CONTRO LO SCETTICISMO
Sull’inaffidabilità dei sensi e sulle ragioni dello scetticismo
di Mirza Mehmedovic
Ogni tesi scettica, ogni soluzione scettica in filosofia, ha la forma di una negazione, o di una privazione che ci avvilisce nello spirito:
- non possiamo dire se il mondo è come lo concepiamo.
- ogni inferenza sul futuro si basa sull’abitudine e non su un principio razionale, dunque nessuna delle inferenze sul futuro è razionalmente giustificata.
- non vi è nessun fatto relativo a me stesso per cui io possa dire con certezza che non mi sbaglio riguardo all’uso corretto delle regole di qualunque genere che quotidianamente applico.
Le dispute filosofiche sorgono spesso quando una forma di scetticismo si insinua in una qualche tesi ontologica o epistemologica, oltre che per ragioni di abuso linguistico, come direbbe Wittgenstein. Talvolta, nella storia del pensiero metafisico, l’atteggiamento scettico si è rivelato un utile strumento di indagine. Prendiamo il caso di Cartesio: se dubito di ogni cosa, prima o poi giungerò a qualche principio di cui dirò di non poter dubitare. Questa è una tecnica elaborata ad hoc poiché, come la storia della filosofia stessa suggerisce, attraverso le opere di Hume, quel principio a cui giunse Cartesio è un principio di cui si può ragionevolmente dubitare e tutt’ora si dubita. Quell’eredità che tuttavia sì è prepotentemente conquistata una nicchia nell’ecosistema “del puro ragionare intorno a” è ben rappresentata nel punto primo: non possiamo dire se il mondo è come lo concepiamo. La scienza sembra talvolta suggerire che lo scettico faccia bene ad avere grosse riserve nel sostenere che vi è conoscenza vera delle cose. Perché? Grosso modo per il seguente motivo: poiché la scienza ci rivela che i sensi funzionano da trasduttori, possiamo concluderne che ogni percezione del mondo è mediata e non immediata. Di conseguenza, qualunque sia lo strumento di indagine scientifica, vi sarà sempre uno scarto tra ciò che saremmo tentati di concludere intorno alla realtà delle cose e ciò che, nel nostro modo di percepire il mondo, noi effettivamente conosciamo mediante i sensi. Questo è quello che definirei un atteggiamento irrazionalista. Generalmente chi afferma la tesi scettica, lo fa per puro spirito dogmatico e non propone alcuna soluzione alternativa. Per lo scettico noi saremmo condannati per sempre all’ignoranza della verità. Chiamo questa una riformulazione più perversa del gesto di Dio nei confronti del popolo della Babilonia: Non solo un’incapacità di capire ciò che ci dice l’altro, bensì l’incapacità di cogliere il messaggio scritto nel “linguaggio della natura”. Leggendo le pagine di un articolo del professor Stanzione, mi imbatto in una breve e chiara formulazione dell’argomento anti-scettico proposto da W. V. O. Quine nel suo “Naturalized Epistemology”[1] e nella successiva riformulazione della tesi scettica di Stroud. Il professor Stanzione si esprime così:
La critica di Quine allo scetticismo classico si basa sulla tesi che, ricorrendo all’argomento delle illusioni, quest’ultimo di fatto presupponesse la scienza e la conoscenza del senso comune. In caso contrario, sarebbe stato impossibile per lo scettico definire illusorie certe percezioni – nonché false le credenze da esse ispirate. Ma, contro Quine, Stroud aveva riformulato l’argomentazione scettica nei seguenti termini: o la scienza è vera, e ci fornisce conoscenza, o non lo è. Se non lo è, nessuna nostra credenza scientifica sul mondo fisico ha valore conoscitivo. Ma se la scienza ci da conoscenza, quello che essa afferma sul ruolo svolto dai nostri apparati sensoriali nell’atto della percezione basta a dimostrare che non potremo mai stabilire se il mondo esterno è realmente come lo concepiamo. Dunque quel che siamo portati scientificamente a credere mediante la scienza non è vera conoscenza.[2]
Restando fedele al tema qui presentato, abbandoniamo lo scritto del prof. Stanzione e concentriamoci su quanto viene qui affermato. Quel che subito salta all’occhio di un osservatore attento è che la tesi di Quine ha, nella storia del pensiero filosofico, un precedente nel De rerum natura di Lucrezio. Il filosofo epicureo, nel libro quarto dell’opera si esprime così contro gli scettici:
Se qualcuno ritiene che nulla si sappia, anche questo egli ignora, se si possa sapere, poiché afferma di non saper nulla. Contro questo, farò a meno di entrare in contrasto, lui che da solo si mette i piedi in testa. Tuttavia, concediamogli pure di sapere questo, questa cosa soltanto vorrei chiedergli: se nelle cose nulla di vero ha prima saputo, donde sa cosa siano “sapere” e al contrario “non sapere”, quale cosa abbia creato il concetto di “vero” e di “falso”, e quale cosa ha dato la prova che “dubitabile” è diverso da “certo”. Scoprirai che dai sensi è stato, prima, creato il concetto di “vero”, e che i sensi non possono confutarsi: si dovrebbe difatti discoprire un che più affidabile, che sia in grado da solo di vincere il vero col falso.[3]
Inutile dire che quel qualcosa di più affidabile Cartesio credeva d’averlo trovato in Dio. Quello che più ci interessa delle affermazioni di Lucrezio sta nella fiducia che a suo tempo riponeva nella conoscenza empirica. La tesi che Lucrezio propone è così formulabile: se uno scettico afferma che nulla sappiamo, come può sapere questo, di non sapere nulla? Egli deve essere in grado di dirci da quale principio superiore ha tratto tale conoscenza. Non possiamo appellarci all’espediente dell’ente supremo, poiché rischiamo di giocare in modo ambiguo. Se, infatti, parliamo di scienza e vogliamo negare a questa che sia mezzo di conoscenza, dobbiamo rimanere entro i limiti della questione epistemologica, senza introdurre enti il cui ruolo non è epistemologicamente chiaro. Generalmente a questo punto le discussioni si trasformano in caotiche dichiarazioni di principio e la ragione indagatrice scompare in un alone di deliranti e misticheggianti deformazioni comportamentali. Che cosa possiamo sapere? Decidiamo di rimanere per terra: i sensi non possono confutarsi, solo certe affermazioni possono essere confutate dall’esperienza. Che cosa ci dice la scienza. Prendiamo la riformulazione di Stroud dello scetticismo. Mi prendo la briga di riformulare in due punti distinti le tesi:
- La scienza non è vera, dunque non ci fornisce nessun genere di conoscenza sul mondo.
- La scienza è vera, dunque essa stessa può mostrarci che non possiamo appellarci ai nostri apparati percettivi per concludere che il mondo è, o è diverso da, come lo percepiamo.
Non entro nel merito dell’analisi del prof. Stanzione e propongo una personale critica al ragionamento di Stroud. Dunque, quanto al punto primo, c’è da domandare questo: se siamo disposti ad affermare che la scienza è falsa, a quale principio dobbiamo appellarci per affermare che è falsa? Evidentemente, se siamo scettici, dobbiamo disporre di un criterio per stabilire ciò, ma se disponiamo di un criterio del genere, per applicarlo dobbiamo ancora affidarci al nostro apparato percettivo per compiere la valutazione, il che equivarrebbe ad un atto di auto-contraddizione per lo scettico, il quale nega, nel punto due, che possiamo appellarci ai sensi per dire qualcosa che sia oggettivamente vero. Così, a prima vista, si direbbe che lo scettico operi una distinzione non giustificata tra giudizi teorici e giudizi empirici. Sarebbe una questione meramente logica, decidere della verità o della falsità della scienza. Questo è assurdo. È vero che la scienza dispone di un notevole apparato teorico che è parte integrante dell’atteggiamento scientifico sperimentale. Ma da ciò non possiamo concludere nulla. Inoltre, come lo stesso Quine afferma, la scienza non è un blocco monolitico e, dunque, non può crollare in blocco. Non so quanto sia efficace questa affermazione sulla natura della scienza. In effetti sembra che lo scettico abbia a cuore una questione più sottile: qualunque sia la complessità della scienza, nell’insieme, considerando la verità del punto due, essa non fa alcuna differenza circa la Verità con la “V” maiuscola. Essa, cioè, non ci mette nelle condizioni di dire se il mondo è come lo concepiamo. Ora, a mio avviso, anche nel punto due si cela una contraddizione. Se, di fatto, la scienza ci può dire qualcosa di vero circa il nostro apparato percettivo, essa può dirci qualcosa di vero circa qualunque altra cosa, poiché, nella misura in cui essa ha accesso alla realtà nel rivelarci le proprietà che caratterizzano tali apparati, essa ha accesso a tutto il mondo delle cose. Lo scettico ha così fatto il nostro gioco: si è appellato ad un criterio accessibile all’indagine epistemologica e, non disponendo di un meta criterio, si è contraddetto o, per dirla con Lucrezio, si è messo i piedi in testa. Il lettore avrà la tentazione di pensare che, con quanto si è appena detto , lo scetticismo è senza speranza e che, dunque, la nostra conoscenza del mondo è genuina. Io penso che lo sia. Ma non basta mostrare la contraddittorietà dello scettico per fondare una solida fiducia nell’indagine scientifica.
