La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 17 febbraio 2009

Un libro dimenticato:
Le confessioni d’un Italiano
di Federica Passarelli

Leggere le confessioni di un ottuagenario, essere assorbiti dal suo stile elegante e sobrio nel narrare le vicende della sua esistenza, appassionarsi ai personaggi, alle storie e alle infinite capacità espressive e poetiche quali sereni come quei cieli d’autunno nei quali il sole abbellisce la natura senza scaldarla; insomma, abbracciare completamente i ricordi di gioventù sciorinati dalla penna gentile d’un vecchio e ricordarsi, mano a mano che si va avanti nella lettura, che in realtà l’io narrante altro non è che un giovane ventottenne dalla fantasia straordinaria. Bisognerebbe pure ricordare che questo giovane talento si pone di diritto tra i due più noti e applauditi romanzieri della nostra beneamata Letteratura Italiana, ossia Manzoni e Verga. Ma chi è dunque questa promessa della cultura letteraria, quest’ingegno del bello scrivere, quest’immagine scomposta che si delinea e si realizza attraverso le pagine di un libro dalla mole generosa? Si tratta, invero, anche d’un personaggio di una certa importanza storica, avendo partecipato attivamente al sogno patriottico dell’Unità d’Italia: Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!, scrive quasi urlandolo attraverso l’inchiostro stampato. Vediamo se citandovi nomi come ‘Quarto’, ‘Calatafimi’, ‘Mille’ vi tornano alla mente le gesta di quegli eroi colorati di rosso che hanno disegnato la forma della nostra penisola. Già, è proprio lui lo scrittore al quale viene affidata la viceintendenza generale della spedizione da… Garibaldi in persona! Ma adesso basta con i misteri: il romanziere che mi si è parato davanti affinché lo riconoscessi tra i mille volti della scrittura letteraria è il padovano Ippolito Nievo.

Ciò che colpisce subito di questo scrittore è, come ho detto all’inizio, la sua maestria nel raccontare vicende in realtà mai vissute – perché appartenenti ai ricordi di un ottuagenario – con una precisione disarmante che sorpassa ogni immaginazione. Dovete sapere, infatti, che Nievo muore all’età di trent’anni per il naufragio della nave che lo portava dalla Sicilia a Napoli. Mi piacerebbe darvene un esempio concreto di questo estro letterario e posso farlo soltanto attraverso la sua scrittura.

Io non sono né teologo né sapiente né filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che per quanto ignorante, può a buon dritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatré anni, figliuoli; posso dunque dire la mia. […] Molto vissi e soffersi; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e cascaggine umana, pur sollevano l’anima alla serenità della pace e della speranza quando tornano poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. […] Al limitare della tomba, già omai solo nel mondo, abbandonato così dagli amici che dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne, libero per l’età da quelle passioni che sovente pur troppo deviarono dal retto sentiero i miei giudizi, e dalle caduche lusinghe della mia non temeraria ambizione, un solo frutto raccolsi della mia vita, la pace dell’animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa io addito ai miei fratelli più giovani come il più invidiabile tesoro, e l’unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti. Un’altra asseveranza deggio io fare, alla quale la voce d’un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è, che la vita fu da me sperimentata un bene; ove l’umiltà ci consenta di considerare noi stessi come artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell’amico ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca omai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonchè essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell’essere. La pace di cui godo ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l’ardito navigatore trova un passaggio per l’oceano infinitamente calmo dell’eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà più differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad essi lega fidente le proprie colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i propri voti da compiere.

Un brivido corre dietro la schiena. Solo uno scrittore di alto livello potrebbe scrivere con questa qualità espressiva, con questa misura e con l’arte nel cuore. Solo una mente superiore potrebbe srotolare versi poetici quali La gioventù è il paradiso della vita; ed i vecchi amano l’allegria che è la gioventù eterna dell’anima. Ma questa è solo una delle tante creazioni musicali della penna padovana. Come non riferire, poi, quell’altro incanto dal sapore psicologico

Per me la memoria fu sempre un libro, e gli oggetti che la richiamano a certi tratti de’ suoi annali mi somigliano quei nastri che si mettono nel libro alle pagine più interessanti. Essi ti cascano sott’occhio di subito; e senza sfogliazzar le carte, per trovare quel punto del racconto o quella sentenza che ti ha meglio colpito, non hai che a fidarti di loro. Io mi portai sempre dietro per lunghissimi anni un museo di minutaglie, di capelli, di sassolini, di fiori secchi, di fronzoli, di anelli rotti, di pezzuoli di carta, di vasettini, e perfino d’abiti e di pezzuole da collo che corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi o dolorosi, ma per me sempre memorabili, della mia vita. Quel museo cresceva sempre, e lo conservava con tanta religione quanta ne dimostrerebbe un antiquario al suo medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll’anima mia, io non avrei che a far incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi, per tornarvi in mente tutta la storia della mia vita, a mo’ dei geroglifici egiziani.

