La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 30 dicembre 2008

Schegge di bestialità cruda e selvatica


E’ notizia di questi giorni la triste vicenda di un ragazzo venticinquenne ridotto in fin di vita da un branco di fiere irrazionali, per aver pestato accidentalmente la zampa di una di quelle bestie in una discoteca. E’ accaduto a Gela, provincia della provincia della privincia. Frontiera dell’impero. Eppure si tratta di un copione valido anche per una realtà metropolitana. Il gregge degli aggressori è un insieme composito di studipità, incapacità di impegno, di pensiero, di riflessione. Quel composto di orrore periferico è dato dalla somma scontata di individualità che, considerate di per sé, non fanno storia, essendo vane e vacue come il fumo di una sigaretta consumata in una notte di nebbia. Si tratta di gente che non sa pensare, non lo hai mai fatto, che non è animata neanche da un barlume di sensibilità. L’aspetto inquietante è relativo al fatto che gente del genere sia praticamente ovunque. Si confonde nei mercati, nei ristoranti, nel traffico cittadino. L’individuazione dell’orrore non è sempre così scontata. Si tratta di individui che sono incapaci di agire da soli, del tutto privi di intraprendenza. Adorano essere guidati. Hanno la vocazione dell’esecutore, del carnefice. Da soli non sanno neanche pisciare. Detestano il talento individuale, dal momento che è la mortificazione della loro sciocca superbia da falliti travestiti di presunta forza muscolare, lo svelamento pubblico della loro inconsistenza, inutilità. La loro estinzione riconoscerebbe un investimento estetico per l’economia del mondo. Detestano ciò che tradisce i loro canoni di virulenza e di piattissima semplicità. Ciò che è complesso, sorprendente, vario, “diverso”, o a vario titolo significativo, segna un’irresistibile provocazione per il loro culto della nullità. Rientrano in questa tipologia ampia e tutt’altro che schematica di bestialità suburbana e non domesticabile (si sa che le bestie domestiche sono utilissime) gli aggressori nazifascisti, i violentatori, gli attori delle discriminazioni, gli ultras picchiatori. La filosofia politica moderna ha insistito in più occasioni sul concetto di stato di natura, presentandolo con diverse sfumature e significazioni. Lo stato di natura è lo stato dei banditi, in cui ogni aspetto è legittimato unicamente dalla negazione della legge, dalla forza fisica. Si tratta di una condizione di infelicità diffusa, dalla quale si può uscire unicamente con un patto artificiale di rinuncia al diritto su tutto, proprio di ogni individuo bestiale (jus in omnia). Spinoza ed Hobbes non erano così ingenui da credere nell’esistenza storica di uno stato del genere. Lo stato di natura è piuttosto un raffinato strumento teorico di esplicazione dei meccanismi di fondazione della politica e delle sue pretese di civilizzazione. Se nel Seicento, dunque, si insisteva tanto sul carattere prepolitico dello stato di natura, oggi, sarebbe sufficiente seguire con attenzione i titoli del TG1 o leggere la prima di un quotidiano serio per riconoscere la caratterizzazione infrapolitica dello stato di natura, attivo in spiragli più o meno clandestini della modernità occidentale. In una discoteca, nelle cospirazioni di un covo dell' ultradesta, in una sezione di esaltati fanatici rancorosi sine ratione, nelle pasticche del sabato sera, nelle violenze da cronaca nera si affermano i principi di una sfida per la razionalità del nostro sistema di vita, per le funzioni della logica. Si tratta di disfunzioni sistemiche che richiedono un intervento diretto e razionale, disgiunto per principio dalla valorizzazione del risentimento e dai marchingegni della vendetta. Dobbiamo prendere coscienza della realtà, farci i conti, tentando disperatamente di migliorarla.

mercoledì 24 dicembre 2008

Il vischioso male

Il Santo Natale del Signore impone delle riflessioni. Non può consumarsi nella fila dei centri commerciali, negli aromi delle cucine, nell'incenso della veglia nelle cattedrali. Non può essere mistificato dal sorriso perbenista che magari può far scivolare eccezionalmente una moneta nelle mali sudice di un mendicante. Non scintilla affatto nei brindisi incrociati, nei baci scambiati per la strada con persone che ti sogneresti di baciare in qualsiasi altro momento dell'anno, nelle sinfonie di sempre, ripetitive fino alla noia. Centinaia di film, di ricordi, di schemi concettuali ci hanno abituato a tutto ciò. E' tutto perfettamente scontato. L'eterno ritorno dell'identico. Lo spirito cristiano autentico (non sempre coincidente con le direttrici imposte dalla Chiesa cattolica) è molto distante dalle regole commerciali del supermarket della fede. Per tutte queste ragioni, sarebbe opportuno dedicare un pensiero a ciò che non emerge sul proscenio delle festività natalizie, a ciò che le luminarie lasciano in penombra. L'oggetto di questa riflessione è da ricondurre a quell'insieme variegato di persone (spesso invisibili) che sperimentano, proprio in questi giorni, un'intensificazione del loro male, del loro vischioso male. Sono i solitari per scelta o per nemesi, i depressi, gli angosciati, gli emarginati, i diseredati, gli emarginati, i falliti di ogni genere, gli internati, i reclusi. In questi giorni provano sulla loro pelle il senso della loro vacuità esistenziale. La società dei consumi non li considera perchè la loro presenza è di per sè la prova di un fallimento sociale. Non esistono, dunque. Sono delle ombre notturne, barlumi di foschia onirica, l'incubo di diventare qualcosa o qualcuno del genere. Pensarli o aiutarli afferma il senso autentico della caritas cristiana. Cristo trascorrerebbe con loro il suo compleanno, nella notte che sta per iniziare. Non ho dubbi al riguardo. Auguri a tutti.


