La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



giovedì 28 maggio 2009

Sull'identità mente - cervello
Osservazioni preteoriche
di MEHMEDOVIC MIRZA

Le osservazioni che seguono sono preteoriche nel senso che anticipano una teoria dell’identità. Le domande cui qui vogliamo dare risposta sono tendenziose nel senso in cui, chi le comprende, capisce che la direzione che vuole assumere la ricerca è quella della negazione della questione da un punto di vista metafisico e, viceversa, dell’affermarsi della questione da un punto di vista epistemologico - linguistico. Non si danno, pertanto, presupposizioni di sorta che diano adito ad una vuota speculazione intorno a quello che deve rimanere una mera descrizione del fenomeno, o stato delle cose. Detto ciò:
Perché troviamo incomprensibile o inaccettabile l’identità di mente e cervello? La questione è forse metafisica? Non possiamo immedesimarci nello stato cerebrale quando proviamo una certa sensazione di dolore o piacere poiché siamo schiavi di un limite estetico? Noi non “crediamo”, il che è fatale all’indagine scientifica, che una pietra provi o possa provare dolore. Così, per analogia, troviamo irresistibile vedere la pietra (cosa) nel modo in cui vediamo una certa attività neuronale (stato di cose). La prospettiva è l’essenziale, a dispetto di ogni critica anti-psicologistica. Il solipsismo, possiamo sostenere per un attimo la tesi, funziona nella misura in cui “io” sono, e ancor più nella misura in cui “io” sono una cosa che sente, che vede, che soffre, solo che (qui) “cosa” è preferibilmente o un’essenza distinta, o un limite trascendentale – come un occhio che non vede sé nel campo visivo – del mondo fattosi punto geometrico o superficie delimitante. Fin qui sembra che basti estendere il vocabolario, passando da “cosa” ad “essenza”, per giustificare qualcosa che, a dirla tutta, non va affatto giustificato mediante uno sforzo della ragione, soprattutto di quella filosofica. La questione è ancora una volta empirica, a meno che il vocabolario non diventi la ragion sufficiente di una difficoltà insormontabile.
Quello che crediamo circa le possibilità di identificare stati cerebrali e stati mentali dipende dal modo in cui queste singole credenze (credenze su stati mentali e cerebrali) si relazionano a contesti distinti. Così il contesto del vissuto, da una parte, differisce profondamente dal contesto, dall’altra, della prassi scientifica oggi particolarmente in fermento e particolarmente nell’ambito dell’indagine circa le funzioni svolte dalle parti componenti l’encefalo. Le tendenze scettiche sono tendenze di senso comune, soprattutto in filosofia, soprattutto quando il filosofo non ha la cura, ma in buona misura pregiudizio, nell’indagare le possibilità della conoscenza scientifica. Noi non possiamo concepire l’identità tra una sensazione di dolore – alla quale, come Kripke afferma, sarebbe essenziale l’esser quella sensazione – e un qualcosa che entra nella “sfera del noto” attraverso un canale differente: quello della percezione/visione della cosa. Ma, come ho prima specificato, l’estensione del vocabolario è fatale in tutte le implicazioni ch seguono cosicché, se è la traduzione da un vocabolario ad un altro quello che stiamo cercando, abbiamo perso di vista l’obiettivo: la soluzione di un presunto problema. La soluzione, viceversa, consisterebbe in buona parte nella scelta ponderata dei termini medi – oltre che nelle premesse – i quali, riflettendo la metodologia di indagine, rappresenterebbero il migliore alleato. Cosa vogliamo dire con ciò? Proviamo a servirci di un semplice esempio. Supponiamo di trovarci in un laboratorio e di intraprendere un esperimento ideale. Supponiamo che un equipe di scienziati riesca a stabilire con certezza che il rapporto tra certi stati cerebrali e certe sensazioni, caratteristiche ed esplicitamente descritte dal soggetto S, sia puntuale secondo certe variabili. Il risultato di tale esperimento non catturerebbe l’attenzione del filosofo se l’equipe mantenesse intenzionalmente implicita la relazione, descrivendo l’evento in termini puramente quantitativi e con linguaggio matematico. Ecco perché la scelta dei termini determina, in qualche misura, la scelta delle possibili implicazioni. Se, per tanto, gli scienziati mantenessero esplicito il rapporto tra stati cerebrali e stati mentali, la mera scelta di una descrizione in termini di correlazioni determinerebbe una serie di implicazioni indesiderabili e potenzialmente non osservativamente giustificabili. La ragione di questi in-desiderata sta tutta nel potenziale epistemico inespresso, l’insieme degli impegni epistemici del filosofo che non tardano a manifestarsi. Questi in-desiderata sono perlopiù empiricamente non giustificati. Nondimeno si ha spesso il sospetto che un’argomentazione cartesiana debba, tutto sommato, salvare qualcosa di importante – il fenomeno o la teoria che si cela dietro certe conclusioni, non è chiaro – che sia la “verità”, o il diritto di avere l’ultima parola in merito alla questione, per non parlare di quanto siamo affezionati ai colori e ai sapori del vissuto. Ancora una volta i filosofi tendono a confondere le acque perché l’analisi rigorosa del corretto uso dei termini – entro i confini di un gioco linguistico – è per loro uno sforzo non compreso e, dunque, “gioco forza” immotivato. Ma quale sorpresa e quale imbarazzo coglie coloro che non si sono presi la briga di “vederci chiaro”, tutto ciò rappresenta l’occasione per l’ironia di coloro che seguono.
Generalmente siamo insoddisfatti quando i termini dell’equazione sono dissonanti. Come si può concepire l’identità tra la rappresentazione visiva di un paesaggio ricco di forme e colori e una certa attività elettro-chimica del cervello? Siamo schiavi, come dicevamo all’inizio, di un limite/pregiudizio estetico. Questi due sembrano davvero due tipi distinti di fenomeni e, soggettivamente parlando, come tali si presentano tutte le volte che li raffrontiamo. C’è qualcosa di impersonale nell’oggetto osservato che nel vissuto rimane: l’altro tra i molti oggetti del campo visivo. Quest’impressione di alterità che è davvero tale si insinua nell’analisi dell’idea della “mente”. La mente, come cosa pensante cartesiana, è “cosa” nella misura in cui può essere trattata concettualmente, e implicitamente, come l’altro da quel limite che, oltre a sentire, vedere, gustare, ora giudica di sé, della propria essenza, negando di sé la propria ancestrale intuizione di limite nel campo visivo, sporcandosi le mani di un materialismo che, sebbene non in stato embrionale, a sua volta si macchia della colpa di una confusione semantica senza precedenti. Ricorsivamente il vocabolario si amplifica e diviene mezzo di ulteriori congetture fondamento, storicamente, della scuola a priori. Ora, se ciò che caratterizza questa grande separazione di ambiti del reale, o esperienze, è nell’insieme il prodotto di un apparato metaforico e in principio non autocritico, possiamo ben sperare che il riconquistato buon senso rappresenti con rigore quell’idea relativa all’uso linguistico che sta “ a metà strada” tra Platone e Aristotele. Sappiamo che per il primo il metaforico, come in generale il poetico, sono mezzi che distolgono dalla conoscenza del vero, per il secondo sono l’essenziale, il vero mezzo dell’imprevedibile e inedita novità. Non possiamo pronunciarci più di tanto al riguardo – lo sforzo che vogliamo compiere non è ermeneutico – tuttavia, se non altro, sembra che v’è qualcosa relativamente al nostro modo di concepire le soluzioni ai problemi che deve esser messo in buon ordine. Chi spera che la proporzione sia geometrica non intuisce la questione in modo adeguato. La proporzione, a dirla tutta, potrebbe rivelarsi del tutto disillusiva, senza però mancare di offrire un lauto guadagno. Proviamo a vedere la questione nel modo seguente:
Quale rapporto esiste, in una televisione a tubo catodico, tra gli elettroni proiettati sullo schermo secondo certe frequenze e l’immagine che osserviamo? Il rapporto, o la relazione, è una puntuale identità, ma, cosa più importante, tale relazione di identità è dinamica, non statica. Nel nostro modo di ragionare, spesso per modelli, non consideriamo problematico il rapporto di identità, dinamico e non deterministico, che porta comunemente il nome di “immagine”. La problematicità è conseguente alla separazione di morale ed estetica, per cui quel limite del mondo, trascendente una volta, si fa “fisico” e avanza la pretesa di coglier se stesso ed essenzialmente fuori da ciò che, invece, essenzialmente lo caratterizza. Ragion per cui la geometria ci da modo di privarci rigorosamente del buon senso, quasi che quest’ultimo sia un pesante cappotto che ci troviamo ad indossare nel giorno più caldo della più calda estate africana. Senza mezzi termini, possiamo dire che è la geometrizzazione spaziale del rapporto tra concetti a trarci in inganno – non un genio maligno – cosicché, se da una parte poniamo il cervello, necessità e coerenza vuole che dall’altra si abbia la mente e il “luogo” delle sue idee.
Sebbene questa metafora, conformemente a quanto prospettava Aristotele, abbia portato davvero del nuovo nella filosofia, questo qualcosa di nuovo si è portato dietro ogni genere di inintelligibilità concettuale. Così, per amore di reiterazioni costanti, la filosofia si è trascinata dietro il nuovo – ora vecchio – fardello del dualismo, senza trovare una via d’uscita, quel distinto modulatore dello spazio che ci fa percepire d’aver oltrepassato la soglia dell’indesiderato per andare incontro a quel che ci sembra d’aver sempre cercato. Questa soglia, oggi più di ieri, vogliamo barattarla con il pregiudizio di cui ci riempiamo le tasche da tempo immemore. Non possiamo non barattare il vecchio col nuovo, e sottolineo che non possiamo poiché, gioco forza, nel modo in cui vecchie idee si insinuarono una volta nel pensiero speculativo, nuove idee a loro volta si insinuano prepotentemente nella testa di coloro che di “mente” non vorranno più parlare, a dispetto della secolare prospettiva del dio geometra.
Riassumendo:
- La separazione di etica ed estetica ha come conseguenza la reificazione del trascendentale e, di conseguenza, come sua legittima conseguenza, il dualismo cartesiano.
- L’identità come relazione o rapporto non è espressione del modo corretto di intendere il rapporto mente-corpo, poiché trascura almeno due elementi: 1°la spazializzazione geometrica - simmetrica di mente e cervello (un esempio di metafora), 2°l’adozione di vocabolari che portano a una pluralità di contesti semantici che dovrebbero poi, successivamente, essere intesi come il medesimo (il che rappresenta per il filosofo un bel problema).
- Nella misura in cui la scienza dispone di una buon approccio metodologico nell’analisi dell’encefalo, i problemi di correlazione o di identificazione vengono meno. Questa prospettiva riduzionista non è fatale all’ontologia del soggetto, mentre è certamente fatale – ben venga! – alla speculazione che qualifica ogni prodotto dell’immaginazione come intuitivamente valido e, dunque, assolutamente valido.
Ammetto che, contrariamente a quanto qui si afferma, la filosofia tutt’ora sembra seguire un orientamento differente. Le questioni sembrano tutt’altro che chiarite e le eredità della teologia e del romanticismo sembrano dominanti in molti pensatori che, attraverso l’insegnamento accademico, hanno un efficace accesso alle menti degli sprovveduti. Ne è uno straordinario esempio il filosofo e psicologo Humphrey, il quale recentemente, nel suo “Seeing Red, A Study in Consciousness”, ha tratto le seguenti conclusioni “teoriche”:
la coscienza – questo è il termine che per lo più usa Humphrey – conta perché il suo compito è quello di contare. È stata progettata – ma certo! – per creare, negli esseri umani, un Sé la cui vita vale la pena di seguire. Per incominciare – prosegue –, il Sé è qui per noi, fenomenicamente denso e sostanziale. Ed essere qui è un gran passo avanti rispetto a non esserci. Un Sé temporalmente denso è qualcosa su cui costruire una ricca vita soggettiva, e per gli esseri umani la cosa si può spingere ancora oltre: ora abbiamo un Sé che, comunque ci si arrivi, sembra abitare un diverso universo di essere spirituale. E questo è qualcos’ altro.[1]
Ammetto di rimanere spiazzato da tanta evidenza empirica, tutte le volte che rileggo il passo. Credevo, prima di leggere Humphrey, che nella coscienza vi fosse qualcosa di problematico. Mi accorgo invece che bastano poche metafore e un po’ di sana filosofia cartesiana a risolvere nell’assurdo tutta la serietà con cui avevamo cominciato ad andare a braccetto. Ammetto anche di essere un po’ nostalgico, forse perché considero la serietà un pregio. Ad ogni modo Humphrey rappresenta bene la tradizione filosofica da cui le attuali generazioni, per non dire le future, di filosofi dovrebbero discostarsi. Il senso del religioso che dalle parole dell’autore citato traspaiono, non hanno nulla a che vedere con una eventuale soluzione del problema relativo al modo in cui il cervello crea il fenomeno della coscienza. Forse nemmeno quest’ultima affermazione ha la corretta impostazione teorica. Il fenomeno della coscienza, sarebbe il caso di verificarlo, è davvero un fenomeno che, come nelle parole di Humphrey appare evidente, ha un che di “temporalmente denso”? Certamente sì: nella misura in cui l’attività cerebrale è, al tempo t, attività di materia o energia (il che non è problematico da che si comprende la natura della famosa formula di Einstein). Il sospetto bussa alla porta nel momento in cui subentrano elementi di un “diverso universo di essere spirituale”, sicché tutte le difficoltà che abbiamo denunciato in queste pagine sono le medesime che in troppi autori ancora appaiono come “eleganti soluzioni”.