Riassumendo quanto si è fin ora detto, possiamo dire che nel giocare al gioco che indaga le possibilità della conoscenza, dobbiamo disporre di criteri che siano coerenti con quanto è messo in discussione, che in altre parole non trascendano nel genere l’oggetto dell’indagine, fino a concedere la possibilità di formulare proposizioni “non decidibili”.
Altra affermazione che possiamo apprezzare del De rerum natura è questa: se nulla sappiamo, non disponiamo di alcun criterio per distinguere il significato di termini quali “vero” e “falso”, “sapere” e “non sapere”. Queste affermazioni sono straordinariamente importanti per la filosofia. Sembra imporsi prepotentemente l’idea per cui, se siamo in grado di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è conoscenza e ciò che non lo è, ciò lo dobbiamo ai sensi e all’indagine empirica mediata da questi.
C’è qualcosa di profondamente perverso nell’idea del noumeno, e le caricature che molti spacciano da tempo per conferme della realtà di ciò a cui non possiamo attingere mediante i sensi sono del tutto innocue. Le caricature hanno questa forma generalmente: se stiamo all’indagine scientifica, allora possiamo affermare con certezza che non avremo mai un accesso diretto a quegli enti che chiamiamo atomi, onde elettromagnetiche, onde luminose ecc. Spaventa ancor più, a mio avviso, il fatto che non ci si accorga del carattere metaforico della terminologia scientifica adottata. “Atomi”, che cosa sono? Poiché appunto non abbiamo un accesso diretto a quegli enti che chiamiamo atomi, come possiamo affermare di non avere alcun accesso ad enti chiamati così. Se non l’abbiamo, in verità non stiamo nominando un bel niente. Se, tuttavia, qualcosa stiamo nominando, dovremmo penderci per lo meno la briga di scoprire “che cosa” stiamo nominando. Ora, ho appena affermato che vi è un apparato metaforico di espressioni scientifiche. Nel nostro caso non per nulla esiste un modello della struttura atomica. “Atomo” sta con ogni probabilità, nel modo di parlare scientifico, più per un modello che non per una “cosa”, dal momento che non sappiamo se di “cosa” si tratti. Questa affermazione è lontana dalle nostre intuizioni. Gli esperimenti scientifici mostrano che questi enti esistono e che sono reali nel modo, grossolanamente detto, in cui sono reali tavoli, sedie, gatti e quant’altro. Sì, volendoci affidare ai nostri sensi, possiamo dire che qualcosa percepiamo, ma neghiamo che ciò che percepiamo sia l’ente stesso. Noi vediamo l’effetto, non la causa, quando guardiamo il rivelatore di un acceleratore di particelle. Che cosa voglio dire? Se siamo scettici, possiamo affermare che vi è un sostrato, reale, non indagabile mediante i sensi, che Kant chiamò noumeno e che si rivela davvero come trascendente la nostra capacità di osservazione. Trascendente? È curioso che si possa “parlare tanto di” e “costruire tanto mediante” questi enti, matematicamente e fisicamente indagati, poiché si supponeva per l’appunto che fossero trascendenti la nostra indagine. Come può qualcosa di inaccessibile essere oggetto di indagine, causare comportamenti talvolta irrazionali, essere impiegato per fare scienza? Con queste evidenze storiche possiamo riconoscere e valutare anche il peso dell’eredità Kantiana, senza togliere nulla ad altri illustri metafisici. Ad ogni modo: o il noumeno è altro da ciò che la scienza con fatica indaga, o è propriamente ciò che essa indaga. Se non è ciò che la scienza indaga, allora qualcuno deve darci un’indicazione di che cosa debba essere considerato noumenico, contraddicendosi. Deve altrimenti astenersi da giudizi affrettati, senza irrompere nella quiete della seria indagine, affermando a voce alta che ciò che è noumenico è insieme ciò che indaghiamo.
