La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem
mercoledì 23 luglio 2014
Tempo fa, quasi per scherzo,
decisi di partecipare al Concorso Internazionale di Poesia Inedita 'Il
Federiciano', ideato e realizzato dall'Editore Giuseppe Aletti.Stamattina, aprendo la posta elettronica, ho
avuto un fremito di gioia quando ho letto ciò che mi è stato comunicato: la
Aletti Editore, dopo aver preso visione delle preferenze espresse dalla giuria,
ha deciso di pubblicare la mia poesia nel volume antologico edito e
distribuito, nella omonima collana, dalla casa editrice suddetta. Il libro in cui
sarà presente la mia poesia sarà pubblicato nel mese di agosto.Tra l'altro, la stessa poesia concorre per
essere riprodotta in una delle due stele poetiche che verranno adagiate sulle
pareti del centro storico di Rocca Imperiale. Sono molto felice, sia perché i
partecipanti di quest'anno sono stati oltre 2400 autori. E poi, anche perché la
poesia scelta contiene un tributo a quel poetico incanto storico custodito in
un vecchio museo del mio paese.
A voi l'opera scelta:
E
gentile, l'anima s'immerge
in un chiostro
di memorie antiche per
riemergere nell'incanto
marmoreo di una dea genitrice di
amori universali. Riflessa
nel candore estatico
di questa luna
settembrina mi
lascio soggiogare da
una passione remota che
vibra le sue corde nello
zampillo d'eternità di
un'Afrodite venafrana.
mercoledì 11 giugno 2014
sabato 7 giugno 2014
Esprimo pubblicamente i miei complimenti
a Tonino Atella per la sua fortunatissima invenzione di un Caffè letterario nella Piccola Città che, a dire il vero, è priva
addirittura di una libreria. Il suo coraggioso e generoso esperimento è
pienamente riuscito, nell’interesse di tutti.
venerdì 23 maggio 2014
venerdì 11 aprile 2014
L'incanto surreale di una chiesa dimenticata
venerdì 21 marzo 2014
FRANCESCO GIAMPIETRI
“ Spirto inquieto, che subverte gli edifici di buone discipline”
Seminario
su Giordano Bruno
ISISS "Cuoco-Fascitelli"
Aula Magna
via Leopardi ISERNIA
25 marzo 2014
ore 11
domenica 16 marzo 2014
L'armata Brancaleone
di Andrea Fiamma
Tra due mesi circa avranno luogo le complesse elezioni europee, il cui
significato epocale viene largamente sottovalutato nell'opinione pubblica
italiana. Vizio non nuovo questo, tutto italico, che negli anni passati ci ha
indotto a riempire le aule del parlamento europeo con politici spesso
impreparati e uomini di partito che non riuscivano a piazzarsi nelle – seppur
tantissime – opportunità di impiego nei consigli e commissioni provinciali,
regionali o parlamentari. I candidati, quasi mai politicamente appartenenti alla
circoscrizione di elezione erano in larga parte sconosciuti al territorio, che
rispondeva con un costante astensionismo.
Ma stavolta la partita pare diversa, e non solo per alcune incidentali
candidature illustri – come quella forse confermata di Silvio Berlusconi,
impegnato più a trovare una scappatoia parlamentare ai problemi giudiziari che
veramente cosciente del progetto storico-filosofico dell'UE; quello che emerge è
che oggi, forse per la prima volta, il popolo scottato dalla crisi ha preso
coscienza della centralità delle decisioni prese a Bruxelles e della prossimità
inaspettata delle cancellerie europee sulla vita quotidiana del pescatore di
Sicilia e dell'Adriatico, dell'imprenditore marchigiano o del commerciante del
centro di Roma. Inoltre a soffiare forte sulla già incendiaria bagarre
elettorale contribuiscono quei movimenti politici che in questi anni hanno
dipinto l'Europa e la moneta unica come causa d'ogni oscurità sul pianeta –
magari, come nel caso dei 5Stelle, condendola con del complottismo antisemita
rispolverato direttamente dal peggio che la Germania ha prodotto negli ultimi
secoli.
