L’incontro di due maschere.
Pessoa e Pirandello
di Federica Passarelli
di Federica Passarelli
Cos’hanno in comune il poeta portoghese e lo scrittore siciliano? Entrambi hanno vissuto a cavallo tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Non siamo sicuri che siano stati lettori o ammiratori reciproci delle rispettive opere. Fatto sta che presentano nella loro ideologia diversi tratti somiglianti.
Il pensiero di Fernando Pessoa s’esprime tutto, o quasi, in una riflessione contenuta nelle pagine di un diario appartenuto a certo…Bernardo Soares. No. Non ho le idee confuse. Bernardo Soares è l’autore di un libro-diario intitolato “Il libro dell’inquietudine” in cui Pessoa elabora una indagine introspettiva sull’anima. Pessoa-Soares, Fernando-Bernardo: tracce riconducenti ad un’unica persona. Un’unica persona? Vedremo che in realtà le cose stanno diversamente! Leggere Pessoa è come guardare attraverso la lente di un caleidoscopio: ha personalità ricche di sfaccettature colorate e mobili! Ma procediamo per gradi. Si diceva di una riflessione contenuta nel diario di Soares. Si tratta di una riflessione importantissima perché agisce come una lente d’ingrandimento sull’anima del poeta e la definisce in tutta la sua genialità, ma per non perdersi ulteriormente nei meandri sconfinati delle metafore e delle similitudini, procedo col proporre tale riflessione:
Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi. (Il libro dell’inquietudine).
Signore e signori ecco a voi Sua Diversità l’Eteronimia! “letteralmente ‘altri nomi’, individui diversi, legati comunque in un identico stato di famiglia a un unico padre, dalla cui mente sono scaturiti. Gli eteronimi sono proiezioni dell’autore. Figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo, ossia il Pessoa anagrafico, il Pessoa-lui-stesso. Si tratta, dunque, di un fenomeno ben più complesso rispetto a quegli espedienti di comodo rappresentati da pseudonimi, apocrifi e altri travestimenti di firma utilizzati da artisti e uomini di pensiero per mimetizzarsi” (Marzio Breda). Scrivere è esattamente questo, per lui: creare creature creanti, creature di finzione che producono a loro volta finzione letteraria, scrive Antonio Tabucchi.
Vogliate perdonare l’incursione accademica sul significato di eteronimia. Non statevene col volto torvo e indispettito, s’è trattato solo di un chiarimento dovuto alla complessità del personaggio e non si voleva assolutamente dubitare del vostro grado di conoscenza in proposito. Ma andiamo avanti. Soares non è l’unico eteronimo nella poetica di Pessoa, anzi più precisamente stando a quanto sostiene lo stesso poeta di Lisbona, Soares è piuttosto un semi-eteronimo, “perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività”, dunque perché più di qualsiasi altro eteronimo è quello che maggiormente combacia con la figura di Pessoa scrittore. I tre eteronimi più noti sono: Alvaro de Campos, Ricardo Reis e Alberto Caeiro. Ognuno con una sua storia, con una sua vita, con un suo carattere. Spiega Pessoa: “Ho messo in Caeiro tutta la mia forza di personalizzazione drammatica, ho messo in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, ho messo in de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia vita”. Curiosamente Pessoa in portoghese significa ‘persona’, e ‘persona’ in latino indica la ‘maschera’ dell’attore, mentre la stessa parola in francese suona come ‘nessuno’. Il destino in un nome, si potrebbe dire.
“Con una tale mancanza di gente coesistibile come c’è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità se non inventare i suoi amici, o quanto meno i suoi compagni di spirito?” […] “L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante della spersonalizzazione e della simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente per me e per altri in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso”. (13 gennaio 1935)
Il libro dell’inquietudine non s’allontana di molto da un altro eventuale titolo che girovaga in linea d’aria: il libro della solitudine. Pessoa adora star solo perché odia inciampare tra le gente comune, non ama sporcarsi di banalità quotidiana.
