La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



giovedì 20 febbraio 2014

La società europea e i suoi nemici



Uno spettro si aggira per l’Europa  Le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo sono solitamente intese dagli analisti politici come un importante esame di valutazione dei governi nazionali, piuttosto che come la più compiuta espressione di linee di pensiero conservatrici o riformiste, all’interno dell’opinione pubblica, in merito ai grandi temi delle politiche sociali e dei diritti civili. La posta in palio sembra dunque essere il consenso governativo. A dire il vero, il prossimo appuntamento elettorale avrà di certo significati più profondi; si preannuncia infatti come il banco di prova della stabilità istituzionale della macchina europea. Nel Vecchio Continente si scorge con chiarezza, pur nella confusione nebulosa che appare ovunque imperante, una galassia chiaroscura di movimenti e partiti contestatari ed anti-sistema, rancorosi e corrosivi, che erodono il bacino elettorale delle forze responsabili di ispirazione popolare, socialista e liberaldemocratica e soprattutto assorbono il torpore astensionista. Pur essendo spesso distanti fra loro per formazione e vocazione, privilegiano i motivi condivisi nell’aspettativa di contare qualcosa, o meglio di condizionare qualcuno. Gli indignados spagnoli, gli indipendentisti inglesi dell’Ukip, i frontisti francesi di madame Le Pen, i patrioti fiamminghi del Vlaams Belang, gli scettici olandesi del Pvv e quelli austriaci del Team Stronach, i popolari danesi del Dvp, i neofascisti ungheresi di Jobbik, i veri finlandesi, gli alternativisti tedeschi, e per quel che riguarda l’Italia, i leghisti superstiti e i seguaci ortodossi di un guitto che non fa più ridere, vivono di slogan monocordi contro i flussi migratori, l’euro, la Comunità Europea (che assimilano al consiglio di amministrazione di una società occulta, composto da banchieri, faccendieri e squali della finanza). Se i nemici dell’Europa ricevessero il consenso loro accreditato dai sondaggi più attendibili e stringessero un’alleanza strumentale sui banchi parlamentari, indurrebbero il Pse e il Ppe a ricorrere a larghe intese piuttosto che a convergenze parallele, in nome della tenuta del sistema istituzionale. Ed è noto che barricadèri spregiudicati e declamatori furibondi di monologhi demagogichi spendono parole incendiarie contro le coalizioni emergenziali; eppure le desiderano ardentemente, perché sembrano avvalorare la tesi, a loro carissima, dell’equivalenza degli altri, l’assioma del qualunquismo.
Anatomia dell’odio  I nemici dell’Europa sono associati da un sostrato comune, vale a dire un’evidente matrice populista che li induce a replicare ad oltranza gli stessi gesti e a identificarsi in «adulatori di popolo» (così li chiamerebbe Aristotele) oltremodo carismatici e persuasivi. La storia insegna che il populismo è un effetto collaterale della crisi economica, o meglio il suo sintomo politico. Di qui la sua attualità, che feconda le aspettative dei nuovi estremisti. I populisti curano con particolare attenzione la comunicazione e semplificano i problemi, dato che mirano a  far presa – nel disorientamento complessivo – su cittadini spenti dalla cupezza epocale e quindi incapaci di sperare. La dilatazione della sfiducia nel mondo dà libero sfogo a sentimenti eversivi. E se il messaggio deve essere immediato e univoco, ne deriva una malcelata intolleranza nei confronti del dissenso interno e delle critiche esterne e uno svagato disprezzo per gli assetti costituiti. Inoltre si adeguano agli istinti predominanti, non trascurando l’emotività, e divulgano un lessico del disincanto e dell’irriverenza che marca distanze lontanissime dagli altri, gli untori del disagio sociale. Si può fare riferimento a un hate speech intessuto di rabbia e risentimento, talmente caustico da svalutare l’avversario sul piano della ridicolizzazione personale. Si lascia intendere dunque che non possono darsi davvero alternative degne di considerazione. I populisti ambiscono al bando di ciò che non è popolo, vale a dire le classi dirigenti (per quanto elette democraticamente) fraintese come una casta parassitaria e corruttrice, per di più asservita a un invisibile regime tecnocratico. Il non popolo è degno di distruzione, in quanto covo di cospirazioni permanenti, in uno scenario a tinte foschissime, quasi apocalittico. Talora i movimenti populisti nascono a sinistra per morire a destra; più in generale sanno toccare le corde della trasversalità, camuffandosi sotto vesti civiche, tutt’altro che pesanti e quindi adatte per tutte le stagioni. Il più delle volte sfuggono ad assunzioni di responsabilità: nella misura in cui evitano confronti o compromessi con gli altri consolidano il loro manicheismo di base, e soprattutto non sporcano le mani, lasciandole accuratamente in tasca. Del resto, come amava ripetere l’ambasciatore brandeburghese a Jena, nella seconda metà del Seicento: “chi non fa niente, non ha niente da temere”. Eppure quando nei territori conquistano un comune o un ente locale, ricorrono senza esitazioni al realismo machiavellico, non diversamente da amministratori di formazione cristianodemocratica o socialdemocratica.
Il sale sulle macerie  I populisti alla conquista del Parlamento di Strasburgo non credono nell’Europa, anzi la considerano la madre matrigna deprecabile in quanto responsabile, con i suoi precetti vincolanti all’insegna della più rigorosa austerity, della fame del popolo. Il loro ricettario minimale non può non favorire sentimenti nostalgici verso il tempo perduto, quando (forse) si stava bene: a loro interessa la restaurazione di una moralità, ovvero la riabilitazione di un determinato stile di vita vinto dalla storia. Di qui l’inesorabile sfascismo dovuto alla mancata accettazione, forse per un difetto di comprensione, della complessissima società postmoderna che non solo è aperta e plurale ma anche liquida (come ha insegnato Zygmunt Bauman). Ma la sfida dei nostri giorni è costruire su macerie, non spargervi sale, ovvero sperare senza essere disperati. Come appuntò Franz Kafka nei suoi diari, non v’è nulla di peggio del disordine, soprattutto quando si è al cospetto di competenze esigue. Una denuncia fine a se stessa, del tutto spoglia di slanci propositivi, non è altro che un guscio vuoto, il prezzo di un’illusione, un investimento a fondo perduto a favore di speculatori della tristezza.

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