La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammetteGeorges Canguilhem
domenica 13 novembre 2011
sabato 12 novembre 2011
venerdì 28 ottobre 2011
giovedì 6 ottobre 2011
Sono affezionato a Cassino, la considero la mia seconda città. Per questa ragione, sono felice di aver offerto il mio contributo per organizzarvi, dopo tre anni, un secondo convegno leibniziano. Proprio a Cassino, dove i corsi universitari di Filosofia sono stati falcidiati dal ministro Gelmini. Ho sempre trovato un gusto particolare nell’andare à rebours: cosa può esserci di più significativo e di più libertario del riportare un po’ di luce laddove i barbari hanno fatto calare le tenebre? Proprio a Cassino, dove ho studiato per cinque anni. A Cassino dove pochi giorni fa si è spento un amico. La cancellazione di un nome dalla rubrica è un gesto drammatico, poiché è indotto da una tensione inderogabile, definitiva, finale, che coincide con la consapevolezza di un contatto troncato dal caso. A Cassino, che inizia ad essere sfumata dalla nebbia, sopravvivevano vaghe idee di socialismo, prime delle lezioni, dopo gli esami, fra un caffè e uno sbadiglio. Addio Antonio, riposa in pace.
giovedì 15 settembre 2011
Benché continui a far vistosamente caldo, vorrei salutare l’estate. Lo faccio magari per propiziare l’arrivo dei primi temporali, perché vorrei vedere ovunque cimiteri di foglie. Fra le funzioni che dovrebbero legittimare l’esistenza di un blog rientra la promozione di idee alternative ai dettami dell’opinione pubblica cara al regime democratico e alle potenti consorterie faziose che vorrebbero condizionarli, ma anche di «chicche» artistiche note a pochissimi cultori, gioielli abbandonati in nicchie dimenticate. Così, mi è tornata in mente una ballata struggente, capace di distillare malinconia nella sospensione del tempo, qual è Il tuffatore (1982), il capolavoro di Flavio Giurato, fratello del più noto Luca, carnevalesco personaggio della TV generalista, che ha riconosciuto nello stupro linguistico il copione del suo successo ventennale. Flavio ha creato poesia per pochissimi estimatori, mentre Luca ha fatto giornalismo di quinta fascia per le masse incolte. Ovviamente Flavio è sconosciuto ai più. Se Flavio non avesse subito il fardello della popolarità di un fratello tanto ingombrante e sgrammaticato, sarebbe (forse) diventato un interessantissimo artefice della canzone italiana d’autore di più alto spessore. Saluto l’estate 2011, sognando di essere un tuffatore…
lunedì 12 settembre 2011
Non è che volessi proprio starlo a sentire. Ma mi osservava, mi scrutava. Lui a me! Mostrando indifferenza continuavo a cercare tra gli scaffali e mentre frugavo tra mille titoli mi pareva dicesse: “Sì, sì. Cerca, cerca. Ti dico che non troverai nulla e dovrai riabbassare lo sguardo verso di me. T’ho vista che mi guardavi!”. E bè, sì. Lo guardavo, ma chissà perché, m’ero messa in testa che non dovessi interessarmene. Ho cambiato scaffale e sebbene non riuscissi più a vederlo, era come se ci fosse un’energia strana che mi attirava verso di lui. Avete presente l’energia della calamita? Comunque, continuavo a inventariare titoli senza trovarne uno che mi andasse a genio e mentre spulciavo tra le varie copertine chi va a pararmisi davanti ? pensavo d’averlo debellato e invece m’è capitato davanti il fantasma di Simone Simonini e allora ho svicolato alla chetichella senza farmi vedere! Viaaa! Chi è Simone Simonini? Oh, bè. Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare ed io non voglio proprio raccontarvela. Sappiate soltanto che se dovessero capitarvi tra le mani i diari dell’abate Dalla Piccola e i contro diari di Simone Simonini bruciateli senza temere di incappare in una maledizione! Ho il dovere – da lettrice – di mettervi in guardia a proposito de Il cimitero di Praga di Eco. Anatema sul professore! Accidenti, che il diavolo se lo porti. Che megalomane, è riuscito comunque a far parlare di sé. E io che volevo raccontarvi un’altra storia.
