai problemi reali del Paese si risponde con un brunettiano moralismo inutile e debilitante, non ci resta altro che indossare la nostra panoplia, in una mano la lancia e nell’altra lo scudo per proteggere se stessi e il compagno, facendo avanzare insieme la compatta falange.
Hai espresso in maniera esemplare il sentire comune di tante persone che si trovano esattamente nella situazione che hai fotografato. Ti faccio i miei complimenti e mi auguro che il tuo post possa essere letto da un numero elevato di ragazzi che ogni giorni si trovano nella condizione di applicarsi all'arte della sopravvivenza.
RispondiEliminamarco
Il post può essere inteso come una riproduzione fedele, non contaminata dal disincanto, della dimensione sociale nel contesto della quale siamo immersi e talvolta affoghiamo noi giovani, generazione frustata e sfruttata degli anni 0. Il mondo è diventato maledettamente più complicato negli ultimi dieci anni. Io dottorando senza borsa vivo sulla mia pelle il senso di una complessa degenerazione sociologica. Ognuno di noi, più in generale, ne sa qualcosa. Ringrazio Cassandra per le direttive che ha indicato. Sono una ragione in più per andare avanti.
RispondiEliminaGrazie a voi, per aver letto e commentato il post. Anche per me le tre direttive sono una speranza, che l'immagine della falange rappresenta pienamente. La speranza è che da tale situazione non sorga un individualismo sfrenato, una lotta per la sopravvivenza che sia selezione naturale, nella quale non sarebbero i "migliori" a sopravvivere, ma semplicemente i più forti. La speranza è che i nostri scudi serrati insieme siano anche fonte di coraggio per chi è debole, per chi pensa che non c'è via d'uscita o che non è all'altezza. Questa è la mia speranza: una maggiore eticità condivisa, per la nostra generazione.
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