[1] NICOLAS HUMPHREY, “Seeing Red, A Study in Consciousness”, Copyright © 2006 by the President and Fellows of Harvard College, USA; “Rosso, uno studio sulla coscienza” trad. ita. Eva Filoramo, 2007 Codice edizioni, Torino.

lunedì 25 maggio 2009

SEGNALI DI FUMO COSCIENZIOSI


Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: “Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!”
Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Anche adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come l’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.
Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.
Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: “Nono giorno del nono mese del 1899”. Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: “Primo giorno del primo mese del 1901”. Ancora mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: “Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24”. Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.
L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate sui libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversari lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: “mai più!”. Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.

(Italo Svevo, Il fumo tratto da La coscienza di Zeno)
SURREALISMO LETTERARIO TRA LE PIEGHE DI UN ENIGMA




C'era una volta un tema e una traccia che aveva come titolo: Il dolore fisico passa, ma la sofferenza emotiva mette radici nel tuo cuore e nella tua mente e può non scomparire mai.
Propostomi lo svolgimento dell'elaborato iniziai a buttar giù qualcosa più che altro per tentare d'andare incontro alle necessità scolastiche di uno studente che non riusciva a trovare ispirazione...


Quando si parla di ‘dolore’ si può intendere una sensazione spiacevole per effetto di un male corporeo oppure un sentimento o stato di profonda infelicità dovuto alla insoddisfazione dei bisogni, delle aspirazioni o delle tendenze individuali, alla privazione di ciò che procura piacere e gioia o al verificarsi di sventure. Talvolta un dolore fisico è la causa di una sofferenza morale. Talvolta una sofferenza morale è la causa di un dolore fisico. Ad ogni modo, nella maggior parte dei casi, le sofferenze che affliggono il corpo sono passeggere mentre, al contrario, è più difficile liberarsi dalle agonie che vanno ad intaccare la sfera emotiva di un individuo.
Volendo proporre degli esempi in campo letterario, Primo Levi, scrittore torinese di famiglia ebrea, è probabilmente l’espressione più forte di quella che si definisce ‘sofferenza emotiva’. È interessante rilevare, tra l’altro, che il narratore, di professione chimico, giunse alla letteratura soprattutto per l’impulso insopprimibile alla testimonianza intorno alle tragiche esperienze del campo di concentramento. Il racconto delle traversie subite ad Auschwitz è consegnato a ‘Se questo è un uomo’ (1947), l’opera più alta che sia nata dalla seconda guerra mondiale, negli aspetti più atroci: vi si narrano l’arresto, la deportazione, i lunghi mesi di sofferenza sull’orlo della morte, la disperata resistenza non solo per sopravvivere fisicamente, ma anche per salvare la dignità dell’uomo. La testimonianza diretta e l’autenticità agghiacciante delle parole di Primo Levi riflettono non solo la sofferenza ma anche il trauma psicologico con cui si trovarono a dover convivere i superstiti dei lager nazisti.
Il ricordo delle atrocità subite e della follia nazista non riusciranno mai a scomparire dai cuori dei sopravvissuti, così come non si cancellerà mai il marchio che essi portavano sul braccio quando erano deportati nei campi di concentramento. “Considerate se questo è un uomo o una donna”, scriveva Primo Levi nella premessa al libro citato; ed egli, segnato così profondamente dal fantasma della guerra e dalle brutalità subite si vedrà libero, a distanza di anni, solo col suicidio.
Diversa l’esperienza dello scrittore russo Fёdor Dostoevskij. Arrestato con l’accusa di attività cospiratoria e descritto nei verbali come “particolarmente pericoloso” - non avendo negato la sua partecipazione alle attività, peraltro esclusivamente di carattere intellettuale, del circolo incriminato - fu condannato a morte. Solo all’ultimo momento giunse la grazia dello zar, perché un procedimento del Codice Penale dell’epoca prevedeva che in caso di grazia sovrana, i condannati dovevano essere informati soltanto pochi istanti prima dell’esecuzione. E così, nel libro intitolato ‘L’idiota’ (1869) avvalendosi della figura e del racconto del principe Myskin (racconto riflettente, è chiaro, il suo personale stato d’animo) offre al lettore lo scenario delle sensazioni che il condannato a morte prova dinanzi alla consapevolezza del dover morire. Egli afferma, dunque, che “quando c’è la tortura, ci sono sofferenze e ferite, dolore fisico, e perciò tutto questo allevia le sofferenze dello spirito, così che soffri soltanto per le ferite, finchè non muori. Eppure il dolore maggiore, il più acuto, forse non sta nelle ferite, ma nel fatto che hai la certezza che ecco, tra un’ora, e poi tra dieci minuti, e poi tra mezzo minuto, e poi adesso, ecco, subito, l’anima volerà via dal corpo, e tu non sarai più un uomo, e questo è ormai certezza: la cosa fondamentale è che sia una certezza”. E proprio per questo Dostoevskij afferma che uccidere per punire un omicidio è, per la sua atrocità, un castigo incomparabilmente maggiore del delitto stesso.
Restando nell’ambito della letteratura russa, è possibile imbattersi in un’altra rilevante esperienza che tende a chiarire la linea di demarcazione tra il dolore fisico e quello emotivo. Tale è l’esperienza del contemporaneo Michail Bulgakov, scrittore brillante ma vittima di una critica spietata che giunse persino a definirlo “un addetto alle pulizie della nostra letteratura, intento a raccogliere gli avanzi sputazzati da almeno una dozzina di commensali”.
Accusato di tendenza controrivoluzionaria e incluso nella schiera dei ‘poputciri’, i “compagni di strada” che senza partecipare alla edificazione della giovane società sovietica si limitavano a non opporsi apertamente al regime, Bulgakov vide pian piano annientata la sua carriera di scrittore. Diverse sue opere ebbero vicissitudini complesse: alcune furono pubblicate all’incirca quarant’anni dopo la stesura, altre addirittura senza l’autorizzazione dell’autore; i diari che Bulgakov era andato scrivendo nel corso di parecchi anni vennero sequestrati dalla OGPU, la polizia del regime e furono soppressi anche i drammi teatrali. Si delinearono così le premesse che indussero Bulgakov a scrivere due lettere al Governo dell’URSS.
In una prima lettera destinata a non ricevere risposta, lo scrittore provvide ad illustrare quanto la stampa dell’URSS e insieme ad essa tutte le organizzazioni alle quali era affidato il controllo del repertorio, per tutti gli anni della sua attività letteraria, avessero dimostrato come le sue opere non potessero esistere in URSS.
Consapevole, dunque, che fossero perite tutte le sue opere, non solo quelle passate, ma altresì quelle presenti come quelle future, Bulgakov sostenne che ormai tutto era per lui senza speranza, anche perché “l’impossibilità di scrivere equivale ad essere sepolto vivo”.
La lettera conteneva, inoltre, la richiesta di un ordine di abbandono dei confini dell’URSS. Chiese, poi, di essere lasciato libero, non potendo essere più utile tra la sua gente, nella sua patria. Chiese, nel caso di condanna a un silenzio a vita in URSS, un lavoro come regista titolare in un teatro, o altrimenti come regista o autore provetto, e se ciò non fosse stato possibile, come regista di laboratorio, e se anche questo gli fosse stato negato, almeno come comparsa e proseguendo, sempre più umiliandosi, un lavoro come operaio di scena.
Nell’ultima parte della lettera, come un grido disperato, Bulgakov affermava di avere dinanzi a sé solo la mendicità, la strada e la fine se il Governo sovietico non avesse provveduto nei suoi confronti in qualunque modo.
Oggi Bulgakov è unanimemente considerato uno dei maggiori scrittori del Ventesimo secolo e la sua opera, assieme a quella di altri ‘grandi’ come Gogol’ e Belvj, una delle più originali manifestazioni del filone fantastico e carnevalesco della letteratura russa.
È incredibile come un uomo possa trascorrere tutta la vita nella sofferenza emotiva, più che nel dolore fisico.
Un altro celeberrimo esempio in proposito è il filosofo e teologo francese Pietro Abelardo. Vissuto intorno al 1100, si legò sentimentalmente a Eloisa che divenne segretamente sua moglie, ma lo zio della giovane lo fece evirare ad opera di alcuni miserabili da lui assoldati. Dopo il dramma dell’evirazione, Abelardo si ritirò in un’abbazia e successivamente anche Eloisa prese il velo in un monastero.
Nota è la lettera di Abelardo in cui egli narrava lo stupore, il pianto e le grida dei suoi concittadini e dei suoi discepoli in seguito alla sua evirazione. Sottolineando che la sofferenza maggiore non era tanto quella fisica, quanto piuttosto quella provata nei confronti di coloro che penavano per lui e quella della sua personale vergogna. Il dolore per la vergogna era talmente più forte del dolore corporale che, proprio a causa della sua infelicità (dopo la sua evirazione, infatti, la notizia si diffuse ovunque e con una rapidità tale che non poteva più mostrarsi in pubblico senza essere vittima di insulti, maldicenze, dita puntate e quant’altro) decise di ritirarsi in un rifugio monastico per il resto della sua triste vita.