Ma torniamo al mio incontro. Dunque, continuavo a spulciare tra titoli copertine e scaffali quando proprio non ho più resistito. Gli sono andata incontro e ho cominciato a sfogliare le prime pagine. Ecco, ti pareva. Che dice? “Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo”… sì, vabbè. Mi vuoi convincere a stare ad ascoltarti. Decido di comprarlo. Intanto, mentre tergiversavo tra altri libri, mi giravo e rigiravo quello tra le mani. È che proprio… Non è che il titolo mi ispirasse molto… Canale Mussolini… Mus…soli…ni…, no-no-no. L’ho risistemato al suo posto, nello scaffale. Però continuavo a ripensare a quello che avevo letto dopo la prefazioncina della prima pagina (di solito prima di acquistare un libro dò un’occhiatina veloce all’incipit del libro - ossia, alle prime righe del primo capitolo - così, giusto per farmi un’idea. Ma un’occhiatina piccola piccola!). Sono tornata indietro e mi sono detta: “ Mah, dopo il cimitero di Praga posso leggere qualunque cosa!”. “Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no?”. E’ così che ho iniziato ad ascoltare la storia della famiglia Peruzzi, di zio Pericle, zio Adelchi e dei nonni.
Che eccellente narratore! Non ho staccato un attimo l’orecchio dal suo racconto e perciò il libro l’ho divorato in tre giorni. Romanzo godibilissimo, strutturato secondo un caleidoscopio di memorie, scrittura scorrevolissima (sebbene s’incontrino spesso espressioni in dialetto veneto, peraltro comprensibilissime), quattrocentocinquantacinque pagine senza un attimo di noia (argomento, questo, assolutamente presente nel racconto di Simone Simonini!, ancora lui, maladéto tì e i Zorzi Vila!). Istigatore dell’animo umano quando mi racconta la preparazione dei cappelletti della nonna: sì, ho ritrovato in ogni rigo le sensazioni, gli odori e i colori dell’ infanzia trascorsa coi miei nonni. Addirittura poeta, per il piacere che esalta nel descrivere l’orgoglio della gente quando ricorda i campanili del proprio paese: “Era un ristoro quando in campagna - sotto il sole, a zappare le bietole - sentivi il tocco delle ore e tutti rialzavano la schiena, e asciugandosi la fronte mandavano lo sguardo al campanile. Non serviva solo come punto d’orientamento - che pure è già importante, in mezzo al piano sterminato della Valpadana - ma era il punto d’ancoraggio a cui attaccare l’anima, perché era grazie a lui che tu sapevi di non essere solo in mezzo a questo piano e che in caso di necessità avrebbe suonato le sue campane e tutti sarebbero accorsi per darti e darsi aiuto”. Non è poesia? Personalmente ritengo di sì, e checché ne dica Maurizio Cucchi!
Mi è piaciuto il pensiero sul viaggio espresso così: “In ogni viaggio c’è sempre - prima - la bramosia del nuovo, la fretta d’arrivare, lo svagarsi del trambusto. Ma poi si fa strada l’ansia di ciò che t’aspetta, il timore di quel che non t’aspetti e l’indolenzimento delle ossa sulle panche di legno dei sedili, la nostalgia di ciò che hai lasciato, la gente che non vedrai mai più, la voglia di continuare a dormire senza più svegliarti - dormire nonostante i raggi di sole che dal finestrino ormai ti infastidiscono gli occhi - e vorresti che il viaggio non finisse più. Invece no: “Strìììììì…”. Giù dalle carrozze!”. Molto pirandelliano, devo dire. E non solo questo. Ho trovato una forma pirandelliana anche nello stile della narrazione, ossia, quel raccontare la storia al lettore ponendoselo di fronte e dandogli del lei.