Tale nuova concentrazione di aspettative e improbabili opinioni politiche
sul futuro dell'Europa non assicura però l'osservatore mediamente informato che
in questa tornata elettorale le cose si faranno per bene; in altri termini, il
fatto che le telecamere saranno certamente fisse sul voto non dice ancora nulla
sulla qualità dei candidati del partiti, sulla loro coscienza del momento
storico-politico e sui programmi di rilancio dell'Unione Europea. Ad oggi i
partiti italiani si limitano ad aderire alle liste che si vanno man mano
costruendo, non apportando quasi mai contributi rilevanti in termini di idee –
se non la stanca ripetizione di quei due o tre slogans economici sullo
sforamento del tetto del 3% e altre pretese di (sempre maggiore) spesa pubblica
che i più ripetono senza comprendere fino in fondo: Il PD aderisce al PSE, Lista
Civica aderisce all'ALDE, il Nuovo Centrodestra al PPE e così via.
Per cui a ben vedere anche stavolta, nonostante tutto il tran tran
mediatico, i partiti italiani si scoprono impreparati a reggere il confronto con
le dinamiche politiche d'oltralpe, con i progetti bi-nazionali, con l'Europa
delle lingue (oggi chi vuole essere classe dirigente deve parlare fluentemente
almeno 3 lingue straniere), dell'Erasmus e dell'integrazione tra culture –
facile e triste previsione – probabilmente a maggio si farà di nuovo la figura
degli “italioti”: manderemo a Bruxelles un'armata Brancaleone con scarsa
competenza ma soprattutto scarsissima visione politica. Mal che vada , invece,
invaderemo il parlamento con una truppa di pentastellati che hanno imparato
l'inglese dai filmati teosofici della Casaleggio&Associati. D'altronde
questo è solo l'ennesimo effetto del solito e oramai vecchio problema politico
italiano: lo sganciamento tra le filosofie politiche e i partiti come forme di
rappresentazione ideologica della popolazione. Cioè è lo svuotamento ideologico
dei partiti – lo stesso che gli ha fatto perdere il ruolo di corpo intermedio
tra la popolazione e il governo.
Ma nonostante tutto c'è da essere ottimisti: lo spirito di sopravvivenza
convoglierà i partiti verso le "grandi famiglie" europee di ampio respiro e che
ancora coltivano dei valori di riferimento (dalla tradizione popolare, al
socialismo, al conservatorismo, il liberalismo o l'autonomismo contrattualista –
peccato che la Lega abbia smesso di leggere il prof. Miglio); e, in secondo
luogo, la promozione del bipolarismo avvenuta con la nuova legge elettorale
disincentiverà la frammentazione dei piccoli leaders e costringerà i politici a
costruire prospettive di maggior visione culturale, come accade ovunque in
Occidente. Insomma: ancora una volta abbiamo bisogno degli Alleati che vengano a
rimettere ordine nel nostro paese. Branca, Branca, Branca!!!
giovedì 20 febbraio 2014
La società europea
e i suoi nemici
Uno
spettro si aggira per l’EuropaLe elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo sono
solitamente intese dagli analisti politici come un importante esame di
valutazione dei governi nazionali, piuttosto che come la più compiuta
espressione di linee di pensiero conservatrici o riformiste, all’interno
dell’opinione pubblica, in merito ai grandi temi delle politiche sociali e dei
diritti civili. La posta in palio sembra dunque essere il consenso governativo.