Oggi, mentre percorrevo Rua Nova do Almada mi sono messo a osservare le spalle di un uomo che camminava davanti a me. Erano le spalle comuni di un uomo qualsiasi, la giacca di un vestito modesto addosso a un passante occasionale. Portava una vecchia borsa sotto il braccio sinistro e batteva per terra, accompagnandolo al suo passo, un ombrello chiuso che reggeva con la mano destra. All’improvviso ho provato per quell’uomo una sensazione simile alla tenerezza. Ho avuto per lui la tenerezza che si prova verso la comune banalità umana, verso il grigiore quotidiano del capofamiglia che si reca al lavoro, verso il suo focolare umile e allegro, verso i piaceri allegri e tristi di cui è fatta la sua vita senza scampo, verso l’innocenza di chi vive senza scervellarsi sulle cose, verso la naturalezza animalesca di quelle spalle vestite.
Eppure Pessoa-Soares è un impiegato di concetto, è obbligato a condividere il suo ufficio con altre persone insignificanti o superficiali.
Che piacere essere ampiamente soli! Poter parlare ad alta voce con noi stessi, passeggiare senza il fastidio di altri sguardi, reclinarsi sulla sedia in un fantasticheria indisturbata! […] I rumori sono estranei, come se appartenessero a un universo vicino ma indipendente. Finalmente siamo dei sovrani. […] Per un attimo noi siamo i pensionati dell’universo, ci adagiamo nella routine del vitalizio che ci è stato concesso, privi di necessità e preoccupazioni!.
Non gli resta che sognare. Soares-Pessoa però non dorme ma sdorme, per usare una sua parola. Soares osserva il mondo da una finestra e scopre se stesso. Così “negli occasionali e spassionati momenti in cui prendiamo coscienza di noi stessi in quanto individui che sono altri per gli altri, mi ha sempre preoccupato l’idea delle sembianze fisiche e anche spirituali che io offro a coloro che mi vedono e mi parlano quotidianamente od occasionalmente. Tutti siamo abituati a vedere noi stessi essenzialmente come delle realtà mentali, mentre vediamo gli altri come delle realtà fisiche. A causa dell’effetto che destiamo negli occhi degli altri abbiamo una vaga consapevolezza di noi stessi come entità fisica; […] Perciò mi perdo talvolta nella futile elucubrazione su che tipo di persona sarò per quelli che mi vedono, com’è la mia voce, che tipo di immagine lascio scritta nella memoria involontaria degli altri, in che modo i miei gesti, le mie parole, la mia vita apparente, si imprimono nella retina dell’interpretazione altrui. Non sono mai riuscito a vedermi dal di fuori. Non c’è specchio che ci rifletta in quanto fuori, poiché non c’è specchio che ci tiri fuori da noi stessi” (Il libro dell’inquietudine).
Ci siamo! Comincia ad emergere dall’immagine riflessa nello stagno quell’altra figura agrigentina che con la voce di Vitangelo Moscarda esclama: “…Mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. […] Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando” […] “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uomo lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no” (Uno, nessuno e centomila).
Il pensiero di Fernando Pessoa s’esprime tutto, o quasi, in una riflessione contenuta nelle pagine di un diario appartenuto a certo…Bernardo Soares. No. Non ho le idee confuse. Bernardo Soares è l’autore di un libro-diario intitolato “Il libro dell’inquietudine” in cui Pessoa elabora una indagine introspettiva sull’anima. Pessoa-Soares, Fernando-Bernardo: tracce riconducenti ad un’unica persona. Un’unica persona? Vedremo che in realtà le cose stanno diversamente! Leggere Pessoa è come guardare attraverso la lente di un caleidoscopio: ha personalità ricche di sfaccettature colorate e mobili! Ma procediamo per gradi. Si diceva di una riflessione contenuta nel diario di Soares. Si tratta di una riflessione importantissima perché agisce come una lente d’ingrandimento sull’anima del poeta e la definisce in tutta la sua genialità, ma per non perdersi ulteriormente nei meandri sconfinati delle metafore e delle similitudini, procedo col proporre tale riflessione:
Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi. (Il libro dell’inquietudine).