A questo punto andrebbero formulate le conclusioni. Decido di non riportarle perché questo testo non conclude. E non conclude perché ho deciso di invitare te, o lettore, a proporre la tua chiosa e le tue argomentazioni. Un pensiero, un'idea o qualsivoglia prospettiva sarà bene accolta e rispettata. Chiamiamo pure questo proposito: esperimento d'interazione!


mercoledì 20 maggio 2009


Destinazione لحمامات

martedì 19 maggio 2009

Spunto provocatorio per la
Pubblicità Progresso

Buone ragioni possono indurre a ritenere che il nuovo spot di un noto target di intimo femminile non sia passato inosservato a nessuno, forse neanche allo spettatore che tenta di sfuggire alla pubblicità lavando i denti o facendo altro. Sulle note della cover di una canzone dance di D’Agostino, rimbalzata dalle disco degli anni passati alla voce avvolgente ed elegante di Sagi Rei, lo schermo viene letteralmente perforato da una giovane modella, che può essere presentata come la perfezione estetica fatta donna, per i canoni della tv generalista. Il corpo sinuoso di Irina Shaykhlislamova ondeggia con estrema sensualità aderendo al timbro vocale della canzone. Tutto lascerebbe intendere che i fotogrammi dello spot potrebbero pubblicizzare anche un quartiere a luci rosse di una città dell’Europa del nord. Forse per scongiurare questa possibilità i pubblicitari si sono guardati bene dall’idea di adottare la versione discomusic della canzone. La versione melodica è un raffinato e sotteraneo indice dell’insieme dei pensieri che disorientano il telespettatore, indipendentemente dalle sue inclinazioni sessuali.
Sarebbe straordinario promuovere un nuovo video, per la Pubblicità Progresso, contro le omologazioni sociali e la depressione giovanile indotta dal folle inseguimento di modelli estetici impareggiabili. Si potrebbero conservare la colonna sonora, la scenografia, il gioco degli specchi e gli effetti scenici dello spot dell’intimo femminile. Basterebbe sostituire esclusivamente la modella senza nome con un’altra donna. Syusy Blady, per esempio, andrebbe benissimo. Si potrebbe conservare anche il testo: “Nasce una nuova forma di femminilità” che, così, inizierebbe ad avere un senso compiuto, un senso progressista.


A sinistra del PD

giovedì 14 maggio 2009


Vincere la noia per innalzare un altare di aspettative
È la sfida dei nostri malinconici giorni
Inizia a far caldo la pioggia evapora nel sudore
I muri delle città diventano un tappeto di volti da riciclare
La stanchezza mi induce a restare sveglio
Prolungare la veglia per rendere più dolce il crollo
Ho fame d’aria e di scenografie divergenti
Deformazioni anamorfiche, specchi infranti, lacrime di vetro
Vivere nelle stazioni, nell’attesa del vagone opportuno
Ascolto sempre più spesso le stesse canzoni. Ho bisogno di inni.
Identificarmi in un frammento di realtà
Resistere ai pallidi simulacri, allo sguardo arguto del burattinaio
Una girovolta di marionette, le messinscene della sera
Non vedo più la TV. Preferisco parlare con la mia gatta.
L’attesa dell’alba si sta consumando come l’LM che mi oscura

domenica 10 maggio 2009

Cronaca di un pomeriggio filosofico

Un sabato pomeriggio indimenticabile. La concentrazione di un insieme significativo di individui (per lo più giovanissimi) in una sala, in uno dei primi pomeriggi primaverili dell’anno, per partecipare ad un appuntamento filosofico è qualcosa di straordinario. Non avevo presentato l’appuntamento al una mia amica ormai "storica", Federica. L’ha scoperto su Pieghe libertarie. Ha affrontato due ore di viaggio con Gaetano e Maria pur di partecipare. Non potrò mai sdebitarmi sufficientemente con loro, autori di un tributo di amicizia che mozza il respiro. L’attenzione dell’uditorio è rimasta viva per due ore, gli interventi si sono rivelati pungenti ed incalzanti. Un pomeriggio rivoluzionario, in una città tradizionalmente intorpidita ed asservita ad inchini devozionali reiterati, omaggiati ad un gregge di incompetenti. Presento di seguito alcune delle parole che hanno invaso la sala, coinvolgendo le coscienze. L’esito soddisfacente dell’esperimento filosofico di ieri presuppone il ringraziamento pubblico di tante anime. Non seguo questa via soltanto per scongiurare il terrore di dimenticare qualcuno. I destinatari dei ringraziamenti sono già stati stretti dal mio abbraccio commosso.
Introduzione
di VINCENZO BRUSELLO