A dire il vero, il prossimo appuntamento elettorale avrà di certo significati
più profondi; si preannuncia infatti come il banco di prova della stabilità
istituzionale della macchina europea. Nel Vecchio Continente si scorge con chiarezza,
pur nella confusione nebulosa che appare ovunque imperante, una galassia
chiaroscura di movimenti e partiti contestatari ed anti-sistema, rancorosi e
corrosivi, che erodono il bacino elettorale delle forze responsabili di ispirazione popolare, socialista e
liberaldemocratica e soprattutto assorbono il torpore astensionista. Pur
essendo spesso distanti fra loro per formazione e vocazione, privilegiano i
motivi condivisi nell’aspettativa di contare qualcosa, o meglio di condizionare qualcuno.Gli indignados spagnoli,
gli indipendentisti inglesi dell’Ukip, i frontisti francesi di madame Le Pen, i
patrioti fiamminghi del Vlaams Belang,
gli scettici olandesi del Pvv e quelli austriaci del Team Stronach, i popolari danesi del Dvp, i neofascisti
ungheresi di Jobbik, i veri finlandesi, gli alternativisti
tedeschi, e per quel che riguarda l’Italia, i leghisti superstiti e i seguaci
ortodossi di un guitto che non fa più
ridere, vivono di slogan monocordi contro i flussi migratori, l’euro, la
Comunità Europea (che assimilano al consiglio di amministrazione di una società
occulta, composto da banchieri, faccendieri e squali della finanza). Se i nemici dell’Europa ricevessero il
consenso loro accreditato dai sondaggi più attendibili e stringessero
un’alleanza strumentale sui banchi parlamentari, indurrebbero il Pse e il Ppe a
ricorrere a larghe intese piuttosto che a convergenze parallele, in nome della
tenuta del sistema istituzionale. Ed è noto che barricadèri spregiudicati e
declamatori furibondi di monologhi demagogichi spendono parole incendiarie
contro le coalizioni emergenziali; eppure le desiderano ardentemente, perché
sembrano avvalorare la tesi, a loro carissima, dell’equivalenza degli altri, l’assioma del qualunquismo.
Anatomia dell’odio I nemici dell’Europa
sono associati da un sostrato comune, vale a dire un’evidente matrice populista
che li induce a replicare ad oltranza gli stessi gesti e a identificarsi in
«adulatori di popolo» (così li chiamerebbe Aristotele) oltremodo carismatici e
persuasivi. La storia insegna che il populismo è un effetto collaterale della
crisi economica, o meglio il suo sintomo politico. Di qui la sua attualità, che feconda le aspettative
dei nuovi estremisti. I populisti curano con particolare attenzione la
comunicazione e semplificano i problemi, dato che mirano a far
presa – nel disorientamento complessivo – su cittadini spenti dalla cupezza
epocale e quindi incapaci di sperare. La dilatazione della sfiducia nel mondo
dà libero sfogo a sentimenti eversivi. E se il messaggio deve essere immediato e univoco, ne deriva una malcelata
intolleranza nei confronti del dissenso interno e delle critiche esterne e uno
svagato disprezzo per gli assetti costituiti. Inoltre si adeguano agli istinti
predominanti, non trascurando l’emotività, e divulgano un lessico del disincantoe
dell’irriverenza che marca distanze lontanissime dagli altri, gli untori del disagio sociale. Si può fare riferimento a un
hate speech intessuto di rabbia e
risentimento, talmente caustico da svalutare l’avversario sul piano della
ridicolizzazione personale. Si lascia intendere dunque che non possono darsi davvero
alternative degne di considerazione. I populisti ambiscono al bando di ciò che non è popolo, vale a dire le
classi dirigenti (per quanto elette democraticamente) fraintese come una casta parassitaria e corruttrice, per di
più asservita a un invisibile regime
tecnocratico. Il non popolo è degno
di distruzione, in quanto covo di cospirazioni permanenti, in uno scenario a
tinte foschissime, quasi apocalittico. Talora i movimenti populisti nascono a
sinistra per morire a destra; più in generale sanno toccare le corde della
trasversalità, camuffandosi sotto vesti civiche, tutt’altro che pesanti e
quindi adatte per tutte le stagioni. Il più delle volte sfuggono ad assunzioni
di responsabilità: nella misura in cui evitano confronti o compromessi con gli altri consolidano il loro manicheismo di
base, e soprattutto non sporcano le mani, lasciandole accuratamente in tasca.
Del resto, come amava ripetere l’ambasciatore brandeburghese a Jena, nella
seconda metà del Seicento: “chi non fa niente, non ha niente da temere”. Eppure
quando nei territori conquistano un comune o un ente locale, ricorrono senza
esitazioni al realismo machiavellico, non diversamente da amministratori di
formazione cristianodemocratica o socialdemocratica.