L'immagine del "vischioso male" deriva dal passaggio iniziale di "Autobahn", uno dei sei racconti che componono Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli, una delle opere che mi ha fatto più impressione durante e in seguito alla lettura. Il confronto con Altri libertini comporta un pugno allo stomaco, un pugno oltremodo salutare, però. Cito il passaggio:



Lacrime lacrime non ce n'è mai abbastanza quando vien su la scoglionatura, inutile dire cuore mio spaccati a mezzo come un uovo e manda via il vischioso male, quando ti prende lei la bestia non c'è da fare proprio nulla solo stare ad aspettare un giorno appresso all'altro. E quando viene comincia ad attaccarti la bassa pancia, quindi sale su allo stomaco e lo agita in tremolio di frullatore e dopo diventa ansia che è come un sospiro trattenuto che dice vengo su eppoi non viene mai.


Si tratta di un passaggio che amo alla follia. Mi capita di richiamarlo alla mente quando ho l'umore un pò altalenante. La bestia di Tondelli è riconducibile ad uno stadio depressivo. Con la mia riflessione, la depressione valica i confini della pena individuale per assumere una connotazione sociale, di cui sono portatori, come sentinelle notturne, gli alienati dal Natale cui ho fatto riferimento. Scrisse una volta Nelson Algren: "I politici e gli intellettuali mi annoiano, mi sembrano irreali; la gente che frequento è quella che mi pare vera: puttane, drogati, ladri; sono gli unici rimasti con qualcosa da dire e nessuno a cui dirlo":


domenica 21 dicembre 2008

L'individualismo elegante


Edward Hopper è un artista degno di essere amato, indipendentemente dai possibili condizionamenti indotti dallo stato umorale dell'osservatore posto dinanzi ad una della sue opere. Automat (1927) rappresenta bene, in una soluzione sintetica, i caratteri essenziali della sua arte. L'oggetto di Hopper è la solitudine dell'individuo metropolitano, di periferia, frequentatore di bar notturni e sonnambulo per vocazione per ammazzare la noia, il vuoto che pervade le voragini di non senso della modernità. Gli elementi dell'ambientazione pittorica non svolgono una funzione ornamentale o meramente decorativa . Sono strutture di senso che dilatano il cancro della passività che corrode il cuore del soggetto centrale della figurazione. L'angoscia dell'individuo, atomo contingente ed accidentale di una composizione mostruosa di sovrastrutture funzionali, non si converte mai in inquietudine. L'angoscia è la condizione dell'individuo consapevole che nel possibile tutto è possibile, è la rimozione psicologica di paracaduti di senso (siano essi religiosi o ideologici non ha importanza) capaci (un tempo magari) di scongiurare l'appiattimento individuale nei fumi dei locali notturni, nelle foschie di periferia respirate da puttane ad ore e da disperati. I soggetti di Hopper non dormono, dunque, non ne hanno ragione alcuna. Brancolano nella notte metropolitana che riflette fedelmente la profondità oscura del loro cuore ormai defenestrato e contagiato da infezioni esistenziali di ogni sorta. In ogni modo l'opera di Hopper non può essere intesa come una raffigurazione cronachistica del nichilismo moderno. C'è un elemento dirompente che spezza la passività della figurazione che, pur non introducendo un elemento dinamico, di azione liberatioria, in ogni mondo eleva il soggetto dal proprio fondo di desolazione. Si tratta della luce intensa che anima i notturni di Hopper. Rivelazione artificiale. Penetrazione insperata della nebbia. Luce al neon che seda l'anima placando gli sciabordii di pensieri, ricordi, sentieri esperiti centrifugati da un mondo, avvertito in lontananza, rispetto al quale l'alienazione scava un rifugio pubblico.

venerdì 19 dicembre 2008

Il puzzle di Georges Perec

In un passaggio della mia tesi di laurea magistrale, consacrata a Leibniz e al mondo barocco, ho paragonato il mondo al puzzle di Dio, nel contesto del quale ogni frammento apparentemente insignificante è funzionale alla composizione del tutto, che senza quell'elemento marginale, oltremodo particolare, non sarebbe affatto optimum, degno di essere stato scelto fra infinite soluzioni alternative. Mi sembrava un'immagine significativa, per certi versi originale, per non ripetere il riferimento alla presentazione del mondo come romanzo di Dio, questa sì, presente in alcuni passaggi della produzione "privata" dello stesso Leibniz. In questi giorni sto leggendo La vita istruzioni per l'uso, un capolavoro della letteratura del Novecento,pubblicato nel' 78 da quel geniaccio di Perec e tanto amato (con sacrosanta ragione) da Calvino. Scrive Perec che in definitiva la verità ultima del puzzle è che

malgrado la apparenze, non si tratta di un gioco solitario: ogni gesto che compie l'attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall'altro.

