La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 13 gennaio 2009

Cronaca di un incontro al neon

Sono ormai diverse ore che penso ad un mio carissimo amico. Lo penso con insistenza perché sono consapevole del fatto di non avere l’opportunità di chiamarlo. Se digitassi il suo numero di cellulare, il nastro mi comunicherebbe che il cliente contattato non è al momento raggiungibile. Il mio amico non è mai raggiungibile. Non ha un contatto msn, né un indirizzo di posta elettronica. Non è, tuttavia, una proiezione immaginaria. Ormai non ho più l’età per coltivare un’amicizia da diario segreto. Il mio amico è in convento da un anno. Sta affrontando il noviziato. Per questa ragione subisce notevoli restrizioni: deve subire sulla sua pelle gli effetti comportati dalla vita monastica sull’equilibrio psicofisico. È un anno duro per lui, sottoposto ad un addestramento spirituale. M. deve in definitiva capire se è davvero compatibile con i rigori del regime cenobitico. Non c’è differenza fra il sabato sera e il giovedì mattina e il desiderio erotico deve evaporare in un amen, Deo gratia. Gli incontri con i familiari sono diluiti in un ricettacolo di occasioni non ricercabili. I contatti con gli amici carissimi sono battuti in comunicazioni epistolari sobrie e misurate. Sono attento quando scrivo una lettera al mio amico, peso le parole, seleziono i verbi, valuto gli aggettivi, perché so per certo che, prima dell’eventuale consegna al destinatario, la mia lettera è già stata sottoposta ad un raffinato processo di esegesi scritturale.
Sono ormai diverse ore che penso, dunque, a M. Ho qui davanti a me la sua ultima bellissima lette
ra, gli voglio molto bene, autenticamente bene. Mi comunicò con diversi mesi di ritardo la sua scelta di entrare in convento, di farsi francescano minore. Era il giorno di Pasqua. Non lo sentivo dal luglio precedente perché si era reso volutamente irreperibile. Stavo per scandire il mio biasimo. Mi interruppe, dicendomi, con un filo di voce, visibilmente imbarazzato: “C’è una novità. Devi sapere che ti sto chiamando dal convento di . . . Vivo qui da settembre”. In quel momento mi resi conto di non aver dato un’importanza significativa al suo crocifisso ostentato, alle sue posizioni politiche ultra-conservatrici (al cospetto delle quali la Binetti del PD sembrerebbe una socialist), alla sua passione esagerata per gli scritti di S. Tommaso d’Aquino e di Duns Scoto, all’attrazione che provava per la scolastica francescana. Sono cascato ingiustamente dalle nuvole. Il suo percorso era tracciato. Mi ricordo di avergli detto, più o meno: “M. hai fatto una scelta di vita difficile, tutt’altro che scontata. L’hai fondata sul tuo talento intellettuale e sull’analisi critica su cui ci siamo esercitati negli ultimi anni. Apparentemente la tua sembrerebbe una scelta contro il mondo, se per mondo intendiamo il teatrino delle vanità messo in scena ripetutamente in TV. In realtà, la tua è una scelta di libertà che non è appagata dalla sete di Dio che ti ha condotto nell’oasi spirituale di . . ., da cui mi chiami ora, posta in un deserto di valori e di emozioni, in cui anche io erro come un beduino. (Ti dico questo pensando a mio padre che l’altro giorno, dopo una delle frequenti discussioni, mi ha detto: ma non ti rendi conto, Francè, che stai facendo il deserto intorno a te?) Se i Greci avevano un pò ragione nel sostenere che la vita buona tende all’eudaimonia, la tua è allora anche una scelta di felicità, inclinata dalla piena valorizzazione del tuo essere profondissimo e ricchissimo. Soltanto ora posso dirti che la tua anima tende a Dio come la volta di una cattedrale gotica francese. La tua vita spirituale non avviene al buio. E’ risaputo che nelle strutture gotiche le ampie vetrate riflettono la bellezza del mondo. Sei anche entusiasta: la scintilla di Dio, di cui parla Meister Eckart, riluce in te e si riflette anche su chi, come me, ti vuole bene”. Non mi interruppe e rimase in un religioso silenzio.
Ripenso dunque a M., al nostro ultimo incontro, ovviamente casuale. È avvenuto a Roma, diverse settimane fa. Lui era lì per una settimana di ritiro spirituale in una struttura nei pressi di via Veneto. Avendo la necessità di reperire una recensione inedita di Leibniz, apparsa nel tardo ‘600 sul Journal des Savans, io ero diretto, invece, alla Biblioteca Casanatense, distante
due passi dalla chiesa di sant'Ignazio di Loyola. Ci siamo incontrati in un punto di snodo della metropolitana fra la linea A e la linea B, Stazione Termini. L’ho riconosciuto subito, nonostante fosse dimagrito visibilmente e avesse una barba da sacerdote ortodosso. Fra flussi di gente che ci spingeva, lo afferrai per un braccio fino a stringerlo fra le mie braccia, senza concedergli neanche il tempo di comprendere cosa gli stesse succedendo.
Il nostro incontro ha un carattere staordinariamente letterario. Ci siamo incontrati, infatti, in un non-luogo sotterraneo, in una fuga di transito, dove regna l’indifferenza più marcata, dove l’animo metropolitano afferma con decisione, fondandolo, il proprio carattere impersonale. In quelle caverne, nessuno guarda l’altro, nessuno ascolta l’altro, ognuno corre per il proprio sentiero di attese e disillusioni, negando ogni considerazione aggiuntiva. La massa fluente che entra ed esce dalla metro è una composizione aritmetica, oltremodo banale, di tanti satelliti solitari. Noi abbiamo infranto il senso o, per certi versi, il non senso di una metropolitana. Ci siamo incontrati, abbiamo parlato, ci siamo scambiati autentico affetto. Abbiamo interrotto il flusso dell’indifferenza, linfa di un individualismo sfrenato ed arrogante, che ha ormai del tutto contagiato la nostra società, riducendola ormai ad un corpo inerme su cui si accaniscono diversi avvoltoi, autoimmuni rispetto ai germi del nichilismo che diffondono agendo come untori pestiferi. È vero, come sostiene M., il mondo è davvero anarchico, regna ovunque la logica del disorientamento, della vertigine, asservita alla promozione delle scorciatoie che dovrebbero condurre ad effimere soluzioni di felicità che non sono altro che forme di alienazione e di decomposizione dell’autentica vocazione dell’anima.

In ogni modo, a variare sono la prospettiva e la funzione che si affidano al mondo, l'atteggiamento che si adotta sulla scena degli eventi. E' il registro interpretativo che assumiamo a renderci unici. M. combatte la sua battaglia ideale fra paternoster e giaculatorie notturne. Io preferisco la trincea, nella frontiera di periferia, proiettando lo sguardo ad altezza d’uomo, perché la volta celeste è troppo alta per le mie ali di cera e non so afferrarla intrecciando le mani. Vinta l'emozione dell'incontro, da lui collegata alla benevolenza del Creatore, da me ad un inganno del caso, M. si è voltato per raggiungere la Linea A, mentre io ho preso al volo l'ultima corsa della Linea B, pensieroso più che mai.

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