Il sale sulle macerie I
populisti alla conquista del Parlamento di Strasburgo non credono nell’Europa,
anzi la considerano la madre matrigna
deprecabile in quantoresponsabile,
con i suoi precetti vincolanti all’insegna della più rigorosa austerity, della fame del popolo. Il loro ricettario minimale non può non favorire
sentimenti nostalgici verso il tempo perduto, quando (forse) si stava bene:
a loro interessa la restaurazione di una moralità, ovvero la riabilitazione di
un determinato stile di vita vinto dalla storia. Di qui l’inesorabile sfascismo dovuto alla mancata
accettazione, forse per un difetto di comprensione, della complessissima società
postmoderna che non solo è aperta e plurale ma anche liquida (come ha insegnato Zygmunt Bauman). Ma la sfida dei nostri
giorni è costruire su macerie, non spargervi sale, ovvero sperare senza essere
disperati. Come appuntò Franz Kafka nei suoi diari, non v’è nulla di peggio del
disordine, soprattutto quando si è al cospetto di competenze esigue. Una
denuncia fine a se stessa, del tutto spoglia di slanci propositivi, non è altro
che un guscio vuoto, il prezzo di un’illusione, un investimento a fondo perduto
a favore di speculatori della tristezza.
mercoledì 12 febbraio 2014
caro amico libertario,
Federico Aldrovandi è morto il 25
settembre 2005, a soli 18 anni. Quel giorno il corpo di Federico è rimasto
sulla strada dalle 6 di mattina alle 11, quando la polizia avvisò i genitori.
Federico era sfigurato dalle percosse e sui suoi vestiti si aprivano larghe
macchie di sangue. I poliziotti,
poi condannati in via definitiva per eccesso colposo in omicidio colposo
tentarono di depistare, dicendo che Federico si era ferito da solo
sbattendo la testa contro i pali della luce. Eppure adesso sono tornati in servizio, dopo aver
provocato ben 54 lesioni sul corpo di Federico portandolo alla morte.
I medici hanno dichiarato che Federico
aveva lo scroto schiacciato, una ferita lacero-contusa alla testa e numerosi
segni di percosse in tutto il corpo.
Hanno ucciso a mani nude e con i
manganelli un ragazzo di 18 anni. Hanno aspettato 6 ore per avvisare la
famiglia. Hanno disinformato, omesso, mentito. A causa dei depistaggi hanno avuto una condanna per un omicidio che di
colposo non ha niente. La
sicurezza dei cittadini non può essere affidata a chi si è reso responsabile di
questo orrore.
Non hanno mai chiesto scusa, non si sono
mai mostrati addolorati per aver tolto la vita a Federico. Ora possono tornare,
armati, a svolgere un servizio istituzionale delicato come quello della
gestione dell’ordine pubblico. Ciò è ingiusto.
Firmiamo insieme la
petizione lanciata da Luigi Manconi: https://www.change.org/it/petizioni/angelino-alfano-via-la-divisa-agli-assassini-di-federico-aldrovandi-vialadivisa#share
mercoledì 18 dicembre 2013
Faccio sempre più fatica a comprendere le
più varie espressioni del costume del nostro tempo. È come se le mie lenti si
fossero offuscate al cospetto di un criptogramma insolubile. Spogliate di
valore dai circuiti alienanti dello scambio telematico (che si risolve nel vano
splendore di bacheche e vetrine anteposte al niente), le relazioni si sono quasi del tutto slegate dalla
dimensione dell’autentica socievolezza, riducendosi ad esercizi strumentali
(giammai disinteressati) di simulazione o seduzione. Un aneddoto è più chiaro
di un’elaborata argomentazione sociologica.
Durante una
passeggiata serale mi imbatto, nei pressi dei giardini pubblici, in tre ragazze
dall’età indecifrabile che si dirigono proprio verso di me.
«Ciao…, tu sei
Davide, verooo?»