La difficoltà del puzzle è data dalla sapienza del taglio. Scrivevo la scorsa estate: "Ogni ente è un frammento infinitesimo di un puzzle infinito, che può essere composto soltanto da Dio, dal momento che è stato proprio Dio ad intagliare i contorni delle componibilità compossibili".

Leggendo Perec sospiro così di piacere, attirando, per un istante, l'attenzione della mia gatta, che si rifiuta di accovacciarsi sulla mia spalla.


venerdì 12 dicembre 2008

L'esilio hannoveriano

Ho soggiornato ad Hannover dal 2 al 7 novembre scorso. Sono stato lì essenzialmente per motivi professionali, oltre che per fare un’esperienza di vita. Ogni mattina attraversavo, alle 8.30 ca., la piazza ritratta nella foto postata. La città tardava a svegliarsi, così come si addormentava sorprendentemente presto. L’etica luterana applicata alla vita comporta uno stile esistenziale spartano. Mi orientavo per le vie geometriche del centro, nell’ora di marcia necessaria per raggiungere dal mio hotel la Leibniz Bibliothek, assumendo come punto di riferimento prospettico il campanile gotico dell’altezzosa ed austera Markt Kirche. Restavo in biblioteca dalle nove del mattino alle sei di sera, quando Hannover già era sprofondata da un pò nel torpore della foschia notturna. In biblioteca ho incontrato ogni giorno gli stessi volti indifferenti. Ho raccolto qualche sorriso soltanto il giorno della mia partenza. Sarà un caso; i tedeschi metabolizzano più lentamente le presenze. Bene, lavorando in biblioteca inebriavo i polmoni con l’odore inconfondibile e straordinariamente ansiolitico di testi non sfogliati più da decenni e decenni di oblio. Mi concedevo delle piccole pause per ristabilire un contatto con la realtà. Alle due pranzavo. Prima di tornare in centro per consumare una zuppa o una pallida imitazione di un panino mediterraneo, sfogliavo l’edizione del Corriere del giorno prima, disponibile in biblioteca. In quei giorni il mondo era allucinato da Obama. Nel pomeriggio, mi concedevo una breve passeggiata lungo il viale su cui si affacciano gli ambienti in cui consumavo la mia giornata. Mi liberavo dell’odore dei testi nelle ore notturne, assorbendo la nebbia, le foglie morte, la malinconia, la solitudine da intellettuale di provincia, prima di sciogliermi sotto la doccia e confondere manoscritti e suoni, silenzio e sogno.

Il teatro del mondo. Leibniz e l'estetica


Il pensiero di Leibniz afferma un’enciclopedia priva di lemmi, un labirinto di erudizione barocca includente, su più piani intersecati, tematizzazioni concernenti i più disparati ambiti disciplinari. Fra essi, emerge senz’altro un interesse attento e convinto rivolto alla sfera della teorizzazione della bellezza e al suo riflesso sull’universo variegato delle arti. Le osservazioni leibniziane di carattere estetico sono state sovente del tutto trascurate dalla letteratura filosofica moderna, per diverse ragioni. In primo luogo, esse sono presenti variamente e in maniera frammentaria nell’ambito problematico della produzione esoterica di Leibniz che, dunque, non si è preoccupato affatto di concentrare le proprie tesi estetiche in un trattato o manuale specifico, come aveva fatto, per esempio, Nicole. In seconda battuta, i riferimenti a problematiche di carattere estetico sembrerebbero svolgere una funzione ausiliare rispetto all’esemplificazione di concetti ontologici o metafisici e, così, per questa ragione non sarebbe affatto legittimo presentare un’estetica leibniziana.
Con il nostro intervento ci preoccupiamo di sostenere la tesi opposta. Nel contesto del leibnizianesimo non è possibile attuare una distinzione fra tematiche primarie e secondarie, dal momento che, in un’economia della compensazione, è affermato un registro espressivo polisemantico e polifonico, in cui hanno pieno diritto di cittadinanza anche le note estetiche. Ci preoccupiamo di avvalorare le nostre ragioni argomentative facendo astrazione dalla valutazione delle influenze leibniziane sull’opera di Alexander Baumgarten, dal momento che intendiamo orientarci valorizzando i tre concetti-guida della giornata di studio come prospettive di esplorazione del tema dell’esposizione.


