La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 2 agosto 2011

Iossio, venafrano dimenticato

(Primo piano Molise, 3 agosto 2011, p. 16)


C’è chi ha inteso la ricerca filosofica come il tentativo di gettare nuova luce su espressioni del pensiero «alienate» dagli orientamenti storiografici, ponendole così in primo piano rispetto ai grandi sistemi, che sono tecniche del «potere» applicate alla fondazione di identità culturali forti. In tal senso, l’esercizio speculativo si converte in un gesto «archeologico».


G. W. Leibniz (1646-1716) fu uno degli esponenti più influenti del pensiero filosofico e scientifico della modernità, forse l’ultimo «genio» europeo. Si occupò di molteplici piani tematici, anche decisamente differenti fra loro, lasciando contributi influenti: scoprì indipendentemente da Newton il calcolo infinitesimale, progettò una delle prime macchine calcolatrici (archetipo del computer), si spese per la riconciliazione dei cristiani nel segno di un’unica Chiesa universale, fu il massimo rappresentante del razionalismo del XVII secolo. Inoltre, si interessò con profitto a problemi di fisica, astronomia, medicina, diritto, etica, politica, storia, non trascurando l’osservazione dei dettagli e lo sviluppo delle intuizioni. L’enciclopedismo presupponeva comunque un’autentica passione per le biblioteche e le raccolte librarie: si formò da autodidatta nella ricchissima biblioteca del padre (austero docente universitario); fra le mansioni cortigiane che assolse presso il duca di Hannover emergeva soprattutto quella di bibliotecario e storico di corte e, inoltre, nel corso della sua vita compose un considerevole fondo librario privato. Nel febbraio 1663, il diciassettenne Leibniz acquistò sul banco di un mercante in occasione di una delle grandi fiere librarie di Francoforte (oppure di Lipsia) uno dei primi volumi per la propria biblioteca personale: la seconda edizione del Tractatus novus, utilis et jucundus, de Voluptate et Dolore, de risu et fletu, somno et vigilia … (typis Wolffgangi Richteri, sumptibus Ioannis Theobaldi Schonwetteri, Francofurti 1603) di Venafranus Jossius, al quale era allegato, per affinità tematica, il notevole trattato sul riso di Antonio Lorenzini Poliziano.



Venafranus Jossius era senza dubbio Nicandro Iossio, filosofo e medico originario di Venafro attivo nella seconda metà del Cinquecento. Insegnò filosofia a Roma, dove nel 1580 fu pubblicata «apud Franc. Zanettum, in 4» la prima edizione del Tractatus. Lo studio di Iossio esprime in maniera lineare i caratteri distintivi propri dell’aristotelismo rinascimentale, intriso di sfumature naturalistiche, svelando comunque una propria originalità nella presentazione di una spiegazione gnoseologica delle facoltà sensoriali e di un’interpretazione «psicologica» del riso e del pianto. Il Tractatus ebbe una buona fortuna: l’edizione tedesca postuma (1603) contribuì alla circolazione dello scritto negli ambienti culturali europei. Certamente Iossio fu letto nel Sacro Romano Impero, in Francia e in Inghilterra: non solo Leibniz, ma anche Gabriel Naudé, bibliotecario del cardinale Mazzarino, e Robert Burton, il celebre autore di The Anatomy of Melancholy (Oxford 1621) possedevano, ad esempio, una copia personale dell’opera. La fortuna seicentesca si estinse progressivamente. Il Tractatus è stato incautamente «rimosso» dalla ricerca storiografica: non ne è mai stata elaborata un’edizione critica o una traduzione, né si riscontrano monografie sul pensatore venafrano. Le ricerche più esaustive concernenti la storia del pensiero scientifico tardo-rinascimentale si limitano a citare il volume in nota, senza offrire elementi di contestualizzazione. L’Enciclopedia Filosofica Bompiani, preziosa per la completezza delle informazioni che fornisce anche su autori «minori», non dedica al Tractatus neppure un rigo dei suoi venti volumi. Nicandro Iossio è stato dimenticato anche nella sua cittadina d’origine. Quanti studenti locali hanno avuto l’occasione di sentirlo nominare? La toponomastica (che rappresenta un indizio prezioso per apprendere lo «spirito culturale» di un centro urbano) l’ha relegato in una via gregaria, breve, stretta, in salita, persino priva di indicazione stradale. Si tratta di un riconoscimento inutile.



La ricerca filosofica, dunque, può restituire un volto a percorsi del pensiero significativi e valevoli, che sono stati condannati all’oblio per pregiudizio ideologico» o, peggio ancora, per assenza di profondità.

Nessun commento:

Posta un commento