«A dire il vero
sono Francesco… Mi spiace. Colgo un velo di delusione sul tuo volto…»
«Oh carinooo…»
Rispondo con un
sorriso perplesso, non scorgendo nel loro atteggiamento disinvolto ammiccamenti
prostitutivi o ilarità spavalda e beffarda.
«Vabbe’, ciao
amo’…».
Torno sui miei passi e mi immergo nell’umidità
del parco, ascoltando:
Struggente e lirica, la scena
sublima – esaltandola – una condizione che di per sé sarebbe l’anticamera del
ripiegamento depressivo. Girare a vuoto di sera in auto, senza intrusi, per trovare una chiave di volta, perché non è mai
troppo tardi per decidersi a voltare pagina, facendo in modo che quel che è stato non influenzi il
presente, sterilizzando o abortendo le sue potenzialità più effervescenti. Così
anche una canzone solitaria può favorire la presa di coscienza della necessità
di rifondare il proprio mondo. Isabella Ferrari fa il resto; impersona un caso
singolarissimo di separazione della bellezza pornografica dalla volgarità o
dalla sguaiataggine. La scena è irripetibile per la sua ricercatezza: in pochi
hanno visto il film di De Maria, in pochi conoscono Bellamore di Sinigallia. È dunque vero che la poesia rifugge le
masse, declinandosi in un passatempo elitario.
sabato 12 ottobre 2013
Non è mai troppo tardi per andare all'inferno.
Una delle new hit più
interessanti del momento. Una fotografia di notevole pregio della società
postmoderna, che è certamente liquida. Che Carboni abbia letto Zygmunt Bauman?
martedì 8 ottobre 2013
Ragazzini
dal pugno chiuso
Avevo
forse quattordici anni, frequentavo il Liceo Classico della piccola città.
Ricordo bene che una mattina, a margine di un intervallo, prima di rientrare in
classe proclamai con la sicumera propria degli adolescenti, sbalordendo l’insegnante
di greco: “Io sono marxista!”. Non era ancora spuntata la barba. Avevo tanta
rabbia nelle tasche, ed ero ispirato dall’insofferenza per il provincialismo
piccolo borghese di un mondo troppo piccolo e chiuso. Conquistai l’insegnante
che, infatti, nel colloquio con i miei genitori al termine del quadrimestre
ebbe modo di dire: “Sapete, il ragazzo mi ricorda com’ero quando avevo la sua
età”. Da allora a casa i miei iniziarono giustamente a preoccuparsi.
Stamattina, entrando in Facoltà, due studenti dall’espressione vaporosa
resa più accattivante dalla Kefiah
attorno al collo, interrompono il mio passo affrettato. “Senti, seguiresti un
corso di marxismo? Un paio di lezioni settimanali…”. Resto perplesso, in attesa
di un’illuminazione. Poi sorridendo, senza voltarmi per cogliere la loro reazione,
sentenzio: “Scusate, ma non sono più un sedicenne…”
Sin dall’antichità classica la diversità
culturale è stata negata, o meglio respinta sul piano della dis-umanità. Ogni
sistema di valori dà luogo a un microcosmo culturale, in virtù del quale i
sistemi alternativi sono fraintesi o trascurati. La maggior parte dei
cosiddetti popoli “primitivi” si designa infatti come “gli uomini”, relegando
gli “altri” nella natura. Essendo balbettante, il barbaro difetta di pensiero
e, pertanto, appare come l’Altro insopportabile, che deve dunque essere
respinto: ad esempio, per Aristotele non v’è differenza fra il barbaro e lo
schiavo. Più in generale, lo straniero (in latino hostis più che peregrinus)
ha in sé l’espressione dell’ostilità.