Altro che il sapore della madeleine di Proust! Non è vero, infatti, che anche noi ci portiamo dietro pezzi della nostra esistenza, segnalibri della nostra memoria da andare a sfogliare quando abbiamo più bisogno di sentirci, di toccarci e di comprenderci? Dunque, in virtù di quanto sostiene Nievo, per non trovarsi impreparati dinanzi al varco della vita è bene conservare nella memoria non solo i momenti belli, ma anche quelli che non lo sono stati: occorre, cioè, conservare i sorrisi e le lagrime, le rose e le spine, perché solo così lo spirito s’adagerà rassegnato nel pensiero dell’ultima necessità. Ma tutta questa sapienza espressa da un lontano vegliardo quasi al limite della sua esistenza, proviene dal cuore di un formidabile ventottenne! Uno che seppe ricamare di Foscolo (proprio lui!) una sì intrepida descrizione!

Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliolo d’un chirurgo di cascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di Sant’Angelo, avea furoreggiato per sette sere filate. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. […] In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell’autor di Tieste. Allora meglio che un letterato egli era il più strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazione universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell’eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantoché avrebbe scritto a tu per tu una lettera di consiglio all’Imperator delle Russie e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de’ suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano così facilmente né all’apatia né alla morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta.

E che dire? A questo punto mi chiedo come mai uno scrittore di tale levatura sia così poco considerato tra i banchi di scuola.
Certo, lo so. Non voglio assolutamente declassare le virtù dello scrittore del ramo di Como, o non riconoscere il dovuto rispetto all’imponente espressione del verismo verghiano, ma signori! È forse opportuno lasciare nel cassetto un romanzo tanto completo come Le confessioni d’un Italiano? Questo libro possiede tutte le qualità, tutta la passione, tutto l’amore. Non c’è forse abbastanza spazio per contenere la grandezza di Ippolito Nievo? Il mio non è un monito, è piuttosto un invito. Un invito a riconoscere a questo brillante scrittore il posto che merita nella biblioteca della nostra Letteratura. Chi ama davvero le arti letterarie non può fare a meno di apprezzare il profumo talentuoso che promana dalla sua scrittura. Inoltre, lasciatemi aggiungere che se si considerasse con più attenzione anche il suo traboccante ardore per l’ideale della Patria! quali colori ne verrebbero fuori! Magari il trittico della bandiera potrebbe ritornare vivido almeno durante la lettura visto che oggi sempre di più tende a sbiadire senza possibilità alcuna di salvezza.
Ed ora vi lascio facendovi raccogliere gli ultimi pensieri celebri e oserei dire futuristici del mio amico Carlo Altoviti-Ippolito Nievo

Ed ora che avete stretto dimestichezza con me, o amici lettori, ora che avete ascoltato pazientemente le lunghe confessioni di Carlo Altoviti, vorrete voi darmi l’assoluzione? Spero di sì. Certo presi a scriverle con questa lusinga, e non vorrete negare qualche compassione ad un povero vecchio, poiché gli foste cortesi di sì lunga ed indulgente compagnia. Benedite, se non altro, al tempo nel quale ho vissuto. Voi vedeste come io trovai i vecchi ed i giovani nella mia puerizia, e come li lascio ora. E’ un mondo nuovo affatto , un rimescolio di sentimenti di affetti inusitati che si agita sotto la vernice uniforme della moderna società; ci pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia.

Non abbiate timore di attribuire al nostro connazionale l’importanza che merita. Perché se è vero che abbiamo avuto pochi grandi romanzieri, Ippolito Nievo non può non appartenere a tale limitato novero. Per amor di patria riconosciamo il merito ad uno che ha contraddistinto i caratteri salienti della nostra letteratura, così da renderla pari a quella greca e a quella russa che a parer mio occupano un posto d’onore sull’olimpo dell’arte letteraria.

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