La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



lunedì 25 maggio 2009

SURREALISMO LETTERARIO TRA LE PIEGHE DI UN ENIGMA




C'era una volta un tema e una traccia che aveva come titolo: Il dolore fisico passa, ma la sofferenza emotiva mette radici nel tuo cuore e nella tua mente e può non scomparire mai.
Propostomi lo svolgimento dell'elaborato iniziai a buttar giù qualcosa più che altro per tentare d'andare incontro alle necessità scolastiche di uno studente che non riusciva a trovare ispirazione...


Quando si parla di ‘dolore’ si può intendere una sensazione spiacevole per effetto di un male corporeo oppure un sentimento o stato di profonda infelicità dovuto alla insoddisfazione dei bisogni, delle aspirazioni o delle tendenze individuali, alla privazione di ciò che procura piacere e gioia o al verificarsi di sventure. Talvolta un dolore fisico è la causa di una sofferenza morale. Talvolta una sofferenza morale è la causa di un dolore fisico. Ad ogni modo, nella maggior parte dei casi, le sofferenze che affliggono il corpo sono passeggere mentre, al contrario, è più difficile liberarsi dalle agonie che vanno ad intaccare la sfera emotiva di un individuo.
Volendo proporre degli esempi in campo letterario, Primo Levi, scrittore torinese di famiglia ebrea, è probabilmente l’espressione più forte di quella che si definisce ‘sofferenza emotiva’. È interessante rilevare, tra l’altro, che il narratore, di professione chimico, giunse alla letteratura soprattutto per l’impulso insopprimibile alla testimonianza intorno alle tragiche esperienze del campo di concentramento. Il racconto delle traversie subite ad Auschwitz è consegnato a ‘Se questo è un uomo’ (1947), l’opera più alta che sia nata dalla seconda guerra mondiale, negli aspetti più atroci: vi si narrano l’arresto, la deportazione, i lunghi mesi di sofferenza sull’orlo della morte, la disperata resistenza non solo per sopravvivere fisicamente, ma anche per salvare la dignità dell’uomo. La testimonianza diretta e l’autenticità agghiacciante delle parole di Primo Levi riflettono non solo la sofferenza ma anche il trauma psicologico con cui si trovarono a dover convivere i superstiti dei lager nazisti.
Il ricordo delle atrocità subite e della follia nazista non riusciranno mai a scomparire dai cuori dei sopravvissuti, così come non si cancellerà mai il marchio che essi portavano sul braccio quando erano deportati nei campi di concentramento. “Considerate se questo è un uomo o una donna”, scriveva Primo Levi nella premessa al libro citato; ed egli, segnato così profondamente dal fantasma della guerra e dalle brutalità subite si vedrà libero, a distanza di anni, solo col suicidio.
Diversa l’esperienza dello scrittore russo Fёdor Dostoevskij. Arrestato con l’accusa di attività cospiratoria e descritto nei verbali come “particolarmente pericoloso” - non avendo negato la sua partecipazione alle attività, peraltro esclusivamente di carattere intellettuale, del circolo incriminato - fu condannato a morte. Solo all’ultimo momento giunse la grazia dello zar, perché un procedimento del Codice Penale dell’epoca prevedeva che in caso di grazia sovrana, i condannati dovevano essere informati soltanto pochi istanti prima dell’esecuzione. E così, nel libro intitolato ‘L’idiota’ (1869) avvalendosi della figura e del racconto del principe Myskin (racconto riflettente, è chiaro, il suo personale stato d’animo) offre al lettore lo scenario delle sensazioni che il condannato a morte prova dinanzi alla consapevolezza del dover morire. Egli afferma, dunque, che “quando c’è la tortura, ci sono sofferenze e ferite, dolore fisico, e perciò tutto questo allevia le sofferenze dello spirito, così che soffri soltanto per le ferite, finchè non muori. Eppure il dolore maggiore, il più acuto, forse non sta nelle ferite, ma nel fatto che hai la certezza che ecco, tra un’ora, e poi tra dieci minuti, e poi tra mezzo minuto, e poi adesso, ecco, subito, l’anima volerà via dal corpo, e tu non sarai più un uomo, e questo è ormai certezza: la cosa fondamentale è che sia una certezza”. E proprio per questo Dostoevskij afferma che uccidere per punire un omicidio è, per la sua atrocità, un castigo incomparabilmente maggiore del delitto stesso.
Restando nell’ambito della letteratura russa, è possibile imbattersi in un’altra rilevante esperienza che tende a chiarire la linea di demarcazione tra il dolore fisico e quello emotivo. Tale è l’esperienza del contemporaneo Michail Bulgakov, scrittore brillante ma vittima di una critica spietata che giunse persino a definirlo “un addetto alle pulizie della nostra letteratura, intento a raccogliere gli avanzi sputazzati da almeno una dozzina di commensali”.