Recessioni economiche, crisi politiche e
mutamenti sociali provocano insicurezza nel sentimento dell’identità. La
condivisione della lingua, della confessione religiosa e di un passato comune
non soddisfa più l’esigenza identitaria, per la quale occorre riscoprire le
radici culturali. Eppure si trascura che, come ha avuto modo di osservare Enzo
Bianchi, si danno radici soltanto nel regno vegetale. In un’epoca segnata dalla
crisi dell’identità collettiva, occorre un nemico verso il quale rivolgere le
tensioni interne. Come ha sostenuto Umberto Eco, il nemico offre un ostacolo rispetto
al quale misurare la solidità del sistema valoriale. Diventa nemica una figura
estranea, non necessariamente proveniente da un altrove indefinito (si pensi
all’extracomunitario immigrato o al gay), che di per sé rappresenta tutt’altro
che una minaccia. Ma Spinoza ha insegnato che quando gli uomini non sono grado
di prendere una decisione e fluttuano miseramente fra la speranza e la paura
(che sono due passioni tristi, che inibiscono la potenza di agire), allora sono
disposti a credere a qualsiasi cosa. Anche al Telegiornale meno attendibile. In
accordo al principio classico della kalokagathia,
secondo il quale quel che è buono è necessariamente anche bello, il nemico non
può non risultare ripugnante (essendo privo di integritas) e maleodorante. L’invenzione del nemico si avvale dei
pregiudizi negativi. Ogni pregiudizio marca una distanza rispetto all’oggetto
della svalutazione e rafforza al contempo il soggetto prevenuto. È radicato e
profondo, perché deriva da cliché di maniera che potrebbero avere anche un
fondo di verità e che di certo àncorano a una cultura di base, favorendo
sentimenti di appartenenza. Prontamente confermati dagli organi di
informazione, i pregiudizi lasciano emergere dalla loro latenza subculturale
timori ancestrali e notturni. Il cittadino inquieto si reca alle urne ed è
pronto a sostenere il Reggente Forte.
Ho
visto anche degli zingari felici
Il nemico classico è l’ebreo. La
letteratura concernente l’odio antisemita e la Shoah è esaustiva e variegata, estendendosi dalla narrativa alla
cinematografia. V’è invece un’altra figura estranea,
storicamente discrimanata, che è avvolta dal silenzio: quella dello zingaro.
Nell’età moderna l’assassino di uno zingaro poteva farla franca a Venezia e in
altre città: nessun tribunale lo avrebbe infatti condannato. Nel XVII secolo i
nomadi venivano scacciati di villaggio in villaggio in Germania in quanto
ritenuti spie al servizio dei Turchi; nel secolo successivo Kant avrebbe
scritto che «l’uomo del non luogo è criminale in potenza». Del resto si sa per
tradizione che gli zingari sono sicuramente imbonitori furfanti e ladri di
bambini. Dato che il furto non rientra fra quanto essi ritengono mallipé (ovvero impuro), qualcuno ha voluto credere che si debba riconoscere una
predisposizione gitana alle ruberie. Si tratta di un argomento superficiale e intessuto
di stereotipi. Un rom non trufferebbe mai un rom. Derubando un gagé, riscatta invece una lunga storia
di negazioni. Agli zingari sono negate la privacy (di qui le recentissime
schedature di polizia in Svezia), la proprietà privata (di qui gli assalti e i
roghi dei campi nomadi), e finanche la memoria (di qui la rimozione del Porrajmos, la grande devastazione
nazista che ha comportato lo sterminio di circa cinquecentomila zingari nei
campi di concentramento). Essendo orale, conchiusa in sé, la cultura romanì non ha condiviso con il mondo la
sua oscura tragedia.
Un
paradosso educativo
La paura del barbaro rende barbari, come
prova l’esempio delle ronde di quartiere organizzate alcuni anni or sono da
militanti della Lega Nord e di altri movimenti xenofobi e razzisti o
neofascisti. Ma, come ha suggerito Claude Lévi-Strauss, è proprio del barbaro
respingere quanti esso stesso considera barbari. Pertanto i nuovi barbari sono
facilmente riconoscibili, e non possono più nascondersi dietro il velo
rassicurante delle loro presunte buone intenzioni. In conclusione, bisogna
essere riconoscenti nei confronti dello straniero
postmoderno, chiunque esso sia, poiché è soltanto con lui che si può
tentare di decifrare lo sviluppo precario e confuso dei modelli sociali di
un’epoca dominata dalle passioni tristi.