Signore e signori ecco a voi Sua Diversità l’Eteronimia! “letteralmente ‘altri nomi’, individui diversi, legati comunque in un identico stato di famiglia a un unico padre, dalla cui mente sono scaturiti. Gli eteronimi sono proiezioni dell’autore. Figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo, ossia il Pessoa anagrafico, il Pessoa-lui-stesso. Si tratta, dunque, di un fenomeno ben più complesso rispetto a quegli espedienti di comodo rappresentati da pseudonimi, apocrifi e altri travestimenti di firma utilizzati da artisti e uomini di pensiero per mimetizzarsi” (Marzio Breda). Scrivere è esattamente questo, per lui: creare creature creanti, creature di finzione che producono a loro volta finzione letteraria, scrive Antonio Tabucchi.
Vogliate perdonare l’incursione accademica sul significato di eteronimia. Non statevene col volto torvo e indispettito, s’è trattato solo di un chiarimento dovuto alla complessità del personaggio e non si voleva assolutamente dubitare del vostro grado di conoscenza in proposito. Ma andiamo avanti. Soares non è l’unico eteronimo nella poetica di Pessoa, anzi più precisamente stando a quanto sostiene lo stesso poeta di Lisbona, Soares è piuttosto un semi-eteronimo, “perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività”, dunque perché più di qualsiasi altro eteronimo è quello che maggiormente combacia con la figura di Pessoa scrittore. I tre eteronimi più noti sono: Alvaro de Campos, Ricardo Reis e Alberto Caeiro. Ognuno con una sua storia, con una sua vita, con un suo carattere. Spiega Pessoa: “Ho messo in Caeiro tutta la mia forza di personalizzazione drammatica, ho messo in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, ho messo in de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia vita”. Curiosamente Pessoa in portoghese significa ‘persona’, e ‘persona’ in latino indica la ‘maschera’ dell’attore, mentre la stessa parola in francese suona come ‘nessuno’. Il destino in un nome, si potrebbe dire.
“Con una tale mancanza di gente coesistibile come c’è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità se non inventare i suoi amici, o quanto meno i suoi compagni di spirito?” […] “L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante della spersonalizzazione e della simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente per me e per altri in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso”. (13 gennaio 1935)
Il libro dell’inquietudine non s’allontana di molto da un altro eventuale titolo che girovaga in linea d’aria: il libro della solitudine. Pessoa adora star solo perché odia inciampare tra le gente comune, non ama sporcarsi di banalità quotidiana.
Oggi, mentre percorrevo Rua Nova do Almada mi sono messo a osservare le spalle di un uomo che camminava davanti a me. Erano le spalle comuni di un uomo qualsiasi, la giacca di un vestito modesto addosso a un passante occasionale. Portava una vecchia borsa sotto il braccio sinistro e batteva per terra, accompagnandolo al suo passo, un ombrello chiuso che reggeva con la mano destra. All’improvviso ho provato per quell’uomo una sensazione simile alla tenerezza. Ho avuto per lui la tenerezza che si prova verso la comune banalità umana, verso il grigiore quotidiano del capofamiglia che si reca al lavoro, verso il suo focolare umile e allegro, verso i piaceri allegri e tristi di cui è fatta la sua vita senza scampo, verso l’innocenza di chi vive senza scervellarsi sulle cose, verso la naturalezza animalesca di quelle spalle vestite.
Eppure Pessoa-Soares è un impiegato di concetto, è obbligato a condividere il suo ufficio con altre persone insignificanti o superficiali.