Comunque, il filò è giunto poi al termine. Volete sapere cos’è il filò,nevvero? Avete ragione e vi accontento subito. Il filò appartiene alla tradizione veneta e consisteva (uso l’imperfetto perché credo che oggi sia stato surclassato da un’altra tradizione, quella televisiva con le sue banalità) nel “riunirsi tutti a sera, dopo cena, ora in un podere ora in un altro a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio”. Il filò è dunque terminato davvero, ma c’è ancora qualcosa che mi svolazza intorno alla testa come fosse il ronzìo d’un ape. Ad un certo punto della storia, zio Pennacchi mi racconta che zia Santapace volendo quasi assecondare un desiderio della nonna, decide di mandare in seminario i suoi due figli: Manrico e Accio. Accio Benassi. Ma caro il mio zio Pennacchi, questo Accio Benassi non è per caso il protagonista di un’altra tua storia? E certo! Che furbata! Ora, vedi, non posso proprio fare a meno di chiederti di riunirci ancora per un altro filò, quello del Fasciocomunista Accio Benassi! E allora devo correre di nuovo in libreria (col rischio di scontrarmi di nuovo con Simone Simoni...! Ma stavolta gli tiro in testa il Canale Mussolini di Antonio Pennacchi che ha pure vinto il sul bel Premio Strega l'anno scorso). Eccola l'ape che mi ronzava intorno. Però, zio Pennacchi, che fiòl d’un can!!
venerdì 12 agosto 2011
«Sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia…»
Internet ha contribuito in maniera definitiva a livellare le differenze fra il centro e le periferie, nel senso che un computer connesso alla Rete da un paesotto arroccato su un monte dimenticato diventa il centro del mondo. La connessione telematica annulla, così, il senso del ritardo (nell’apprendere notizie, nell’adeguarsi alle mode, etc…), che tradizionalmente hanno reso problematico il vivere in provincia: un ragazzo residente in corso Buones Aires a Milano e un suo coetaneo che consuma vuote giornate in un quartiere popolare di un paesino sconosciuto ai più si vestono nello stesso modo, ascoltano la stessa musica, coltivano le stesse fantasticherie, parlano lo stesso «linguaggio» (inflessioni dialettali, a parte). La specificità della vita provinciale è l’inevitabile condivisione degli spazi urbani con la solita gente di sempre. Grazia o tedio a morte? Direi, gran seccatura, che richiede una logica della sopportazione… Bisogna schivare gli sguardi indiscreti e le civetterie di circostanza, tollerare i comportamenti autoreferenziali e soprattutto una molteplicità di considerazioni arbitrarie fondate su una radicata (ma ingiustificata) autostima oppure su clamorosi errori di valutazione reiterati negli anni. Come si sa, poi, i piccoli centri hanno in comune con i vecchi una tendenza al conservatorismo. Come sopravvivere, dunque, nella provincia della provincia, in cui «moriamo ogni giorno dei medesimi mali», «siamo tutti uguali, siamo cattivi e buoni e abbiamo gli stessi mali, siamo vigliacchi o fieri, saggi, falsi, sinceri, coglioni»? Proprio così, perché lo spirito comunitario è fasullo, un gioco di facciata e ognuno vive dei propri egoismi… Dunque, come sopravvivere? Mi viene in mente un pensiero di Antonio Gramsci, tratto dalla lettera al fratello Carlo del 12 settembre 1927: «bisogna sempre essere superiori all’ambiente in cui si vive, senza perciò disprezzarlo o credersi superiori».