sabato 14 settembre 2013
mercoledì 11 settembre 2013
Ideato da Francesco Giampietri, Mirza Mehmedović, Martina Purificato e
Vincenzo Brusello, patrocinato dal Comune di Formia ed organizzato
dall’Associazione culturale Idest, agoràfestival
idee in movimento è un progetto culturale sperimentale volto alla
promozione di un inedito piano di intersezione di più registri tematici (l’arte,
il pensiero e la musica) intorno a un tòpos
univoco: Identità/differenze,
argomento problematico e di stringente attualità che si presta a molteplici
declinazioni, di natura estetica, antropologica, filosofica. L’idea di fondo
che ha ispirato i promotori dell’iniziativa si lega all’esigenza di tornare a
fare cultura nell’agorà, il centro
democratico della città che viene sempre più svilito a vantaggio soprattutto delle
piazze virtuali; ben rappresentata
dal Teatro “Remigio Paone”, l’agorà,
di per sé accessibile a tutti, viene pienamente ristabilita come il luogo
proprio della manifestazione delle arti e del libero scambio dei saperi, il
polo di convergenza di artisti, musicisti e filosofi. Al cospetto del
disarmante individualismo, del superficiale edonismo e della complessiva
sfiducia nel mondo, che sono fra i tratti distintivi della società postmoderna,
appare opportuno scommettere sulla valorizzazione dei talenti individuali,
soprattutto dei giovani, in un contesto pubblico.
Il
programma dell’agoràfestival idee in movimento
prevede una mostra di opere, riconducibili a vari stili, di giovani
artisti, un seminario filosofico che stabilisce un confronto fra diversi
studiosi ed animatori culturali premesso a una discussione aperta al pubblico,
nonché le esibizioni di due band musicali e di una promettente cantante lirica.
Nell’agorà dunque le idee tornano ad
essere in movimento, per la costruzione del bene comune, il benessere della polis.
martedì 6 agosto 2013
A Francesco, per il suo dottorato...
"...e io alla novità non sono
mai stato e non sarò mai
insensibile, perché la novità
è intrinsecamente avventurosa".
(De Marchi - Il talento)
Non tramonti mai la tua passione
per la conoscenza e lo studio
ma possa, anzi, inebriarsi sempre
mediante il gusto della novità,
riuscendo a carpire ispirazioni massime
anche attraverso quei dettagli quotidiani
che molti lasciano scivolare via
e pochi sanno custodire rendendoli
preziose gemme di letteratura erudita.
Un doveroso omaggio ad una band della provincia di Frosinone.
Ci sarebbe molto da dire, tuttavia basta ascoltare i loro pezzi per entrare in uno spazio di confine
meravigliosamente persi dentro quella vasta, quanto sottilissima, terra dove vivono le divinità della musica schiacciate tra prosa e poesia.
Dal vivo non tradiscono, trascinanti e comunicativi. Ferite profonde causate da taglienti colpi di rock.
Johnny Freak nascono nel Novembre del 2005 dall’unione di diversi musicisti della provincia di Frosinone, i quali, dopo diverse esperienze artistiche e live nei migliori locali italiani, trovano la giusta alchimia e dimensione nell’unire il feeling del grunge dei primi anni novanta al rock made in Italy degli ultimi tempi, traendo il loro nome dal più famoso e, al momento secondo gli appassionati, migliore albo di Dylan Dog mai pubblicato: “Johnny Freak”.
Nell’Agosto de 2007 i Johnny Freak autoproducono il loro primo lavoro dal suggestivo titolo Sognigrafie”, dal quale è stato tratto anche un videoclip del singolo “Martin”avvalendosi della collaborazione con i ragazzi della YOU.DE.ZA Filmmaker.
Il successo di “Sognigrafie” viene sancito, oltre che dalle critiche positive, anche dalla ristampa quasi immediata dell’album, vendendo in poco tempo oltre mille copie.
Nei loro concerti i Johnny Freak narrano di disincanto, di sogni trasfigurati dalla realtà e di intima fragilità, ricercando la giusta fisicità del suono: il tutto è sorretto da un tappeto sonoro che si fa diluito e compatto a un tempo, non evitando chitarre abrasive e tensioni elettriche anche nelle ballad. Ciò ha consentito ai Johnny Freak di conquistare una posizione di tutto rispetto: numerose sono le esibizioni in alcuni dei migliori locali, radio e festival italiani.