Accusato di tendenza controrivoluzionaria e incluso nella schiera dei ‘poputciri’, i “compagni di strada” che senza partecipare alla edificazione della giovane società sovietica si limitavano a non opporsi apertamente al regime, Bulgakov vide pian piano annientata la sua carriera di scrittore. Diverse sue opere ebbero vicissitudini complesse: alcune furono pubblicate all’incirca quarant’anni dopo la stesura, altre addirittura senza l’autorizzazione dell’autore; i diari che Bulgakov era andato scrivendo nel corso di parecchi anni vennero sequestrati dalla OGPU, la polizia del regime e furono soppressi anche i drammi teatrali. Si delinearono così le premesse che indussero Bulgakov a scrivere due lettere al Governo dell’URSS.
In una prima lettera destinata a non ricevere risposta, lo scrittore provvide ad illustrare quanto la stampa dell’URSS e insieme ad essa tutte le organizzazioni alle quali era affidato il controllo del repertorio, per tutti gli anni della sua attività letteraria, avessero dimostrato come le sue opere non potessero esistere in URSS.
Consapevole, dunque, che fossero perite tutte le sue opere, non solo quelle passate, ma altresì quelle presenti come quelle future, Bulgakov sostenne che ormai tutto era per lui senza speranza, anche perché “l’impossibilità di scrivere equivale ad essere sepolto vivo”.
La lettera conteneva, inoltre, la richiesta di un ordine di abbandono dei confini dell’URSS. Chiese, poi, di essere lasciato libero, non potendo essere più utile tra la sua gente, nella sua patria. Chiese, nel caso di condanna a un silenzio a vita in URSS, un lavoro come regista titolare in un teatro, o altrimenti come regista o autore provetto, e se ciò non fosse stato possibile, come regista di laboratorio, e se anche questo gli fosse stato negato, almeno come comparsa e proseguendo, sempre più umiliandosi, un lavoro come operaio di scena.
Nell’ultima parte della lettera, come un grido disperato, Bulgakov affermava di avere dinanzi a sé solo la mendicità, la strada e la fine se il Governo sovietico non avesse provveduto nei suoi confronti in qualunque modo.
Oggi Bulgakov è unanimemente considerato uno dei maggiori scrittori del Ventesimo secolo e la sua opera, assieme a quella di altri ‘grandi’ come Gogol’ e Belvj, una delle più originali manifestazioni del filone fantastico e carnevalesco della letteratura russa.
È incredibile come un uomo possa trascorrere tutta la vita nella sofferenza emotiva, più che nel dolore fisico.
Un altro celeberrimo esempio in proposito è il filosofo e teologo francese Pietro Abelardo. Vissuto intorno al 1100, si legò sentimentalmente a Eloisa che divenne segretamente sua moglie, ma lo zio della giovane lo fece evirare ad opera di alcuni miserabili da lui assoldati. Dopo il dramma dell’evirazione, Abelardo si ritirò in un’abbazia e successivamente anche Eloisa prese il velo in un monastero.
Nota è la lettera di Abelardo in cui egli narrava lo stupore, il pianto e le grida dei suoi concittadini e dei suoi discepoli in seguito alla sua evirazione. Sottolineando che la sofferenza maggiore non era tanto quella fisica, quanto piuttosto quella provata nei confronti di coloro che penavano per lui e quella della sua personale vergogna. Il dolore per la vergogna era talmente più forte del dolore corporale che, proprio a causa della sua infelicità (dopo la sua evirazione, infatti, la notizia si diffuse ovunque e con una rapidità tale che non poteva più mostrarsi in pubblico senza essere vittima di insulti, maldicenze, dita puntate e quant’altro) decise di ritirarsi in un rifugio monastico per il resto della sua triste vita.

A questo punto andrebbero formulate le conclusioni. Decido di non riportarle perché questo testo non conclude. E non conclude perché ho deciso di invitare te, o lettore, a proporre la tua chiosa e le tue argomentazioni. Un pensiero, un'idea o qualsivoglia prospettiva sarà bene accolta e rispettata. Chiamiamo pure questo proposito: esperimento d'interazione!


1 commento:

  1. Si tratta di un testo molto suggestivo, coinvolgente, un'immersione fra le pieghe della letteratura mondiale per sviscerare una questione vecchia come l'uomo, soggettiva nel senso autentico del termine, nel senso che ognuno di noi ha vissuto sulla propria pelle le varianti del dolore e della sofferenza. Un complimento sincero all'autrice che, come sempre, conferma il proprio talento di divulgatrice culturale, capace di rendere alla portata di tutti temi comunque complessi, che valgono come inviti al pensiero.

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