Teatralità del mondo

Nel sistema leibniziano, il mondo ha una natura derivata rispetto a quella delle sostanze semplici; fra esse, soltanto gli spiriti razionali sviluppano pensieri egologici, nel senso che non si limitano a riflettere, ma sono anche coscienti di riflettere, consapevoli che il mondo provenga da loro.
In questo senso, il mondo si configura come una costruzione implicata dalla coerenza interna delle rappresentazioni soggettive e dal loro accordo, fondato su un contenuto rappresentativo comune, ovvero sulla conoscenza delle verità di ragione e di quelle miste. La realtà del mondo deriva dal ‹‹consenso delle percezioni delle sostanze percettive›› (G, III, p. 623).
Il mondo ha una struttura matematica, un fondo di oggettività irriducibile; come risulta evidente dal carteggio leibniziano con Samuel Clarke, il modo può essere inteso come un complesso meccanismo di orologeria, che non richiede mai interventi di manutenzione. È così che il mondo non cambia mai, restando sempre lo stesso. L’ordine mondano è l’equazione di una retta geometrica (cfr. DM, § 6); «tutte le classi di esseri, il cui insieme costituisce l’universo, sono, nelle idee di Dio che le conosce, altrettanto ordinate di una sola curva, così strettamente congiunte che sarebbe impossibile porne altre fra l’una e l’altra di esse, dato che ciò importerebbe disordine ed imperfezione» (SF, a cura di D. O. Bianca, II, 765-766).
L’universo variegato delle individualità riflette lo stesso cosmo; ogni individualità concorda in modo proporzionale nella riflessione dello stesso mondo (cfr. DM, § 14). A variare è la modalità scenografica della prensione del mondo, che può essere scandita dalla rappresentazione sensibile, dalla conoscenza scientifica (determinazione di concetti a partire dall’immaginazione e dall’intelletto) o dalla spiegazione metafisica. ‹‹E come una stessa città, osservata da lati differenti, sembra del tutto diversa ed è come molteplicata prospetticamente, allo stesso modo, per l’infinita moltitudine delle sostanze semplici, accade che vi siano come altrettanti universi differenti, i quali tuttavia non sono che le prospettive di uno solo, secondo i diversi punti di vista di ogni monade›› (M, § 57). È interessante mettere in evidenza il fatto che il riferimento alla città vista da più punti di vista affermi un sistema di prospettive convergenti riconducibile alla pianta stellare promossa dall’architettura barocca. Nella città barocca, il palazzo principesco segna lo sfondo visivo di ogni prospettiva particolare.
Il mondo si configura come un teatro, dal cui palco la medesima rappresentazione fattuale è osservata variamente da una molteplicità indefinita di punti di vista, come se ogni spettatore fosse posto di fronte ad una propria visione privata. Gli spettatori ‹‹credono di vedere la stessa cosa e si intendono in effetti a vicenda, benchè ciascuno veda e parli solo secondo la misura della propria visuale›› (DM, § 14). L’espressione individuale è egocentrica oltre che scenografica, rispetto all’oggettività dei fatti del mondo, dal momento che essa varia non soltanto in relazione alla posizione dello spettatore, ma anche per l’incidenza del tessuto esistenziale individuale sulla modalità della prensione di un determinato evento. «È come se Dio avesse variato l’universo tante volte quante sono le anime, o come se avesse creato altrettanti universi in piccolo, che si accordano nel fondo, ma sono diversificati per le apparenze» (G, III, 347). La rappresentazione scenografica riconosce un disegno in scorcio, non è unica, ottenuta da un punto di vista collocato all’infinito, ovvero da uno sguardo da nessun luogo, come la rappresentazione icnografica, registro espressivo dello sguardo di Dio, prospettiva ortografica planimetrica, o più semplicemente disegno in pianta. Se la scenografia inventa ed imita il tutto nel particolare, l’icnografia trascende le infinite scenografie, includendole. «Le scenografie sono diverse a seconda della posizione dello spettatore, l’icnografia o rappresentazione geometrica è unica» (G, II, 438). Lo sguardo icnografico non sente, ma conosce la perfezione degli oggetti riflessi. È il passaggio dallo sguardo scenografico a quello icnografico a rendere possibile la prensione del valore estetico del mondo e delle virtù morali.
In ogni modo, il mondo riconosce un composto, ridotto ad una rappresentazione semplice dall’espressione. In definitiva, x può esprimere y se e solo se sussiste fra x ed y un’analogia di struttura. Un esempio paradigmatico di espressione è segnato dalla proiezione prospettica.
L’espressione non comporta sempre uno schema di corrispondenza, del tipo: 1:1, dal momento che, più in generale, fa emergere una relazione di isomorfismo, conservando determinati rapporti d’ordine e di struttura.
Per quanto possa essere confusa, vi è nella rappresentazione scenografica più di quanto si possa vedere (cfr. T, § 356). È proprio in relazione alla teoria dell’espressione che le idee della qualità secondarie non possono essere definite arbitrarie.