Nel contempo entrano in contatto con Mauro Marcheselli, caporedattore di Dylan Dog, che manifesta un apprezzamento tale a “Sognigrafie” da dedicare alla band la rubrica Horror Club all’interno dell’albo n° 256 “Il Feroce Takurr”.
Nel Natale 2008 l’ Elevator Records pubblica i singoli “Martin” e “Ansia&Caffè” sui cataloghi digitali di Mondadori, TV Sorrisi & Canzoni, I-Tunes, Messaggerie Musicali.
Nell’Estate del 2011 parte un mini tour di venti date nel quale girano il territorio nazionale, provando e testando nuovi brani. Si ricorda l’esibizione al “Lazio Wave”, festival rock di notevole rilevanza (De Gregori, Verdena), esibendosi come opening act di Morgan, e quella agli “Archi Village”, dove sono la support band di Raf, riuscendo così a suonare davanti a 24.000 persone.
Tra il Settembre e il Dicembre del 2011 i Johnny Freak per il loro secondo album entrano nello storico studio di registrazione del RED HOUSE RECORDINGS di Senigallia (AN), dove si avvalgono della collaborazione artistica di David Lenci e Andreas Venetis (CharlotteHatherley, Linea77, Uzeda, One Dimensional Manecc.), registrando un disco contenente undici tracce di rock emozionale e di forte impatto sonoro. Nel Gennaio del 2012 il nuovo disco viene masterizzato da Giovanni Versari a “La Maestà studio” di Tredozio (FC).
Nello stesso anno è quasi immediato l’interesse dell’etichetta tedesca Antstreet Records, che nota la band e non tarda a metterla sotto contratto. A Novembre esce finalmente, dopo cinque anni di attesa, il nuovo album dal titolo “Tra il Silenzio e il Sole”, dove vengono a galla le grandi potenzialità compositive della band, capace di coniugare la tradizione rock italiana degli ultimi 15 anni con il suono più autentico del grande rock internazionale.
La
notizia è mortificante, profondamente deprimente. Mi tingo il volto di
vergogna.
domenica 21 luglio 2013
MEMORIA DOMENICALE DEGLI SMITHS
The
Smiths, «il gruppo più snob della scena musicale anglosassone», si distinguevano
anche per un certo radicalismo (reso emblematico dal titolo del quarto album),
tutt’altro che scontato se associato allo svagato disimpegno dei Duran Duran e
di altre celebri bands coeve. Erano
intransigenti da un punto di vista letterario, e così sedussero Tondelli e
altri profondi conoscitori dei costumi e delle mode del postmoderno. La scrittura di Morrissey era ricercata, talora
ispirata fino all’iperbole sentimentale (si pensi al seguente passo:
And if a double-decker bus
Crashes in to us
To die by your side
Is such a heavenly way to die
And if a ten ton truck
Kills the both of us
To die by your side
Well the pleasure, the privilege is mine
tratto
da There is a light that never goes out).
«Un modo celestiale per farla finita…» esprime bene l’edonismo
sprezzante, disincantato, inconsapevolmente decadente degli anni ’80, così
lontani, ma rievocati nelle parvenze e nelle maniere attuali (come il taglio
dei capelli e la montatura pesante degli occhiali). E la voce di Morrisey,
«sensuale, strascicata e maledetta: l’unica un po’ perversa che questi primi
anni ottanta – obsoleti, invece, di falsetti e mezzeseghe – ci abbiano dato». E
infine le contaminazioni eleganti fra generi distanti (di qui il cosiddetto indie pop), espressione mirabile del
gusto postmoderno, di per sé irripetibile, e pertanto dannatamente (in)attuale,
al di là dello scadimento dell’edonismo in pornografia, vicenda piuttosto
recente.
PS: Le citazioni sono tratte da P. V.
TONDELLI, Un weekend postmoderno. Cronache
dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano 2009 (1990), p. 300.