Che piacere essere ampiamente soli! Poter parlare ad alta voce con noi stessi, passeggiare senza il fastidio di altri sguardi, reclinarsi sulla sedia in un fantasticheria indisturbata! […] I rumori sono estranei, come se appartenessero a un universo vicino ma indipendente. Finalmente siamo dei sovrani. […] Per un attimo noi siamo i pensionati dell’universo, ci adagiamo nella routine del vitalizio che ci è stato concesso, privi di necessità e preoccupazioni!.
Non gli resta che sognare. Soares-Pessoa però non dorme ma sdorme, per usare una sua parola. Soares osserva il mondo da una finestra e scopre se stesso. Così “negli occasionali e spassionati momenti in cui prendiamo coscienza di noi stessi in quanto individui che sono altri per gli altri, mi ha sempre preoccupato l’idea delle sembianze fisiche e anche spirituali che io offro a coloro che mi vedono e mi parlano quotidianamente od occasionalmente. Tutti siamo abituati a vedere noi stessi essenzialmente come delle realtà mentali, mentre vediamo gli altri come delle realtà fisiche. A causa dell’effetto che destiamo negli occhi degli altri abbiamo una vaga consapevolezza di noi stessi come entità fisica; […] Perciò mi perdo talvolta nella futile elucubrazione su che tipo di persona sarò per quelli che mi vedono, com’è la mia voce, che tipo di immagine lascio scritta nella memoria involontaria degli altri, in che modo i miei gesti, le mie parole, la mia vita apparente, si imprimono nella retina dell’interpretazione altrui. Non sono mai riuscito a vedermi dal di fuori. Non c’è specchio che ci rifletta in quanto fuori, poiché non c’è specchio che ci tiri fuori da noi stessi” (Il libro dell’inquietudine).
Ci siamo! Comincia ad emergere dall’immagine riflessa nello stagno quell’altra figura agrigentina che con la voce di Vitangelo Moscarda esclama: “…Mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. […] Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando” […] “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uomo lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no” (Uno, nessuno e centomila).
Pessoa-scrittore crea personaggi-persone perché non vuole ‘condividersi’ con la banalità degli altri e allora inventa compagni di vita e di viaggio che siano, come lui, estimatori d’arte e di letteratura, che guardino il mondo, come lui, da una finestra del quarto piano per avere ben netta la visuale delle strade e delle case sottostanti, nonché la linea dell’orizzonte e poterla scavalcare. Pirandello-filosofo evidenzia il contrasto tra forma e vita e tra personaggio e persona. L’uomo necessita di autoinganni: deve credere cioè che la vita abbia un senso e perciò organizza l’esistenza secondo convenzioni, riti, istituzioni che devono rafforzare in lui tale illusione. Gli autoinganni costituiscono la forma dell’esistenza che blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, la tendenza a vivere momento per momento al di fuori di ogni scopo ideale e di ogni legge civile: essa paralizza la vita. Il soggetto, costretto a vivere nella forma, non è più persona integra, ma si riduce ad una maschera (o ad un personaggio) che recita la parte che la società esige da lui (ecco la parte di impiegato, di marito, di padre, di figlio...) e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali. Il personaggio non è dunque coerente, solido e unitario perché non è più persona. Ha davanti a sé solo due strade: o sceglie l’incoscienza e l’ipocrisia e dunque l’adeguamento passivo alle forme oppure vive consapevolmente, amaramente e autoironicamente la scissione tra forma e vita. Nel primo caso è dunque solo una maschera, nel secondo è invece una maschera nuda consapevole degli autoinganni propri e altrui. Chi si guarda vivere, insomma, si pone fuori dall’esperienza vitale; condannato all’estraneità, guarda da fuori e compatisce non solo gli altri ma se stesso.
Capirmi dal di fuori è stata la mia disgrazia: la disgrazia della mia felicità. Mi sono visto come mi vedono gli altri e ho cominciato a disprezzarmi: non tanto perché riconoscessi in me dei motivi da farmi meritare disprezzo, ma perché da quel momento ho cominciato a vedermi come mi vedono gli altri e a sentire quel certo disprezzo che gli altri sentono per me. Ho sofferto l’umiliazione di conoscere me stesso. E siccome questo calvario è privo di nobiltà e di resurrezione qualche giorno dopo, non mi è restato che soffrirne l’infamia.