Colgo qui la palla al balzo per dire due parole sulle deliranti questioni relative al realismo di Putnam. In particolare, voglio avvalermi dell’espediente cartesiano dei cervelli nella vasca per scatenarmi ancora contro lo scetticismo – come spero, con la benedizione del lettore. L’esperimento mentale di Putnam può essere rappresentato nel modo seguente:
Immagina che la nostra condizione reale sia del tutto diversa da come la percepiamo/concepiamo. Siamo, in verità, cervelli in una vasca, posti lì da uno scienziato pazzo che li ha precedentemente estratti dai nostri rispettivi corpi, e che poi ha premurosamente alimentato e dotato di elettrodi capaci, mediante stimolazione elettrica, di procurarci l’illusione perenne di normale vita cosciente. Nulla nel nostro modo di fare scienza o filosofia cambia, poiché i limiti del nostro mondo sono definiti nel modo in cui siamo vittime di sogni incredibilmente vividi.
Non intendo questionare sulle capacità della scienza di arrivare a tanto, al punto da consentire allo scienziato un esperimento tanto perverso. Mi concentrerò invece sul messaggio. Putnam sostiene che il mondo esiste, ma possiamo non sapere se è come lo concepiamo. La nostra concezione, nel caso specifico, è completamente errata, se, pur constatando di mangiare, dormire, ballare e parlare, siamo oggettivamente cervelli nella vasca. La mia replica è la seguente. Quando Putnam afferma che potremmo essere cervelli nella vasca, è disposto ad ammettere che tutto ciò che sta accadendo, compreso il fatto di aver egli scritto un articolo in cui parla di cervelli nella vasca sia, in verità, un’illusione procurataci da uno scienziato pazzo, che tiene il cervello di Putnam e i nostri nella vasca? Se sì, come può Putnam non affermare che anche il suo esperimento mentale è il prodotto di uno stimolo elettrico indotto dallo scienziato? Se, ancora, Putnam afferma che è vero: anche il mio esperimento mentale potrebbe essere il prodotto di un’allucinazione, come potrebbe non affermare che anche quest’ultima valutazione è, in definitiva, il prodotto di uno stimolo artificiale? E così via, all’infinito, fin sulle alte vette dei crampi mentali. C’è poco da fare, o siamo cervelli nella vasca, e allora c’è uno scienziato che a sua volta si chiede se è un cervello nella vasca e che crede di controllare l’attività nervosa di altri cervelli nella vasca, o l’espediente stesso si rivela essere un ragionamento circolare. Se, infatti, siamo autorizzati a dubitare della nostra conoscenza, siamo automaticamente autorizzati a fare a meno di un qualunque criterio razionale e coerente di giudizio. Con ciò si può sostenere che lo scetticismo non può che cadere in disgrazia tutte le volte che si impone, talvolta per genuina riserva gnoseologica, talvolta per lasciare luogo all’ideologia.
[1] QUINE W. V. O., Epistemology Naturalized., in Quine W. V. O., Ontological Relativity and Other
Essays, New York, Columbia Univ. Press, 1969, pp. 60-90.
[2] MASSIMO STANZIONE, Epistemologia Evoluzionistica, in “Arco di Giano” 2005, n°43, p. 105.
[3] LUCREZIO, La natura delle cose, Giulio Milanese (a cura di), Milano, Arnaldo Mondadori Editore 1992, pp. 271-272.