di MEHMEDOVIC MIRZA
Le osservazioni che seguono sono preteoriche nel senso che anticipano una teoria dell’identità. Le domande cui qui vogliamo dare risposta sono tendenziose nel senso in cui, chi le comprende, capisce che la direzione che vuole assumere la ricerca è quella della negazione della questione da un punto di vista metafisico e, viceversa, dell’affermarsi della questione da un punto di vista epistemologico - linguistico. Non si danno, pertanto, presupposizioni di sorta che diano adito ad una vuota speculazione intorno a quello che deve rimanere una mera descrizione del fenomeno, o stato delle cose. Detto ciò:
Perché troviamo incomprensibile o inaccettabile l’identità di mente e cervello? La questione è forse metafisica? Non possiamo immedesimarci nello stato cerebrale quando proviamo una certa sensazione di dolore o piacere poiché siamo schiavi di un limite estetico? Noi non “crediamo”, il che è fatale all’indagine scientifica, che una pietra provi o possa provare dolore. Così, per analogia, troviamo irresistibile vedere la pietra (cosa) nel modo in cui vediamo una certa attività neuronale (stato di cose). La prospettiva è l’essenziale, a dispetto di ogni critica anti-psicologistica. Il solipsismo, possiamo sostenere per un attimo la tesi, funziona nella misura in cui “io” sono, e ancor più nella misura in cui “io” sono una cosa che sente, che vede, che soffre, solo che (qui) “cosa” è preferibilmente o un’essenza distinta, o un limite trascendentale – come un occhio che non vede sé nel campo visivo – del mondo fattosi punto geometrico o superficie delimitante. Fin qui sembra che basti estendere il vocabolario, passando da “cosa” ad “essenza”, per giustificare qualcosa che, a dirla tutta, non va affatto giustificato mediante uno sforzo della ragione, soprattutto di quella filosofica. La questione è ancora una volta empirica, a meno che il vocabolario non diventi la ragion sufficiente di una difficoltà insormontabile.
Quello che crediamo circa le possibilità di identificare stati cerebrali e stati mentali dipende dal modo in cui queste singole credenze (credenze su stati mentali e cerebrali) si relazionano a contesti distinti. Così il contesto del vissuto, da una parte, differisce profondamente dal contesto, dall’altra, della prassi scientifica oggi particolarmente in fermento e particolarmente nell’ambito dell’indagine circa le funzioni svolte dalle parti componenti l’encefalo. Le tendenze scettiche sono tendenze di senso comune, soprattutto in filosofia, soprattutto quando il filosofo non ha la cura, ma in buona misura pregiudizio, nell’indagare le possibilità della conoscenza scientifica. Noi non possiamo concepire l’identità tra una sensazione di dolore – alla quale, come Kripke afferma, sarebbe essenziale l’esser quella sensazione – e un qualcosa che entra nella “sfera del noto” attraverso un canale differente: quello della percezione/visione della cosa. Ma, come ho prima specificato, l’estensione del vocabolario è fatale in tutte le implicazioni ch seguono cosicché, se è la traduzione da un vocabolario ad un altro quello che stiamo cercando, abbiamo perso di vista l’obiettivo: la soluzione di un presunto problema. La soluzione, viceversa, consisterebbe in buona parte nella scelta ponderata dei termini medi – oltre che nelle premesse – i quali, riflettendo la metodologia di indagine, rappresenterebbero il migliore alleato. Cosa vogliamo dire con ciò? Proviamo a servirci di un semplice esempio. Supponiamo di trovarci in un laboratorio e di intraprendere un esperimento ideale. Supponiamo che un equipe di scienziati riesca a stabilire con certezza che il rapporto tra certi stati cerebrali e certe sensazioni, caratteristiche ed esplicitamente descritte dal soggetto S, sia puntuale secondo certe variabili. Il risultato di tale esperimento non catturerebbe l’attenzione del filosofo se l’equipe mantenesse intenzionalmente implicita la relazione, descrivendo l’evento in termini puramente quantitativi e con linguaggio matematico. Ecco perché la scelta dei termini determina, in qualche misura, la scelta delle possibili implicazioni. Se, per tanto, gli scienziati mantenessero esplicito il rapporto tra stati cerebrali e stati mentali, la mera scelta di una descrizione in termini di correlazioni determinerebbe una serie di implicazioni indesiderabili e potenzialmente non osservativamente giustificabili. La ragione di questi in-desiderata sta tutta nel potenziale epistemico inespresso, l’insieme degli impegni epistemici del filosofo che non tardano a manifestarsi. Questi in-desiderata sono perlopiù empiricamente non giustificati. Nondimeno si ha spesso il sospetto che un’argomentazione cartesiana debba, tutto sommato, salvare qualcosa di importante – il fenomeno o la teoria che si cela dietro certe conclusioni, non è chiaro – che sia la “verità”, o il diritto di avere l’ultima parola in merito alla questione, per non parlare di quanto siamo affezionati ai colori e ai sapori del vissuto. Ancora una volta i filosofi tendono a confondere le acque perché l’analisi rigorosa del corretto uso dei termini – entro i confini di un gioco linguistico – è per loro uno sforzo non compreso e, dunque, “gioco forza” immotivato. Ma quale sorpresa e quale imbarazzo coglie coloro che non si sono presi la briga di “vederci chiaro”, tutto ciò rappresenta l’occasione per l’ironia di coloro che seguono.