Quest’ultima citazione l’attribuireste senza dubbio a Pirandello, ne sono sicura, e non ve ne riconoscerei alcun torto. È un pensiero terribilmente pirandelliano, squisitamente rientrante nella filosofica indulgenza di Pirandello. E invece! Chi l’avrebbe mai detto che appartiene alla penna del poeta portoghese!
Eccoli, dunque: immersi entrambi nella ricerca di se stessi e nel ritrovamento dell’altro ‘io’. Eccoli, poeta e scrittore seduti a chiacchierare sulla panchina della vita!, li osservo stando al davanzale della mia finestra. Non posso sbagliarmi: Pessoa si raddrizza il papillon nero mentre Pirandello tamburella sul ginocchio il suo cappello dalle larghe falde di vecchio intellettuale d’altri tempi. Tutto questo delirio della mia penna scalza ha un senso. È il senso della gratitudine che ho tentato d’esprimere come meglio ho potuto verso due giganti della letteratura e della poesia. Ho per entrambi un maëlstrom vertiginoso di emozioni letterarie! E se l’articolo avrà come merito quello di esortarvi a viaggiare tra le pagine di questi uomini geniali, allora avrò realizzato una rivoluzione! E con le parole di Fernando Pessoa ripongo alfine la mia penna tra i personaggi e le maschere di lontane fantasie: “Se ciò che lascerò scritto nel libro dei viandanti, ammesso che qualcuno un giorno lo legga, potrà intrattenere questo qualcuno nella traversata, sarà bene. Se nessuno lo leggerà, se nessuno si intratterrà, sarà bene lo stesso”.
Capirmi dal di fuori è stata la mia disgrazia: la disgrazia della mia felicità. Mi sono visto come mi vedono gli altri e ho cominciato a disprezzarmi: non tanto perché riconoscessi in me dei motivi da farmi meritare disprezzo, ma perché da quel momento ho cominciato a vedermi come mi vedono gli altri e a sentire quel certo disprezzo che gli altri sentono per me. Ho sofferto l’umiliazione di conoscere me stesso. E siccome questo calvario è privo di nobiltà e di resurrezione qualche giorno dopo, non mi è restato che soffrirne l’infamia.
Quest’ultima citazione l’attribuireste senza dubbio a Pirandello, ne sono sicura, e non ve ne riconoscerei alcun torto. È un pensiero terribilmente pirandelliano, squisitamente rientrante nella filosofica indulgenza di Pirandello. E invece! Chi l’avrebbe mai detto che appartiene alla penna del poeta portoghese!
Eccoli, dunque: immersi entrambi nella ricerca di se stessi e nel ritrovamento dell’altro ‘io’. Eccoli, poeta e scrittore seduti a chiacchierare sulla panchina della vita!, li osservo stando al davanzale della mia finestra. Non posso sbagliarmi: Pessoa si raddrizza il papillon nero mentre Pirandello tamburella sul ginocchio il suo cappello dalle larghe falde di vecchio intellettuale d’altri tempi. Tutto questo delirio della mia penna scalza ha un senso. È il senso della gratitudine che ho tentato d’esprimere come meglio ho potuto verso due giganti della letteratura e della poesia. Ho per entrambi un maëlstrom vertiginoso di emozioni letterarie! E se l’articolo avrà come merito quello di esortarvi a viaggiare tra le pagine di questi uomini geniali, allora avrò realizzato una rivoluzione! E con le parole di Fernando Pessoa ripongo alfine la mia penna tra i personaggi e le maschere di lontane fantasie: “Se ciò che lascerò scritto nel libro dei viandanti, ammesso che qualcuno un giorno lo legga, potrà intrattenere questo qualcuno nella traversata, sarà bene. Se nessuno lo leggerà, se nessuno si intratterrà, sarà bene lo stesso”.
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