In un passaggio della mia tesi di laurea magistrale, consacrata a Leibniz e al mondo barocco, ho paragonato il mondo al puzzle di Dio, nel contesto del quale ogni frammento apparentemente insignificante è funzionale alla composizione del tutto, che senza quell'elemento marginale, oltremodo particolare, non sarebbe affatto optimum, degno di essere stato scelto fra infinite soluzioni alternative. Mi sembrava un'immagine significativa, per certi versi originale, per non ripetere il riferimento alla presentazione del mondo come romanzo di Dio, questa sì, presente in alcuni passaggi della produzione "privata" dello stesso Leibniz. In questi giorni sto leggendo La vita istruzioni per l'uso, un capolavoro della letteratura del Novecento,pubblicato nel' 78 da quel geniaccio di Perec e tanto amato (con sacrosanta ragione) da Calvino. Scrive Perec che in definitiva la verità ultima del puzzle è che
malgrado la apparenze, non si tratta di un gioco solitario: ogni gesto che compie l'attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall'altro.
La difficoltà del puzzle è data dalla sapienza del taglio. Scrivevo la scorsa estate: "Ogni ente è un frammento infinitesimo di un puzzle infinito, che può essere composto soltanto da Dio, dal momento che è stato proprio Dio ad intagliare i contorni delle componibilità compossibili".
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