La ragione per cui valga la pena studiare la filosofia è molto significativa, soprattutto oggi, dal momento che il mondo si rende sempre più complesso e falliscono sempre più frequentemente anche le soluzioni più semplici di comprensione, per la loro fragilità. Il filosofo sa cogliere i problemi esistenziali dell’uomo. Rammarica il tentativo di affermare, senza timore, le cose del mondo trovandosi costantemente nella condizione didover sfondare faticosamente la porta del pregiudizio. La filosofia non vive in un mondo astratto o nell’alto dei cieli irraggiungibili. Anche il pensiero in apparenza più astratto e teoretico si occupa, in realtà, delle domande irrinunciabili della nostra vita. Per questo motivo, la filosofia non può essere affatto un’occupazione per pochi. Deve circolare nella città, tornando a frequentare le piazze, così come suggeriva qualche anno fa Paul Ricouer. In effetti la società attuale, troppo interessata ad avere la soluzione pronta per tutti i problemi e la risposta a tutte le domande, è dominata da un eccessivo pragmatismo, che esclude o limita fortemente l'attività speculativa. In questo contesto socio-culturale, la filosofia viene spesso tascurata, proprio perché solleva questioni e si nutre in maniera a volte inquietante di un dubbio costante e metodico. Questa “forma mentis” sembra piuttosto difficile da modificare, qualora non si affermasse un notevole cambiamento culturale; ecco perché bisognerebbe restituire, agli occhi della gente, una “dignità pratica” alla filosofia (Nell'undicesima tesi su Feuerbach, 1845, Marx scrive: "I filosofi hanno solo interpretato il mondo, in modi diversi; ora si tratta però di cambiarlo"). Da sempre i filosofi vengono chiamati a dare il loro contributo in diverse aree della vita pratica, dalla politica all’economia, dalla bioetica alle intelligenze artificiali. Non sempre, comunque, il contributo dei filosofi si è rivelato fecondo. Basti considerare il fallimento di Platone a Siracusa o, più in generale, i processi di conversione dell’ideale in ideologia. Allora perché tutta questa diffidenza? L'individuo non può fare a meno di filosofare, anche se non volesse. Aristotele afferma che la filosofia comincia con la “meraviglia” (thauma) intesa come passione subita, come stato d’animo sconvolto da eventi insoliti, una realtà prevaricatoria che provoca inquietudine. Si innescano, dunque, i meccanismi di un circolo vizioso in cui si viene sconvolti dalla meraviglia, di cui si estingue l’incendio con il suo controllo, questo per tutta la vita. Come ha sostenuto Wittgenstein, “Il problema della filosofia è la consapevolezza del disordine nei nostri concetti,e lo si può risolvere conferendo loro ordine”. Nel 1991, Jostein Gaarder, docente di filosofia nei licei, pubblicò in Norvegia, con uno stile limpido ed elegante, un romanzo sulla storia della filosofia, dal titolo Il mondo di Sofia, successo internazionale tradotto in 41 lingue. Protagonista del romanzo è una ragazzina come tante che scopre la filosofia attraverso le strane domande ricevute nella cassetta postale da uno sconosciuto filosofico. Lo scambio di riflessioni fra Sofia e il filosofo diviene lo spunto per rendere accessibile il sapere filosofico ad un pubblico sterminato di non soli giovanissimi. Il romanzo non è soltanto un avvincente giallo o una raccolta di avventurose storie nel tempo e nello spazio, o un esauriente manuale narrativo di filosofia, quanto piuttosto, più in generale, la più originale storia dell’uomo e del suo pensiero che sia mai stata scritta. Scrive Gaarder: “…per motivi diversi, la maggior parte delle persone è così presa dalle cose di tutti giorni che il pensare all’esistenza occupa l’ultimo posto (scivolano giù, giù nella pelliccia del coniglio, si sistemano ben bene e rimangono lì per tutta la vita). Per i bambini, il mondo, con tutto ciò che offre, è qualcosa di nuovo, di stupefacente. Non è così per gli adulti parte dei quali percepisce il mondo come un fatto ordinario”. Lo scrittore continua ancora accomunando magistralmente i filosofi ai bambini, la curiosità che affascina, che stimola, fa di queste due figure un’unica essenza; scrive, infatti: “I filosofi rappresentano una nobile eccezione. Un filosofo non è mai riuscito ad abituarsi del tutto al mondo che, per lui, continua ad essere assurdo, sì enigmatico e misterioso. I filosofi e i bambini hanno in comune questa importante capacità. Potremmo ben dire che un filosofo conserva la pelle delicata di un bambino per tutta la vita” .La filosofia non è inutile, è una disciplina altamente formativa; è sbagliato pensare che sia un passatempo ozioso per pochi eruditi, un gioco di parole incomprensibili. Una disciplina che ha il suo linguaggio specifico, così come la medicina e l’astronomia. L’insegnamento della filosofia non ha solo un valore storico-culturale e metodologico ma possiede anche una finalità di tipo esistenziale. Come scrisse, infatti, Nicola Abbagnano: “Filosofare significa per l’uomo, in primo luogo, affrontare ad occhi aperti il proprio destino e porsi chiaramente i problemi che risultano dal proprio rapporto con se stesso, con gli altri e col mondo […]. Alla filosofia l’uomo può e deve chiedere di comprendere un po’ meglio se stesso e agli uomini di intendersi un po’ meglio tra loro”. L’insegnamento della filosofia ha sopratutto lo scopo educativo di formare individui che siano all’altezza della società “complessa” e tecnico-scientifica dei giorni nostri, ovvero di una società pluralista e democratica di tipo postmoderno, che ospita al proprio interno una molteciplità irriducibile di linguaggi, di voci discordanti apparentemente incomprensibili come il mormorio di un mercato rionale. La filosofia si pone dunque come il dizionario che rende possibile la comunicazione tra le diverse tonalità individuali.
L'INTERVENTO DI EGIDIO CAPPELLO