Generalmente siamo insoddisfatti quando i termini dell’equazione sono dissonanti. Come si può concepire l’identità tra la rappresentazione visiva di un paesaggio ricco di forme e colori e una certa attività elettro-chimica del cervello? Siamo schiavi, come dicevamo all’inizio, di un limite/pregiudizio estetico. Questi due sembrano davvero due tipi distinti di fenomeni e, soggettivamente parlando, come tali si presentano tutte le volte che li raffrontiamo. C’è qualcosa di impersonale nell’oggetto osservato che nel vissuto rimane: l’altro tra i molti oggetti del campo visivo. Quest’impressione di alterità che è davvero tale si insinua nell’analisi dell’idea della “mente”. La mente, come cosa pensante cartesiana, è “cosa” nella misura in cui può essere trattata concettualmente, e implicitamente, come l’altro da quel limite che, oltre a sentire, vedere, gustare, ora giudica di sé, della propria essenza, negando di sé la propria ancestrale intuizione di limite nel campo visivo, sporcandosi le mani di un materialismo che, sebbene non in stato embrionale, a sua volta si macchia della colpa di una confusione semantica senza precedenti. Ricorsivamente il vocabolario si amplifica e diviene mezzo di ulteriori congetture fondamento, storicamente, della scuola a priori. Ora, se ciò che caratterizza questa grande separazione di ambiti del reale, o esperienze, è nell’insieme il prodotto di un apparato metaforico e in principio non autocritico, possiamo ben sperare che il riconquistato buon senso rappresenti con rigore quell’idea relativa all’uso linguistico che sta “ a metà strada” tra Platone e Aristotele. Sappiamo che per il primo il metaforico, come in generale il poetico, sono mezzi che distolgono dalla conoscenza del vero, per il secondo sono l’essenziale, il vero mezzo dell’imprevedibile e inedita novità. Non possiamo pronunciarci più di tanto al riguardo – lo sforzo che vogliamo compiere non è ermeneutico – tuttavia, se non altro, sembra che v’è qualcosa relativamente al nostro modo di concepire le soluzioni ai problemi che deve esser messo in buon ordine. Chi spera che la proporzione sia geometrica non intuisce la questione in modo adeguato. La proporzione, a dirla tutta, potrebbe rivelarsi del tutto disillusiva, senza però mancare di offrire un lauto guadagno. Proviamo a vedere la questione nel modo seguente:
Quale rapporto esiste, in una televisione a tubo catodico, tra gli elettroni proiettati sullo schermo secondo certe frequenze e l’immagine che osserviamo? Il rapporto, o la relazione, è una puntuale identità, ma, cosa più importante, tale relazione di identità è dinamica, non statica. Nel nostro modo di ragionare, spesso per modelli, non consideriamo problematico il rapporto di identità, dinamico e non deterministico, che porta comunemente il nome di “immagine”. La problematicità è conseguente alla separazione di morale ed estetica, per cui quel limite del mondo, trascendente una volta, si fa “fisico” e avanza la pretesa di coglier se stesso ed essenzialmente fuori da ciò che, invece, essenzialmente lo caratterizza. Ragion per cui la geometria ci da modo di privarci rigorosamente del buon senso, quasi che quest’ultimo sia un pesante cappotto che ci troviamo ad indossare nel giorno più caldo della più calda estate africana. Senza mezzi termini, possiamo dire che è la geometrizzazione spaziale del rapporto tra concetti a trarci in inganno – non un genio maligno – cosicché, se da una parte poniamo il cervello, necessità e coerenza vuole che dall’altra si abbia la mente e il “luogo” delle sue idee.
Sebbene questa metafora, conformemente a quanto prospettava Aristotele, abbia portato davvero del nuovo nella filosofia, questo qualcosa di nuovo si è portato dietro ogni genere di inintelligibilità concettuale. Così, per amore di reiterazioni costanti, la filosofia si è trascinata dietro il nuovo – ora vecchio – fardello del dualismo, senza trovare una via d’uscita, quel distinto modulatore dello spazio che ci fa percepire d’aver oltrepassato la soglia dell’indesiderato per andare incontro a quel che ci sembra d’aver sempre cercato. Questa soglia, oggi più di ieri, vogliamo barattarla con il pregiudizio di cui ci riempiamo le tasche da tempo immemore. Non possiamo non barattare il vecchio col nuovo, e sottolineo che non possiamo poiché, gioco forza, nel modo in cui vecchie idee si insinuarono una volta nel pensiero speculativo, nuove idee a loro volta si insinuano prepotentemente nella testa di coloro che di “mente” non vorranno più parlare, a dispetto della secolare prospettiva del dio geometra.