Internet ha contribuito in maniera definitiva a livellare le differenze fra il centro e le periferie, nel senso che un computer connesso alla Rete da un paesotto arroccato su un monte dimenticato diventa il centro del mondo. La connessione telematica annulla, così, il senso del ritardo (nell’apprendere notizie, nell’adeguarsi alle mode, etc…), che tradizionalmente ha reso problematico il vivere in provincia: un ragazzo residente in corso Buenos Aires a Milano e un suo coetaneo che consuma vuote giornate in un quartiere popolare di un paesino sconosciuto ai più si vestono nello stesso modo, ascoltano la stessa musica, coltivano le stesse fantasticherie, parlano lo stesso «linguaggio» (inflessioni dialettali, a parte). La specificità della vita provinciale è l’inevitabile condivisione degli spazi urbani con la solita gente di sempre. Grazia o tedio a morte? Direi, gran seccatura, che richiede una logica della sopportazione… Bisogna schivare gli sguardi indiscreti e le civetterie di circostanza, tollerare i comportamenti autoreferenziali e soprattutto una molteplicità di considerazioni arbitrarie fondate su una radicata (ma ingiustificata) autostima oppure su clamorosi errori di valutazione reiterati negli anni. Come si sa, poi, i piccoli centri hanno in comune con i vecchi una tendenza al conservatorismo. Come sopravvivere, dunque, nella provincia della provincia, in cui «moriamo ogni giorno dei medesimi mali», «siamo tutti uguali, siamo cattivi e buoni e abbiamo gli stessi mali, siamo vigliacchi o fieri, saggi, falsi, sinceri, coglioni»? Proprio così, perché lo spirito comunitario è fasullo, un gioco di facciata e ognuno vive dei propri egoismi… Dunque, come sopravvivere? Mi viene in mente un pensiero di Antonio Gramsci, tratto dalla lettera al fratello Carlo del 12 settembre 1927: «bisogna sempre essere superiori all’ambiente in cui si vive, senza perciò disprezzarlo o credersi superiori».
martedì 9 agosto 2011
Qualche giorno fa ho partecipato al funerale della madre di una vecchia amica di famiglia. Benché la città fosse spopolata da più di una settimana per l’esodo vacanziero, la chiesa era gremita di corpi provati dalla calura, nell’ora della siesta. Non ho trovato posto. Sono rimasto così appoggiato a una delle prime colonne della navata centrale. Da lì ho seguito con attenzione ogni aspetto del rituale: la costernazione delle figlie orfane, la partecipazione di un gruppo considerevole di amici e conoscenti, le letture incerte e quasi balbettanti del diacono, i nastri canterini in sostituzione del coro sparpagliato sulle coste più vicine. Certamente, ho ascoltato con particolare interesse l’omelia consolatoria del parroco, che è piuttosto noto per la tempestività delle sue prove retoriche. Ero così pronto ad ascoltare le consuete nenie del martirio, ritornello conciliante dell’anestesia cristiana risolto in una manciata di minuti. Mi sbagliavo: la grande affluenza e il legame amichevole con i parenti dell’estinta l’hanno indotto a prolungare l’omelia oltre i limiti del buon senso: venti minuti di prolusione dottrinaria, che ha assunto in alcuni tratti i connotati propri del monologo di un evangelizzatore perdente, che vorrebbe essere sbranato dai lupi per essere ricordato da qualcuno. Nessuno fra voi crede realmente nella vita dopo la morte! Un missionario smarrito fra orde barbariche, pagane e idolatriche, il detentore dell’assolutezza della Verità in una comunità di finzioni e dissimulazioni: esercizi di pensiero per incrementare l’autostima, ovvero il senso di sé. Gli scienziati si stanno impegnando per risolvere la vita con una siringa! Tono da comizio, esaltazione del cuore nell’abisso di pensieri perdenti. Qual è il senso di una provocazione pronunciata da un sostenitore ardito delle ragioni della bioetica cattolica al cospetto di una bara, di occhi gonfi di sofferenza? La dilatazione della tristezza. La strumentalizzazione di una tomba in esposizione per fini di mero proselitismo, ovvero la riduzione di una vita a materia di catechismo è l’assurdità della