Esprimo apprezzamenti sinceri per l’iniziativa ed insieme manifesto la mia gioia perché sono qui a riflettere con voi. Devo partire dalla situazione attuale della filosofia.
La filosofia ha divorziato dalla cultura contemporanea, per scelta propria e per scelta della controparte. Per scelta propria perché la filosofia ha fondamenti dai quali non può derogare: quello più significante è la tendenza all’universalità dei concetti e dei principi. L’universalità dei concetti significa anche l’universalità della ragione, l’universalità delle metodologie di ricerca, l’universalità dei valori che si intendono perseguire e realizzare. La filosofia si fonda sulla certezza che non solo esistono i saperi universali ma che questi sono i saperi dai quali si origina ogni tipo di cultura e goni finalità della cultura. Per scelta della cultura contemporanea, perché questa ha ceduto ai particolarismi, ai soggettivismi, ai relativismi pensando di difendere in questo modo l’identità dell’individuo e la libertà dell’individuo.
La cultura contemporanea si propone così come un insieme di rivoli autonomi, senza origine unitaria e senza finalità unitarie, rivoli che quindi rifiutano una collocazione all’interno di quadri d’insieme e di composizioni logiche progressive. Ogni rivolo si propone come quello superiore, quello più importante, e questo non riguarda la diversità degli ambiti culturali ma anche le facce di uno stesso settore, come succede in alcune università ove ogni docente tende ad affermare la superiorità della propria disciplina e spesso la superiorità del proprio metodo di fare lezione o spesso di mettere i voti. E quindi ci si appiglia: è l’economia, la sanità, la politica, l’educazione, il turismo, lo sport, quale di questi rivoli è prioritorio di fronte agli altri?
Vi dico subito la mia idea, che è l’idea di tanti: la cultura o è filosofica o è semplicemente un rivolo; o sceglie di essere l’humus connettivo dei pensieri disciplinari, o seceglie di assumere il ruolo secondario qual è quello di una pianificazione politico, o economica o addirittura un progetto di potere. La filosofia ha proprie condizioni e non cede ai valori dei singoli settori che appartengono all’effimero e all’individuale.
La filosofia è nata come sapienza della relazione e della comunicazione, come ricerca di principi fondanti l’ordine oggettivo e cosmico, l’ordine storico, l’ordine della vita personale. La filosofia come amore della sapienza, di una sapienza indeterminata, non ha riscontri storici: l’interpretazione nasce una lettura errata, o almeno incompleta, di una espressione aristotelica.
Pensiamo per un attimo al cammino percorso dalla filosofia per almeno duemila anni: una ricerca di principi e condizioni aggreganti, ricerca affidata ai sensi, alla ragione, alla contemplazione e a tutti gli strumenti che qualificano l’uomo.
Per duemila anni l’invito di Apollo posto sul frontale del tempio di Delfi con le parole “conosci te stesso” ha indicato al ricercatore la via da percorrere per raggiungere la pienezza della propria umanità, ossia la propria divinità: in se stesso, nella profondità della propria intelligenza, c’è il luogo dell’origine unitaria, il luogo dell’universalità ove è chiaro il senso della vita, ove sono chiari i saperi essenziali ed oggettivi. La filosofia non è mai venuta meno alla ricerca dell’universalità passando attraverso le limitazioni proprie della mente umana.
Talete, Anassimente, Anassimandro, Pitagora, Anassagora, Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, i Padri della Chiesa Cristiana, Agostino, Tommaso, fino a Leonardo, Galilei, Cusano, Botero, Landino, appartengono ad una stessa schiera di testimoni della cultura dell’universalità. Dal ‘600 la ricerca subisce una profonda trasformazione: come se i pezzi di un mosaico si fossero staccati del tutto per percorrere itinerari autonomi ed isolati. L’Europa vive una storia di grandi trasformazioni: le sviluppo delle autonomie nazionali, la conquista e l’incivilimento “occidentale” dei popoli dell’America, la perdita dell’unità religiosa in Europa per via della Riforma protestante, la rovinosa Guerra dei Trent’anni durante i quali c’è la nascita e la propagazione di malattie da contagio; ebbene tutti questi eventi causano spinte centrifughe e disintegranti che coinvolgono e sconvolgono la struttura del pensiero e naturalmente la filosofia. A tutto questo si unisce l’ipotesi assurda da parte di uomini della nascente scienza tecnologica, di costruire rapporti logici nuovi attraverso la separazione più o meno totale dei settori disciplinari.
La filosofia di Cartesio, indicata come la nascita della filosofia moderna, sembra dare stimolazioni appropriate alla creazione di un soggettivismo fuori dalle regole tradizionali, per cui l’evidenza si presenta come qualità del soggetto e non come qualità propria della realtà oggettiva. In più pagine trova spazio anche l’ipotesi della scomparsa della filosofia e le sue leggi di unificazione presentata con la veste di una nuova filosofia, idonea a difendere alcuni settori della vita, alcuni settori della ragione, alcuni settori comunicativi.
È un’aspra battaglia che comunque si combatte. Voglio ricordare i filosofi difensori della unitarietà, quella autentica, quella che ha caratterizzato e dato l’impronta a più di duemila anni di storia occidentale: Spinoza, Leibniz, Barkeley, Kant, Schelling, Hegel, Husserl, Bergson, Maritain fino al grande Giovanni Paolo II.
Viviamo adesso la dicotomi fra il pensiero dell’universalità aggregante, proprio della filosofia autentica, e il pensiero delle individualità settoriali, proprio delle scienza particolari: dicotomia alimentata dai mali del nostro secolo ossia l’uso eccessivo di tecnologie e il consumo sfrenato della nostra intelligenza e del nostro tempo.
È il momento di chiederci: la cultura oggi ha bisogno di trovare origini e finalità aggreganti? Ha bisogno delle peculiarità della filosofia autentica? I problemi dell’umanità contemporanea sono universali o possono essere risolti attraverso le logiche particolari? Il problema dell’accesso all’acqua potabile e quello della terra, dell’inquinamento e delle migrazioni, dell’intercultura, ma anche il problema dell’educazione delle giovani generazioni, il problema della distribuzione della ricchezza, il problema della povertà, sono problemi economici, politici, matematici o sono problemi da affrontare attraverso la logica dell’universalità?
La filosofia, con i suoi principi oggettivi e la sua tensione verso orizzonti illimitati, si pone come l’unica scienza della salvezza dell’uomo; è in grado di raggiungere la quotidianità di ciascuno ed è l’unica a fornire gli strumenti per superare angolazioni particolaristiche o settoriali.
Chi sono i nemici della filosofia? Non certo chi non studia la filosofia ma chi è contrario alla soluzione dialogata dei problemi, chi è contrario all’insieme, chi non accetta il bene comune, che è oggettiva ed universale.
Questa è la conclusione del mio breve intervente: il ritorno della filosofia, con il suo respiro dell’essenzialità e dell’oggettività, è il rimedio a tanti problematiche che i tavoli politici non riusciranno mai a risolvere, e nello stesso tempo è fondamento certo di progresso nella giustizia e nella pace.
Come fare perché la filosofia raggiunga le scrivanie dei maneger, le cattedre dei docenti, i computer degli economisti? La risposta non deve essere banale: occorre cominciare da qualcuno e da qualcosa. Secondo il mio punto di vista, quello di un docente in pensione, occorre cominciare dai docenti, da tutti i docenti, dalla materna alle università. Tutti devono essere in possesso di cultura filosofica e di tensione filosofica.
Ogni lettura all’interno dei propri cammini disciplinari può e deve essere carica di potenziale relazionale e di aggregazione. Se ai docenti si uniscono poi i genitori che con la scuola hanno e mantengono rapporti di collaborazione, allora diventano accessibili anche traguardi di grande spessore sociale e culturale. Provo solo ad immaginare che cosa succede se ai docenti e ai genitori si uniscono anche le istituzioni, a cominciare da quelle più piccole. Una riflessione ancora a conclusione di questa mia comunicazione: la cultura è stata una volta filosofica, oggi in massima parte non lo è ma se rimane quella che è, anche per nostra disattenzione o per nostra scelta, deve rinunciare anche a chiamarsi cultura.

L'INTERVENTO DI FRANCESCO GIAMPIETRI

Tentare di legittimare l’attualità della filosofia nell’età di Facebook, della riduzione degli scambi intersoggettivi a frasi monche e virtuali, delle carte di credito e dell’AIDS, è un’impresa disperata. Ogni aspetto della società contemporanea sembra mettere inesorabilmente in discussione l’utilità della filosofia, il senso concreto di biblioteche infinite di volumi prestigiosi e vani. Ciò risulta ancora più evidente se prendessimo in considerazione le condizioni del filosofare poste da Descartes: la mancanza di distrazioni, la tranquillità indotta dall’assenza di ogni preoccupazione, la liberazione dalle passioni e l’occupazione di una stanza riscaldata da una stufa.
I filosofi sono stati oggetto di caricature ridicole. Talete cade in un pozzo mentre scruta il firmamento celeste scatenando l’ilarità di due giovani serve. Aristofane ne Le Nuvole rappresenta Socrate appeso in un cesto, elevato in alto, per studiare le stelle o impegnato ad insegnare ai fanciulli l’arte del bastonare i genitori. Luciano di Samosata (II secolo d. C.) presenta tutti i filosofi dell’antichità classica messi all’asta, venduti al miglior acquirente (in relazione alla possibilità di sfruttamento delle loro idee per fini pratici) come se fossero schiavi o prostitute. La risata di derisione della filosofia esorcizza l’inquietudine che il filosofo tenta di dissipare. Il filosofo è ridicolo perché pone mille domande offrendo come risposte ulteriori domande. Le poche risposte affermative sono inquietanti o incomprensibili. Il filosofo è ridicolo perché osa dubitare della validità del senso comune e di tradizioni venerate da gente per bene, perché si esprime in un linguaggio incomprensibile, talvolta soffre di egocentrismo e non è quasi mai dello stesso parere di altri filosofi.