La matematica inconscia

L’esperienza estetica consiste nella prensione di un sentimento di piacere o di armonia (cfr. lettera ad A. Arnauld del novembre 1671) ed è pertanto assimilabile alla logica delle qualità secondarie. Il sentimento di piacere si configura come una risposta percettiva all’impressione sul soggetto di proprietà oggettivamente presenti nel mondo. Bello è ciò che risulta «dilettoso a chi lo percepisce» (A, VI, 1, 464). Il piacere riconosce la percezione simpatetica della perfezione (cfr. C, 517), che è grado di essenza (condizione di compossibilità), principio di esistenza, esaltazione dell’essere (cfr. G, VIII, 7).
Pur essendo implicato dalla percezione di una determinata proprietà sensibile, come il dolore, il piacere è un prodotto dell’anima (cfr. NE, VI, 3, 6), per la quale favorisce il passaggio a stati percettivi più distinti. La consapevolezza della perfezione è per l’anima un’esperienza della propria perfezione; la perfezione può divenire, così, da attributo dell’oggetto percepito, impresso nella memoria, attributo del soggetto percipiente che può allora compiacersi di sé.
Il piacere estetico è un piacere sensibile che si approssima al campo dei piaceri intellettuali; esso è fondato sulla continuità di natura e grazia, piacere e virtù. Per queste ragioni, può essere definito bello, grazioso ciò che procura gioia, ovvero il piacere che l’anima avverte in sé.
Pur essendo riconoscibili, le idee delle qualità secondarie sono confuse, dal momento che il loro oggetto non è distinguibile. ‹‹È un non so che di cui si ha appercezione, ma di cui non si può rendere conto›› (G, IV, 500). Le idee delle qualità sensibili divengono intelligibili esclusivamente in quanto includono idee matematiche, proprie dell’intelletto puro ma appercepite mediante i sensi; il riferimento è a ‹‹ciò che è comune agli oggetti di diversi sensi esterni ed appartiene al senso interno›› (G, VI, p. 493). La conversione del piacere sensibile a livello intellettuale è veicolata dalle idee distinte connesse, in relazione alla percezione dei sensi, dalla struttura matematica dell’oggetto estetico.
La rappresentazione sensibile ha per oggetto la prensione di semi-enti (cfr. G, II, p. 506), fenomeni che sono riconducibili al contempo al piano metafisico delle vere sostanze e quello ideale dei costrutti mentali, essendo il contenuto rappresentativo delle modificazioni della sostanza percipiente. I fenomeni possono essere intesi come degli aggregati, essendo la loro unione (ovvero la loro realtà) un prodotto della mente. ‹‹L’arcobaleno è un aggregato di gocce che congiunte insieme producono certi colori che ci appaiono […]. Dunque l’arcobaleno ha una realtà diminuita sotto due aspetti, sia perché è un ente per aggregazione di gocce, sia perché le qualità attraverso cui è conosciuto sono apparenti o almeno appartengono a quel genere di realtà che sono relative ai nostri sensi›› (Gr., p. 322). L’arcobaleno è un semi-ente, conosciuto mediante il colore, qualità apparente, ma reale nella cosa in quanto questa ha la disposizione a determinare la sensazione cromatica; l’arcobaleno riconosce un fenomeno vero (cfr. C, p. 523), ente di percezione avente il proprio fondamento oggettivo in un’unità che è un prodotto mentale. Il caso dell’arcobaleno è assimilabile al contesto della percezione del colore.
Un cieco nato può intendere bene la teoria ottica (la causa dell’apparenza cromatica), pur non avendo mai visto il colore (ovvero cosa esso sia); pur spiegando causalmente una determinata qualità, un’idea distinta non informa affatto su che cosa essa sia. Le qualità sensibili hanno un rapporto naturale con le loro cause (la costituzione interna dei corpi), essendo connesse direttamente all’esperienza, tutt’altro che arbitraria.
Rispetto a quanto sostenevano Pascal, Descartes, Hobbes e Spinoza, la bellezza ha un fondamento oggettivo che, comunque, sfugge prima facie alla percezione dell’animo (cfr. G, VII, 86). La bellezza non può essere intesa come la proiezione di determinate proprietà di stati psichici sul mondo. Se la bellezza non riconoscesse una qualità strutturale del mondo, risulterebbe impossibile attribuirla causalmente a Dio (cfr. DM, § 2); la bellezza è una delle manifestazioni dell’amor Dei, un effetto della bontà di Dio, l’oggetto della sua gioia assoluta, il principio di autocompiacimento e di intensificazione della sua gloria. La gloria di Dio è il compiacimento egoistico che Dio ha di sé per la propria perfezione; in ogni modo, Dio deve essere glorificato per essere disgiunto dall’incubo schizofrenico di un universo solipsistico. La bellezza coincide, così, con la diffusione dei raggi razionali di Dio nel creato.
La comprensione causale della bellezza è esemplificata dai casi emblematici della musica e della figurazione pittorica, nel contesto dei quali non emergono soltanto qualità sensibili (il suono, il colore), ma anche idee matematiche chiare e distinte, soggette all’immaginazione. La struttura matematica del mondo compensa il nescio quid che piace.
La musica e la figurazione possono essere intese come delle matematiche inconsce. La bellezza è data dall’impalcatura dei fenomeni matematici, dalle figure e moti della microstruttura dei corpi presenti nello spazio visivo, non facendo astrazione dalla percezione chiaroscura che li afferra.
La musica è la conversione estetica dell’armonia universale. Ascoltando l’esecuzione di un brano musicale, sviluppo un computo inconscio in relazione al periodo ritmico dei battimenti (vibrazioni, individualmente impercettibili, prodotte dagli strumenti). «La musica ci affascina, eppure la sua bellezza consiste soltanto nell’accordo dei numeri e nel computo dei battiti e delle vibrazioni dei corpi sonanti che si incontrano secondo intervalli determinati: e si tratta di un computo che l’anima non cessa di fare, ma di cui noi non abbiamo coscienza» (PNG, § 17). Ascoltando un brano musicale, «l’anima conta i battiti del corpo sonante in vibrazione, e quando tali battiti si incontrano regolarmente a brevi intervalli, vi trova piacere» (G, IV, 550-551).
L’oggetto sensibile della musica, connesso al livello meramente percettivo, coincide con la sua connotazione razionale, fondata sulla strutturazione matematica della composizione. Alternanze ritmiche si affermano anche in una composizione poetica, in cui si combinano in versi successori regolari di sillabe lunghe e brevi, in concatenazioni di rime (cfr. G, VII, 86-87). Secondo Nicole, invece, sono le metafore e le iperboli ad assolvere, nel contesto della letteratura, la medesima funzione delle dissonanze musicali (cfr. Traité de la vraie et de la fausse beaté, 187).
Sul piano logico, la bellezza è un modo misto dell’ente (nel senso che comporta idee sensibili ed intellettuali al contempo), un predicato assoluto, il cui genere è la qualità, denotante un’affezione non relazionale dell’ente (cfr. Ars Combinatoria, A, VI, 1). La bellezza è un accidente che determina l’ente; è un termine astratto reale applicato ad una qualità sussistente e pensabile solo nel concreto.
In definitiva, nel contesto variegato della filosofia di Leibniz, l’estetica presuppone un’epistemologia. La prensione della perfezione è estirpata, infatti, dal vincolo delle piccole percezioni chiaroscure e dall’immaginazione soggettiva con il riferimento della sensazione oscura di un nescio quid che piace alla struttura matematica del mondo, presente di riflesso anche nella mia anima.