violenza psicologica, che contraddistingue l’attività di numerosi sacerdoti. Il fervore pretesco non ha dedicato neppure una parolina alla defunta: non è stato offerto alle figlie, ai parenti, agli amici, a me – appoggiato con la fronte corrucciata all’ultima colonna – neppure un motivo per ricordare per sempre quella vita, non disperdendola con il passare dei mesi nella fretta delle pratiche della vita quotidiana. La pietà cristiana si è manifestata sotto altre vesti: nella commozione dei presenti, negli abbracci amorevoli degli amici, nell’estinzione dell’odio per la vita nel caldo incenso che ha reso opprimente l’ambiente, nel rintocco monocorde e straziante della campane che ricordava a una città intorpidita che un’altra sua figlia è sparita. Il cuore cristiano è compassionevole: la com-passione è la condivisione della sofferenza, vale a dire la cifra dell’autentica simpatia. Mi viene in mente, al riguardo, un passo tratto da Soi-même comme un autre (1990), uno dei volumi più coinvolgenti del compianto Paul Ricoeur: «La sofferenza non è definita unicamente dal dolore fisico, e neppure dal dolore mentale, ma dalla diminuzione, e anche dalla distruzione della capacità di agire, di poter fare […]. Qui, l’iniziativa, precisamente in termini di potere-di-fare, sembra spettare unicamente al sé, che dona la sua simpatia, la sua compassione […]. Nella vera simpatia, il sé […] si ritrova affetto da tutto ciò che l’altro sofferente gli offre di contro. Dall’altro sofferente, infatti, procede un dare che non è, precisamente attinto dalla potenza di agire e di esistere, ma dalla sua stessa debolezza. È forse là la prova suprema della sollecitudine, che la disuguaglianza di potenza venga ad essere compensata da un’autentica reciprocità nello scambio, la quale, nell’ora dell’agonia, si rifugia nel mormorio condiviso delle voci e nella debole stretta di mani che si serrano insieme». Nella chiesa affollata, nell’ora più calda del pomeriggio in una giornata agostana di desolazione e solitudine, tanti cuori cristiani hanno accolto la debolezza di una famiglia costernata dal lutto per offrire in cambio compassione e sollecitudine, mentre un venditore di tristezza ha tentato di distruggere del tutto la capacità di agire dei sofferenti per issare un vessillo nero.
lunedì 8 agosto 2011
Credo che ognuno di noi abbia la sua Casa in collina, ossia, un rifugio, un nascondiglio, un posto che si può soltanto visitare con la memoria perché la vita ha virato verso altri luoghi, altre strade, altri suoni. Cos’è che ha spinto il sig. Rossi ad anticipare la sua vecchiaia, ad abbandonare la sua musica dal vivo, l’incontro con i suoi imperituri ammiratori? Ha vissuto la sua vita attraverso gli eccessi della droga, le scorrerie dell’alcol, l’esasperazione del successo e… l’invadenza della solitudine. Un artista è sempre solo. Quando crea, quando inveisce, quando esprime la sua arte, quando elabora il suo ardore. Ma è solo. E quando lo intuisce è tardi, è trascorsa una vita senza che se ne sia accorto e allora tenta di riafferrare le fantasie e l’entusiasmo dell’adolescenza ma si perde mentre va alla ricerca della sua casa in collina. Eppure c’è quella casa, esiste quella collina, solo, il nocciolo che svettava lì in lontananza pare assorbito dalle pieghe del tempo e allora si perdono le certezze, la varietà della vita e dei discorsi intorno ad essa. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (C. Pavese, La luna e i falò). L’uomo è continuamente alla ricerca di se stesso e sa di potersi rintracciare nella stradina mal ridotta che conduce verso la propria collina lì, dietro quel casolare di campagna.
martedì 2 agosto 2011
C’è chi ha inteso la ricerca filosofica come il tentativo di gettare nuova luce su espressioni del pensiero «alienate» dagli orientamenti storiografici, ponendole così in primo piano rispetto ai grandi sistemi, che sono tecniche del «potere» applicate alla fondazione di identità culturali forti. In tal senso, l’esercizio speculativo si converte in un gesto «archeologico».