Si tratta di osservazioni soltanto in parte iperboliche e caricaturali. Tentiamo, in ogni modo, di attenuarne la valenza decostruttiva.
La filosofia ha risvolti pratici, dal momento che può essere intesa come un piano inclinato nella prospettiva della sophia. Non è un inventario di opinioni prestigiose. È l’opposto sia della notizia che dell’erudizione (Josè Ortega y Gasset). Nonostante la filosofia sia uno studio, pensando filosoficamente non mi limito ad esprimermi per citazioni divenendo la cassa di risonanza di pensieri altrui.
La filosofia non coincide con l’insieme delle informazioni, composizioni contingenti di notizie. È lo strumento di spiegazione dell’informazione che viene interpretata nel contesto della rete di dati in cui è inserita. La progettualità filosofica è, inoltre, la condizione della tecnica, dello sfruttamento utilitario degli strumenti.
La conoscenza filosofica struttura una gerarchia di significati (in una società non gerarchica) con cui comprendere il mondo ed elabora principi generali di comprensione cui ricondurre i casi particolari. Rende possibile il conseguimento di una saggezza etologica, ovvero lo sviluppo di comportamenti ispirati dalla ragione. Uno dei compiti della ragione è senza dubbio quello di tentare di favorire gli incontri convenienti, capaci di incrementare la mia virtus, il mio grado di potenza. È buono ciò che si compone con il mio rapporto caratteristico, è cattivo ciò che decompone il mio rapporto caratteristico avvelenandomi, contagiandomi (Baruch Spinoza).
La filosofia non riconosce un sistema concettuale chiuso, dal momento che ha la caratteristica di essere una disciplina come tante, aperta al confronto e ad integrazioni, e di pretendere, al contempo, di porsi come la scientia scientiarum, che nelle sue determinazioni le avvolge tutte. Non si può fare filosofia se non si è in possesso di una preparazione che attraversi trasversalmente tutte le altre discipline; altrimenti si sarebbe al cospetto di uno sciamano, di un ciarlatano negromante o di un venditore di corpi astrali. La filosofia è un metodo, una via da seguire. In questo senso non si può insegnare la filosofia, quanto piuttosto l’attitudine a filosofare (Kant).
La filosofia è una strategia di difesa contro la santificazione di verità assolute e preconcette. Una verità assoluta non può essere scoperta, dal momento che non può costituire un punto di vista ed esclude la particolarità della condizioni da cui prende le mosse la ricerca (Santayana). Ricondurre causalmente ogni evento a Dio non è fare filosofia (Pierre Bayle). La filosofia è perplessa per statuto costitutivo. Vive di dubbi. Fa della diffidenza e della critica le sue ragioni di vita.
La filosofia distingue idee (espressione di verità di ragione) dalle credenze. Ha il compito di mettere in discussione e, qualora fosse necessario, di demolire le credenze per sostituirle con i concetti intellettuali. La ricerca filosofica deriva dell’inquietudine, dalla consapevolezza angosciante che le acquisizioni del senso comune (indispensabili per la gestione della vita quotidiana) non spieghino quasi nulla.
La filosofia è pubblica e sociale. La ragione è pubblica, nel senso che un potere che privi l’individuo di comunicare pubblicamente i propri pensieri lo spoglia della libertà di pensare. Io posso comprendere se i miei pensieri siano o meno corretti, solo in quanto li comunico ad altri. La ragione è fallibile e il suo funzionamento presuppone un uso pubblico. Negare la necessità di comunicare liberamente i pensieri equivale ad estirpare la possibilità stessa di pensiero (Kant). Non può esistere un linguaggio privato. Il mondo è un impalcatura di simboli condivisi (Wittgenstein). Nessuno può essere escluso dal dialogo. Bisogna abbattere quello che Popper ha chiamato il mito della cornice, secondo il quale non è possibile una discussione feconda nel caso in cui gli interlocutori non condividano una cornice di assunzioni comuni, il riferimento al medesimo vocabolario concettuale. Il sapere progredisce mediante il disaccordo fra cornici differenti. Non è vero che contra impugnantes principia non est disputandum, dal momento che se così fosse affermeremmo una dimostrazione legittimante che premette il dogmatismo fanatico, regressi all’infinito e la dottrina relativistica delle cornici inconfrontabili. Il dibattito seleziona le idee. L’interlocutore che non sia in grado di argomentare le proprie ragioni ha disperatamente bisogno di un padrone che gli dia ordini. È un punto indistinto della massa asservita ai voleri di un clan di potere. La filosofia ha il compito di costruire ponti dialettici fra i sostenitori di tesi che si annullano a vicenda. Il primo prerequisito della comunicazione è quello di comprendere colui da cui vorremmo essere compresi. Per conoscere me stesso devo essere riconosciuto. L’io coincide con il suo riconoscimento sociale. L’individuo ha una tendenza innata a farsi conoscere ed approvare (William James).
L’introspezione filosofica può essere assunta anche come un piano di intervento per lenire il malessere dei giovani. I giovani stanno male, dal momento che, per dirla con Nietzsche, un ospite inquietante, il nichilismo è penetrato nei loro sentimenti, annullando orizzonti di senso e prospettive progettuali, inaridendo il cuore e i suoi legami e rendendolo recettivo verso l’acquisizione dei modelli mediatici e l’assunzione di effimere scorciatoie per denunciare il vischioso male (Tondelli) che li logora, quali il bullismo, la seduzione delle droghe, il gesto omicida o suicida, le follie del cavalcavia, la venerazione del dio Denaro, delle apparenze virtuali. I pensieri sono confusi, i sogni collettivi di trasformazione del mondo sono estinti, si affermano le passioni tristi (Spinoza) che condannano l’individuo all’impotenza, alla paralisi. Soltanto il mercato sembra interessarsi ai giovani dalle passioni tristi, per affermare la logica del divertimento obbligato e del consumo. È la vita stessa, in realtà, a consumarsi. Il nichilismo deve essere inteso come una sfida per la filosofia. La psicanalisi fallisce al cospetto di un disagio che ha una radice culturale più che psicologica. Non ha senso imbottirsi di pasticche per stare meglio. Bisogna riconquistare una comprensione greca della felicità come eudaimonia, valorizzazione del daimon, delle proprie inclinazioni, scoperta del proprio talento, logica di un’autostima misurata. Soltanto un ragazzo che sia innamorato di sé è autenticamente felice e può, indifferente alle contaminazioni della noia, conquistare il mondo. L’arte o il mestiere di vivere consiste nello scoprire le proprie capacità e nel farle evolvere secondo misura. È in tal senso che l’individuo è entusiasta ed autore della propria sceneggiatura esistenziale, non affidata alla casualità delle circostanze. Per vivere non è necessario filosofare. Per meglio dire, per sopravvivere non è necessario filosofare. Prima sopravvivere, poi filosofare, potremmo dire. Vivere bene, però, presuppone esercizi filosofici.
Non esiste una filosofia, ma le filosofie. Non esiste un senso del mondo, ma i sensi del mondo, tanti quanti sono gli sguardi delle soggettività, le prospettive scenografiche di comprensione del mondo. Se il mondo avesse un solo significato intrinseco, non sarebbe stato oggetto dal VII secolo a. C. di una varietà di significati eterogenei.
La filosofia non promette nulla, né la salvezza eterna né la resurrezione di anime o corpi, né la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro. La filosofia può garantire soltanto l’esplorazione e la sperimentazione dei significati. È la prassi delle libertà dell’individualità sciolta dai messaggi trasmessi dalla TV, dal cinema, dalle virtualità telematiche che, altrimenti, sarebbero assorbiti passivamente in ogni attimo dall’interiorità. Pensando filosoficamente, agisco e non subisco i processi di omologazione veicolati da ambigui strumenti di asservimento delle coscienze.