Riassumendo:
- La separazione di etica ed estetica ha come conseguenza la reificazione del trascendentale e, di conseguenza, come sua legittima conseguenza, il dualismo cartesiano.
- L’identità come relazione o rapporto non è espressione del modo corretto di intendere il rapporto mente-corpo, poiché trascura almeno due elementi: 1°la spazializzazione geometrica - simmetrica di mente e cervello (un esempio di metafora), 2°l’adozione di vocabolari che portano a una pluralità di contesti semantici che dovrebbero poi, successivamente, essere intesi come il medesimo (il che rappresenta per il filosofo un bel problema).
- Nella misura in cui la scienza dispone di una buon approccio metodologico nell’analisi dell’encefalo, i problemi di correlazione o di identificazione vengono meno. Questa prospettiva riduzionista non è fatale all’ontologia del soggetto, mentre è certamente fatale – ben venga! – alla speculazione che qualifica ogni prodotto dell’immaginazione come intuitivamente valido e, dunque, assolutamente valido.
Ammetto che, contrariamente a quanto qui si afferma, la filosofia tutt’ora sembra seguire un orientamento differente. Le questioni sembrano tutt’altro che chiarite e le eredità della teologia e del romanticismo sembrano dominanti in molti pensatori che, attraverso l’insegnamento accademico, hanno un efficace accesso alle menti degli sprovveduti. Ne è uno straordinario esempio il filosofo e psicologo Humphrey, il quale recentemente, nel suo “Seeing Red, A Study in Consciousness”, ha tratto le seguenti conclusioni “teoriche”:
la coscienza – questo è il termine che per lo più usa Humphrey – conta perché il suo compito è quello di contare. È stata progettata – ma certo! – per creare, negli esseri umani, un Sé la cui vita vale la pena di seguire. Per incominciare – prosegue –, il Sé è qui per noi, fenomenicamente denso e sostanziale. Ed essere qui è un gran passo avanti rispetto a non esserci. Un Sé temporalmente denso è qualcosa su cui costruire una ricca vita soggettiva, e per gli esseri umani la cosa si può spingere ancora oltre: ora abbiamo un Sé che, comunque ci si arrivi, sembra abitare un diverso universo di essere spirituale. E questo è qualcos’ altro.[1]
Ammetto di rimanere spiazzato da tanta evidenza empirica, tutte le volte che rileggo il passo. Credevo, prima di leggere Humphrey, che nella coscienza vi fosse qualcosa di problematico. Mi accorgo invece che bastano poche metafore e un po’ di sana filosofia cartesiana a risolvere nell’assurdo tutta la serietà con cui avevamo cominciato ad andare a braccetto. Ammetto anche di essere un po’ nostalgico, forse perché considero la serietà un pregio. Ad ogni modo Humphrey rappresenta bene la tradizione filosofica da cui le attuali generazioni, per non dire le future, di filosofi dovrebbero discostarsi. Il senso del religioso che dalle parole dell’autore citato traspaiono, non hanno nulla a che vedere con una eventuale soluzione del problema relativo al modo in cui il cervello crea il fenomeno della coscienza. Forse nemmeno quest’ultima affermazione ha la corretta impostazione teorica. Il fenomeno della coscienza, sarebbe il caso di verificarlo, è davvero un fenomeno che, come nelle parole di Humphrey appare evidente, ha un che di “temporalmente denso”? Certamente sì: nella misura in cui l’attività cerebrale è, al tempo t, attività di materia o energia (il che non è problematico da che si comprende la natura della famosa formula di Einstein). Il sospetto bussa alla porta nel momento in cui subentrano elementi di un “diverso universo di essere spirituale”, sicché tutte le difficoltà che abbiamo denunciato in queste pagine sono le medesime che in troppi autori ancora appaiono come “eleganti soluzioni”.
[1] NICOLAS HUMPHREY, “Seeing Red, A Study in Consciousness”, Copyright © 2006 by the President and Fellows of Harvard College, USA; “Rosso, uno studio sulla coscienza” trad. ita. Eva Filoramo, 2007 Codice edizioni, Torino.
Grazie caro per aver pubblicato questa breve riflessione. Spero che qualche visitatore voglia esprimere un commento di carattere filosofico, così da poter aprire un minimo di sana conversazione digitale.
RispondiEliminaRingrazio sinceramente Mirza per aver donato al blog un altro contributo di alto spessore filosofico, capace di coinvolgere l'attenzione anche di lettori non addetti ai lavori. Pubblico la mia nota al post con evidente ritardo, a causa di problemi di connessione che mi rendono virtualmente distante da "Pieghe" in queste settimane. Entrando nel merito, devo dire che condivido l'argomentazione di Mirza, caratterizzata da una puntualità espositiva che non può non essere oggetto di consensi.
RispondiEliminaDal canto mio, ringrazio Mirza per rendermi partecipe delle sue riflessioni. Leggere i suoi scritti è spostare l'orizzonte un pò più in là, ampliare le proprie vedute. Gli auguro davvero di trovare un vivace interlocutore.
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