La bellezza nel mondo
È legittimo sostenere che la bellezza sia una forma della struttura del mondo in virtù della possibilità di connessione del piacere estetico alle idee distinte.
Il mondo è bello anche in virtù del suo infinito moltiplicarsi nella molteplicità dei punti di vista degli osservatori (cfr. DM, § 9).
La bellezza può essere intesa come una matematica inconscia, travestita; in questo senso, il piacere estetico riconosce una consapevolezza chiaroscura della perfezione. Essa emerge dal fondo delle percezioni preconsce in virtù della capacità mentale di sviluppare osservazioni generali (cfr. LW, 171), conformi a regole.
È armonico ciò che riduce la varietas a semplicità; è in tal senso che anche le leggi naturali hanno un eminente valore estetico. L’armonia è varietas identitatae compensata, «diversità temperata dall’identità. Armonico, cioè, è l’uniformemente dissimile» (Elementa Juris Naturalis, in A, VI, 484).
La varietà riconosce con la ricchezza e la semplicità normativa un carattere estetico del mondo. In definitiva, l’architettura divina presuppone varietà ed elementi ornamentali; l’horror vacui ha così una connotazione anche estetica.
La bellezza è nella possibilità di osservazione di una molteplicità riconducibile ad un’unità di livello superiore. L’armonia è per principio polifonica.
In ogni modo, come la bontà, la bellezza ha un valore relativo, dal momento che è riferita alla considerazione del tutto, non delle parti. L’armonia non è assoluta né uniforme, come l’estensione, la materia e i corpi omogenei. Un determinato oggetto della percezione è bello in virtù di particolari che, considerati per sé, sono tutt’altro che dilettevoli. «Rimiriamo una pittura bellissima coprendola tutta e lasciandone libera solo una minima parte: anche guardando intensamente, anzi, quanto più la si guardi da presso, che altro apparirà in quella parte se non una congerie confusa di colori senza gusto, senza arte? E tuttavia, levata la copertura e contemplato il quadro in una collocazione conveniente, comprenderai come ciò che sembrava buttato a caso sulla tela fosse stato eseguito dall’autore dell’opera con artificio sommo. Ciò che gli occhi trovano in una pittura, lo orecchie lo sperimentano nella musica» (G, VII, 306).
Per mezzo di questa osservazione è lecito riconoscere un’analogia di fondo fra il mondo e l’opera d’arte. L’opera d’arte insegna ad osservare il mondo, dacchè traduce sul piano sensoriale l’armonia del cosmos, essendone un’imitazione. Nelle menti l’opera d’arte è assunta come un’allegoria del mondo, premessa ad una comprensione epifanica delle imperscrutabili ragioni divine, un moto verticale dal sensibile all’intellegibile. Nell’anima dell’esteta risuona un’eco dell’infinita perfezione divina. Come Mosè dobbiamo, tuttavia, limitarci ad osservare il dorso di Dio, dal momento che il volto è imperscrutabile (cfr. G, VII, 55). In questo contesto, il disordine riconosce una diversità particolare non ancora ricondotta ad una determinata forma specifica. Pur ponendosi come un’intuizione oscura dell’armonia cosmica, l’arte induce ad agire, nel senso che fa in modo che l’individuo si senta attore della bellezza del mondo. Essa procura lo stesso piacere che è indotto dall’amicizia e dall’amore oltre che dalla conoscenza adeguata e dal perfezionamento dell’essere (cfr. lettera a Nicaise del 1698, in G, II, 581).
Per gli spiriti la bellezza è un movimento che va dal sensibile all’intelligibile. Il piacere estetico non scioglie, comunque, in maniera definitiva il nodo della comprensione delle ragioni parziali che hanno ispirato il gioco creativo di Dio, dal momento che rimane limitato ad una significazione epifanica. Il processo creativo di Dio, volto alla composizione di una varietà indefinita di elementi anche divergenti, è assimilabile alla combinazione combinatoria di accordi consonanti e dissonanti sottesa alla creazione musicale.
Il Dio leibniziano è un esteta che, fra infinite soluzioni alternative, ha scelto di attualizzare il mondo della cui armonia gioisce e si compiace. Dio ha creato il mondo perché quel mondo che ha preferito ad infinite alternative possibili gli piace ed è, pertanto, strumentale rispetto al fine celeste dell’innalzamento della sua gloire, coincidente con il bene comune, e «il cui splendore si rapporta non solo alla grandezza, ma anche alla bontà» (G, VI, 450-451). Il Dio creatore è un artista ispirato da una sapienza estetica. Il nostro mondo si è rivelato degno della scelta divina, dal momento che è quello che valorizza in modo più compiuto il principio della compossibilità.
Il Dio leibniziano non può essere definito esclusivamente come l’Architetto, l’Orologiaio, il Monarca, ma anche come il Romanziere. La storia universale è il locus theologicus, la narrazione di Dio, ancorata al centro gravitazionale del progresso. Come Leibniz ha scritto nella lettera ad U. Ulrich del 26 aprile 1713, una delle somme qualità del romanziere è quella di far cadere tutto in confusione, per poi sciogliere inaspettatamente l’intreccio. Nella trama narrativa della storia universale, la migliore composizione di compossibilità eventuali che sia possibile, basterebbe modificare un carattere particolare di una comparsa esistenziale per riconoscere la struttura narrativa della trama di un altro romanzo. L’origine dell’esistente è il gioco creativo di Dio, regolato dalle norme proprie di un’economia della convenienza; è un gioco che è esente dall’aleatorietà propria del lancio di una coppia di dadi. Per questa ragione, se il romanzo di Dio è la composizione di trame compossibili, le opere dei poeti e dei narratori lievitano in virtù della tensione a far coesistere tutti i possibili, senza alcuna frontiera disgiuntiva. È interessante aggiungere che Leibniz era convinto che i romanzi possano essere intesi come una rappresentazione in compendio dell’ordine cosmico, dal momento che gli intrighi premettono sempre una soluzione armonica (cfr. Mollat, 51).
La suprema bellezza coincide con l’armonia universale, con la perfezione assoluta; la bellezza, così, è una proprietà del mondo derivante dalla sua forma e non può essere definita affatto come un mero orpello ornamentale.