Non siamo nella condizione, purtroppo, di pubblicare i contenuti sviluppati da Ciro Greco nel corso del suo interessantissimo intervento.

venerdì 8 maggio 2009

La guerra in testa


Miseria, ingiustizia, calamità naturali, virus, morti bianche, pedofilia, stragi, alluvioni, incendi, sequestri, rapine, il fallimento matrimoniale dell'Imperatore... Ehm... La guerra mediatica rischia di confondere le idee ai cittadini. Quanto clamore per la solita commedia all'italiana. Almeno fosse divertente!

giovedì 7 maggio 2009

C h i t a r r a
r o m a n a.


A chi mi chiede
componimenti poetici
su un accordo di chitarra
offro un menestrello vagabondo
che svela il suo segreto
nel folklore popolare.

Mescolata al romanesco
caro al Belli
s’effonde l’eco di una voce
su un lungotevere addormentato:
- sentilo tu il mio delirio,
accoglilo tu il verso che in petto giace,
accompagnala tu,
moderna cetra di un dio profano,
la mia composizione dall’incauta
rima improvvisata - .

Non so bene com’è stato.
Solo ho udito venir fuori
da una finestra su di un vico
uno stornello popolare
che nell’abbraccio dell’Infinito
leggero s’accasciava.
Il vento ha chiuso i vecchi scuri:
da quel giorno sulla sua chitarra
un fiore amaro si sfoglia inosservato.

Un’epigrafe si compone
sul mio foglio di poesia perduta:
la chitarra che giace sull’ara del ricordo
ha la voce di chi riusciva
a poetare della sua gente
le storie dell’anima e della
tradizione popolare.

a Gabriella Ferri

lunedì 4 maggio 2009


L'unica opposizione in Italia

venerdì 1 maggio 2009

Primum vivere, deinde philosophari?
VENAFRO (IS), 9 maggio 2009, ore 18
Sede sociale Auser - via del Plebiscito




Prosegue a Venafro (IS) il ciclo di appuntamenti culturali organizzato dall’associazione Città Nuova in collaborazione con il quotidiano telematico Altromolise.it e il mensile Il bene comune.
Sabato 9 maggio presso la sala convegni dell’Auser in via Plebiscito, alle ore 18 si terrà una conversazione sul tema Primum vivere deinde philosophari? - L'attualità dello studio della filosofia. Dopo l’introduzione di Vincenzo Brusello sono previsti gli interventi di Egidio Cappello, Ciro Greco e Francesco Giampietri. Il pubblico presente potrà intervenire.
Egidio Cappello, ha conseguito la laurea in filosofia presso l'Università di Napoli nel 1968, discutendo una tesi su August Comte. Dopo aver vinto il concorso a cattedre, ha insegnato filosofia nelle scuole superiori e, in particolare, presso il Liceo Classico di Venafro dal 1975 al 2005. È autore di diversi studi, quali “La filosofia di Karol Wojtyla. Riflessioni” (2006), “Relativismi e saperi fondamentali” (2007) e “Nicandro Iossio e Leopoldo Pilla nell'itinerario europeo della filosofia autentica”, di recentissima pubblicazione.
Ciro Greco ha conseguito la laurea magistrale in filosofia presso l'Università “Vita-Salute San Raffaele” di Milano nel febbraio 2009, discutendo una tesi sulla semantica dei morfemi temporali nelle lingue naturali. Ha contribuito alla pubblicazione del volume “Metafisica e Metodo” (2008) dedicato al pensiero di Giambattista Vico, del quale ha tradotto il “De antiquissima Italorum sapientia”. È autore di un altro studio sulla filosofia vichiana, incluso nel volume “Prospettive di Filosofia della Storia”, curato da R. Mordacci, che è in corso di pubblicazione. Ha partecipato al Festivaletteratura 2008 di Mantova con un intervento sul tema "Il ricorso presente. Attualità e storia nella filosofia di Giambattista Vico".
Francesco Giampietri ha conseguito la laurea magistrale in filosofia presso l'Università di Cassino nel 2008, discutendo una tesi sulle riflessioni giuridiche e politiche di G. W. Leibniz. Dal settembre 2008 collabora con l'ILIESI-CNR di Roma per la realizzazione del progetto "La formazione dell'identità culturale nell'Europa moderna: i testi filosofici e scientifici di G. W. Leibniz", per il quale ha effettuato ricerche anche presso la Gottfried Wilhelm Leibniz Bibliothek - Niedersächsische Landesbibliothek di Hannover (D). Ha partecipato con una relazione sull'estetica leibniziana alla giornata di studi "Dio uomo e natura in Leibniz" (Cassino, dicembre 2008). Finalista nelle selezioni indette dalla Scuola Normale Superiore di Pisa per l'ammissione alle scuola di perfezionamento in discipline filosofiche per l'anno accademico 2008/2009, sta preparando attualmente uno studio su Leibniz.



La filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù é il sapere più nobile.
Aristotele
1° MAGGIO



L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazione. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.

Il lavoratore ha diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

[Articoli uno, trentacinque, trentasei e trentasette della Carta Costituzionale Italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948].


Cura l'elevazione professionale dei lavoratori... ha diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità... sufficiente ad assicurare... un'esistenza libera e dignitosa... assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protez...

...Mhh... Yawhn!!... Ho sognato un posto meraviglioso! Un paese in cui vigevano leggi che garantivano ai lavoratori dei veri e propri diritti! Quali? be', il diritto ad una retribuzione proporzionta alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ad esempio. Inoltre questa retribuzione doveva essere tanto consistente da dover riuscire ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa! Ma ci pensate?! Un'esistenza LIBERA e DIGNITOSA!
Ma il sogno non finiva mica così, eh! Pensate, ho sognato un paese in cui le donne lavoratrici avevano gli stessi diritti e le stesse retribuzioni dei lavoratori! E qualcuno doveva aver pensato anche alle lavoratrici madri! Sì, perché veniva assicurata anche a loro e ai loro bambini una PROTEZIONE ADEGUATA e SPECIALE!!

Ora potrete capire perché stamattina, dopo aver aperto gli occhi e dopo essermi resa conto che il mio sogno era piuttosto un'allucinazione, ho lasciato che fuggisse via La locomotiva di Guccini e che il macchinista ferroviere si lanciasse a bomba contro l'ingiustizia, non prima d'avermi urlato: "Sorella, non temere corro al mio dovere. Trionfi la giustizia proletaria"!

Che posto magnifico ho sognato. Un posto dov'è garantito il lavoro. Un posto dove c'è il lavoro.