G. W. Leibniz (1646-1716) fu uno degli esponenti più influenti del pensiero filosofico e scientifico della modernità, forse l’ultimo «genio» europeo. Si occupò di molteplici piani tematici, anche decisamente differenti fra loro, lasciando contributi influenti: scoprì indipendentemente da Newton il calcolo infinitesimale, progettò una delle prime macchine calcolatrici (archetipo del computer), si spese per la riconciliazione dei cristiani nel segno di un’unica Chiesa universale, fu il massimo rappresentante del razionalismo del XVII secolo. Inoltre, si interessò con profitto a problemi di fisica, astronomia, medicina, diritto, etica, politica, storia, non trascurando l’osservazione dei dettagli e lo sviluppo delle intuizioni. L’enciclopedismo presupponeva comunque un’autentica passione per le biblioteche e le raccolte librarie: si formò da autodidatta nella ricchissima biblioteca del padre (austero docente universitario); fra le mansioni cortigiane che assolse presso il duca di Hannover emergeva soprattutto quella di bibliotecario e storico di corte e, inoltre, nel corso della sua vita compose un considerevole fondo librario privato. Nel febbraio 1663, il diciassettenne Leibniz acquistò sul banco di un mercante in occasione di una delle grandi fiere librarie di Francoforte (oppure di Lipsia) uno dei primi volumi per la propria biblioteca personale: la seconda edizione del Tractatus novus, utilis et jucundus, de Voluptate et Dolore, de risu et fletu, somno et vigilia … (typis Wolffgangi Richteri, sumptibus Ioannis Theobaldi Schonwetteri, Francofurti 1603) di Venafranus Jossius, al quale era allegato, per affinità tematica, il notevole trattato sul riso di Antonio Lorenzini Poliziano.
Venafranus Jossius era senza dubbio Nicandro Iossio, filosofo e medico originario di Venafro attivo nella seconda metà del Cinquecento. Insegnò filosofia a Roma, dove nel 1580 fu pubblicata «apud Franc. Zanettum, in 4» la prima edizione del Tractatus. Lo studio di Iossio esprime in maniera lineare i caratteri distintivi propri dell’aristotelismo rinascimentale, intriso di sfumature naturalistiche, svelando comunque una propria originalità nella presentazione di una spiegazione gnoseologica delle facoltà sensoriali e di un’interpretazione «psicologica» del riso e del pianto. Il Tractatus ebbe una buona fortuna: l’edizione tedesca postuma (1603) contribuì alla circolazione dello scritto negli ambienti culturali europei. Certamente Iossio fu letto nel Sacro Romano Impero, in Francia e in Inghilterra: non solo Leibniz, ma anche Gabriel Naudé, bibliotecario del cardinale Mazzarino, e Robert Burton, il celebre autore di The Anatomy of Melancholy (Oxford 1621) possedevano, ad esempio, una copia personale dell’opera. La fortuna seicentesca si estinse progressivamente. Il Tractatus è stato incautamente «rimosso» dalla ricerca storiografica: non ne è mai stata elaborata un’edizione critica o una traduzione, né si riscontrano monografie sul pensatore venafrano. Le ricerche più esaustive concernenti la storia del pensiero scientifico tardo-rinascimentale si limitano a citare il volume in nota, senza offrire elementi di contestualizzazione. L’Enciclopedia Filosofica Bompiani, preziosa per la completezza delle informazioni che fornisce anche su autori «minori», non dedica al Tractatus neppure un rigo dei suoi venti volumi. Nicandro Iossio è stato dimenticato anche nella sua cittadina d’origine. Quanti studenti locali hanno avuto l’occasione di sentirlo nominare? La toponomastica (che rappresenta un indizio prezioso per apprendere lo «spirito culturale» di un centro urbano) l’ha relegato in una via gregaria, breve, stretta, in salita, persino priva di indicazione stradale. Si tratta di un riconoscimento inutile.