Coni d’ombra e dissonanze regolate
Principio di invarianza e matrice di infinite variazioni, l’armonia presuppone coni d’ombra o dissonanze regolate, dal momento che è espressa da una tonalità cromatica chiaroscura; può essere intesa anche come una polifonia di voci dotate di diverse gradazioni tonali, ma non per questo priva di equilibrio, come un accordo di forme contrarie ma compossibili. La dissonanza non ha la valenza di una nota irregolare, di un eccesso dell’accordo, quanto piuttosto di una connessione profonda impercettibile, di un congegno oscuro del progresso.
La valorizzazione estetica dell’armonia è la chiave di volta per rendere ragione della presenza del male nel mondo. ‹‹Come nelle pitture le ombre sono necessarie, così nella serie delle cose umane è necessario che vengano i mali e gli scandali; né deve essere dubbio che queste stesse cose che sembrano mali vengano volti alla maggiore gloria di Dio e alla felicità degli uomini pii. [...] Anche la simmetria degli edifici non viene contemplata allo stesso modo da ogni luogo. E alcune pitture sono a tal punto regolate dalle leggi della prospettiva, che non vengono riconosciute se non da una certa posizione dell’occhio» (De Schismate, A IV, 259).
Il caos, ciò che è deforme o disarmonico, è una diversità riconducibile a forme specifiche complessive. In realtà, «le dissonanze stesse aumentano la gradevolezza, se sono subito ricondotte alla concordia, mediante altre dissonanze» (NE, IV, XVI, 12).
Per fare un esempio, è un dato di fatto che nel mondo esistano esseri mostruosi, oggetto di studio della teratologia. La cultura barocca si è interrogata sulle cause della formazione di individui albini, ibridi, meticci e deformi. Si tratti di casi di tradimento somatico della proporzione naturale che sembrerebbero incompossibili rispetto ai canoni del regno della Grazia. I teofili scongiuravano imbarazzi e scacchi teologici riferendosi ad una solida tradizione cristiana di redenzione della mostruosità, codificata dai bestiari moralizzati, propria di una concezione pancalistica del cosmos, tipicamente agostiniana. In definitiva, i mostri sono belli, dal momento che hanno a pieno titolo lo statuto di creature di Dio.
Come sosteneva l’anonimo autore ellenistico del Sublime, i coni d’ombra sono volti alla concentrazione dello sguardo sugli scorci luminosi. Spesso un male premette un bene. Se il mondo fosse immune dal peccato, non avrebbe conosciuto Cristo. È la malattia a metterci nella condizione di apprezzare lo stato di salute, il pieno vigore fisico. Se il divenire fosse esente da urti, non si darebbe mai progresso, il motore del perfezionamento universale.

Leibniz e l’arte
Rispetto ai convincimenti, sostenuti con sufficienza, di qualche osservatore, l’interesse poliedicro di Leibniz non trascurava affatto il variegato universo delle creazioni artistiche. L’esemplificazione di problematiche specifiche della metafisica leibniziana è affidata, per ragioni tutt’altro che accidentali, a caratterizzazioni musicali o pittoriche. In alcuni passaggi della propria produzione esoterica, inoltre, Leibniz assimila, come abbiamo visto, la storia universale al romanzo di Dio.
Alcune lettere private fanno luce con decisione sugli interessi artistici di Leibniz.
In una lettera a Conrad Helfing dell’aprile del 1709, per fare un esempio, Leibniz ha sostenuto che la musica del proprio tempo fosse condizionata dall’emergenza di un elevato grado di artificiosità, connesso a ripetizioni di contenuti e forme stilistiche, rispondenti alle mode del momento. La composizione musicale richiede piuttosto immediatezza ed è per questa ragione che l’autentico musicista non possa essere un teorico. Il rispetto formale delle proporzioni matematiche sottese alla composizione non è di per sé una condizione di qualità estetica; ad esso è necessario associare, infatti, il genio, attitudine immaginativa oltremodo pratica.
Nella lettera a Polycarp Marci del 13 gennaio 1682, invece, Leibniz ha sostenuto, in relazione alla polemica luterana intorno alla legittimità morale della produzione operistica, la tesi secondo cui l’opera riconosca un efficace strumento persuasivo, attivo sulla sfera del sentimento. Per questa ragione, l’opera musicale è votata ad assolvere una funzione pedagogica che, in ogni modo, dovrebbe essere premessa dall’attenuazione delle raffigurazioni del vizio. Più in generale, i poeti dovrebbero occuparsi di argomenti morali, delineando la bellezza della vita eterna. La dignità morale dell’opera deriva dalla proprie origini, riconducibili fondamentalmente alle sacre rappresentazioni della Passione.

Le esemplificazioni dell’interesse artistico di Leibniz che abbiamo presentato hanno una valenza significativa. La filosofia di Leibniz è barocca per eccellenza; in essa le metafore artistiche e le note estetiche non assolvono una vuota funzione decorativa, dal momento che sono, piuttosto, ingranaggi del sistema non sistematico volto a riflettere il mondo con lo sguardo da nessun luogo di Dio.


Codici bibliografici

A Sämtliche Schriften und Briefe, Akademie Verlag, Berlin 1923 ss.
C Opuscoles et fragments inédits de Leibniz, éd. par L. Couturat, Nachdruckauflage Olms, Hildesheim/Zürich/New York 1988.
DM Discours de Métaphysique
G Die philosophischen Schriften, hrsg. von Gerhardt, Olms, Hildesheim 1960-1961, I-III.
Gr Textes inédits, publiés et annotés par G. Grua, Presses Universitaires de France, Paris 1948.
LW Briefwechsel zwischen Leibniz und Christian Wolff, hrsg. von C. I. Gerhardt, Olms, Hildesheim 1963.
M Monadologie.
NE Nouveaux essais sur l’entendement humain.
PNG Principes de la nature et de la grace fondés en raison.
T Essais de Théodicée.

Perchè Pieghe Libertarie?
di FRANCESCO GIAMPIETRI
Un blog rappresenta senz'altro un'area virtuale di libertà, uno scenario di autentica libertà virtuale. Si tratta di un recinto di contenimento di pensieri che altrimenti resterebbero soffocati nella mente. Pieghe libertarie si presenta così come la locandina pubblica delle riflessioni formulate su se stesso e sul mondo da un venticinquenne che non vuole rassegnarsi a subire passivamente le immagini e i messaggi veicolati dalla struttura mediatica in cui siamo - necessariamente, pena la riduzione ad una condizione da anacoreti - inclusi. E' così che presento, dunque, il cannocchiale filosofico col quale osservo gli intighi del mondo, appoggiato, come una vedetta notturna, sul davanzale di una fessura immaginaria.
Il titolo del blog ha un proprio senso, non è affatto casuale; è l'effetto di un'articolata riflessione carica di suggestioni, riflesso di echi espressivi. Non svelo nulla al riguardo. Ognuno, se vuole, può intenderlo come meglio crede.
Perchè in Pieghe libertarie?
di FEDERICA PASSARELLI

Per seguire, forse, il consiglio di Walt Whitman il quale suggeriva di gridare il proprio urlo barbarico sui tetti del mondo? Quale modo migliore di questo, dunque: star seduti (non sulle tegole, ovvio!, ma) dinanzi ad un computer - digitando follemente le proprie incursioni letterarie e non sui bottoncini della tastiera! - approfittando dell’opportunità di lanciare nel web tutto ciò che si libra verace nella mente! Ora, ‘piega’ oltre che ad indicare un punto in cui qualcosa si piega ovvero un’increspatura, è altresì la parte più intima e nascosta dell’anima (le tanto scrutate pieghe dell’anima!). Essendo nel nostro caso ‘libertaria’, allora è d’uopo manifestarla e diffonderla tra quelle altre pieghe dell’universo! Come fosse un lenzuolo che si lascia asciugare al vento: si contorce, si stende, si piega e diffonde nell’aria quel profumo che sa di fresco. Così prendono aria e si sprigionano nell’infinito ancestrale le curve più nascoste dell’anima amica.
Il poeta americano declamava, inoltre, che alla domanda così triste che ricorre - che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita? Segue una risposta che gorgheggia nell’aria più o meno così: Che tu sei qui - che esiste la vita e l’individuo, che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un tuo verso. E sebbene possa trattarsi di un verso non ancora ben definito, è stimolante trovare la tonalità adatta per far udire ciò che siamo, ciò che vogliamo.