La ricerca filosofica, dunque, può restituire un volto a percorsi del pensiero significativi e valevoli, che sono stati condannati all’oblio per pregiudizio ideologico» o, peggio ancora, per assenza di profondità.
domenica 26 giugno 2011
Federico Silvestri
Identità temporale e unità funzionale del corpo organico:sul ruolo delle macchine naturali nella filosofia di Leibniz (14.30)
Francesco Giampietri
Il fondo umbratile dell'individualità. Leibniz e ilprincipio di individuazione (15.00)
Andrea Costa
Leibniz e le macchine dell'arte (15.30)
Coffee break (16.00)
Discussione (16.30-18.00)
lunedì 21 marzo 2011
Capita a volte di trovarsi nel bel mezzo di un’amicizia e pure perdersi, all’improvviso, nel turbinio avventuroso che la vita ci riserba e non per questo lasciarsi andare così e tanto da dimenticare ciò che è stato, ciò che s’è protetto e amato. Quant’è seria e maledettamente adulta una storia d’amicizia che si pensava fosse invincibile. Invincibile sì, al tempo, alla lontananza e a quel turbinio sopraccitato che non si può non assecondare.
Già, invincibile. A tutto, tranne che ai cambiamenti. Un non senso. E allora mi propongo le domande più inaspettate, gli interrogativi più ingarbugliati, i ragionamenti più strambi e innocenti che non mi rendono soddisfazione e non mi chiariscono il senso di un allontanamento fattosi strada pian piano anche solo attraverso il silenzio di una breve telefonata. E pensare che un tempo si scrivevano lettere, lunghe, belle, da trovare una volta al mese nella cassetta postale. Ci si scriveva ogni mese, anzi il 17 d’ogni mese. Il 17 perché ci sembrava un numero controcorrente, un numero schivato dal resto del mondo, un numero pieno di fascino, insomma. Gli anni trascorsi tra i banchi di scuola, magici, teneri e sorbiti d’un fiato per la voglia di crescere e andar via per realizzare sogni lontani. Come fossimo gli eroi d’una pellicola di Sergio Leone, la nostra era una complicità perfetta. E poi ancora, un diario, il nostro, scritto a scuola durante le ore di lezione, a mò di dialogo, con le nostre domande e le nostre labili risposte, quelle d’adolescenti, quelle di due amiche dal cuore unico. Il nostro diario era un quaderno di mille pensieri, uno zibaldone dorato in mezzo ai libri di scuola; chissà se l’hai conservato o magari gli hai proposto un volo pindarico dalla finestra della tua casa romana… E pensare che non molto tempo fa lo rileggemmo insieme. Ma magari la pazza della porta accanto sono io: così attratta come sono dai sentimenti, quelli veri che si sentono in fondo all’anima come un tamburo per niente astratto e malridotto. Non sempre il sottosuolo è quel luogo arido descritto da Dostoevskij e a volte puoi trovarci anche degli spazi infiniti d’innata umanità. E poi Roma, sì, Roma. La città eterna che non t’ha resa altrettanto eterna in fondo all’anima ma t’ha cambiata. I fori imperiali, l’anfiteatro Flavio, l’arco di Costantino t’hanno rubato l’anima e l’hanno sostituita con qualcosa che io non riconosco.
Cara E., il 17 di questo mese è trascorso ormai già da qualche giorno ma piuttosto che unirmi al tuo silenzio incomprensibile ho deciso di sparpagliare nell’infinito caos di un computer i fogli disordinati di quest’amicizia pallida e smarrita. Ti abbraccio nella mancata speranza, ormai, di poterlo fare di persona.
giovedì 17 marzo 2011
Ricorda che la nostra tre colori ha
Ricorda che la nostra tre colori ha