La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



sabato 15 agosto 2009

Il guardiano furente di San Lorenzo


Nel pomeriggio ferragostano mi torna in mente un episodio capitatomi ormai qualche settimana fa. Viaggiavo in bus, alla volta di Roma. Quando mi capita di affrontare viaggi in corriera – per abitudine di liceale ribelle – tendo sempre ad occupare l’ultima, lunga fila delle postazioni. È un modo come un altro per stare un po’ con se stessi, magari accavallando le gambe, o distendendo le spalle sul finestrino laterale. Quel giorno l’intento non riuscì perfettamente, dal momento che – avanzando per il corridoio centrale del bus – il mio sguardo non aveva colto la figura esilissima di un giovanissimo ragazzo, rintanato nell’angolo estremo, inaccessibile, dove avrei voluto rifugiarmi io. Ormai il gioco era fatto, e non mi sembrava il caso di tornare sui miei passi per scomodare qualche vecchietta o qualche studentello di campagna che se la tira per i suoi studi capitolini.



Chiedo al biondino dallo sguardo di ghiaccio: “Ti spiace se mi siedo qui?”.
Senza guardarmi, continuando a fissare le sue galessie di noia, mi dice: “Fa pure, prego prego”.
Tiro fuori dalla saccoccia uno dei miei romanzi dai titoli impossibili. Non gli risulto indifferente. Tenta di capire cosa diavolo stessi leggendo. Capisco che vuole parlare.
Pochi istanti dopo, infatti, mi tira fuori dal vortice delle mie letture desolanti, dicendo: “Quanno ce vò pe arrivà a Tiburtina?”
Inizio a fare alcune considerazioni. Credo che sia un ragazzo che non ha avuto la fortuna di studiare, di appassionarsi alla pratica della conoscenza. Capisco che non devo esprimermi – come solitamente faccio – con un linguaggio eccessivamente barocco. Per non risultargli ostile, per non marcare differenze e pregiudizi.
“Guarda, fra un’ora e mezza dovremmo essere lì, ammesso che non si resti imbottigliati sul Grande Raccordo Anulare”.
“Che palle! Porca troia! Senti un po’, che stai a legge?”
Non oso rispondere compiutamente alla sua innocua domanda. Come farei a presentare il senso della mia lettura, così sofisticato e ricercato, ad un ragazzo completamente appartenente ad un altro mondo?
“Sai. È un romanzo che ho iniziato l’altra notte, niente di che”.
“Che fai nella vita?”
Come spiegargli gli anni dedicati allo studio di Leibniz, i miei progetti di ricerca? Chi è mai Leibniz poi per il fanciullo dallo sguardo spento, un terzino del Werder Brema o un centrocampista dello Shalke 04?
“Collaboro con l’Università, lì a Villa Mirafiori sulla Nomentana. Conosci la zona?”
“Quella è una zona tranquilla. Io non sò de Roma. La ce sta mi madre. Io faccio avanti e dietro. Mia madre sta a San Lorenzo. Conosci?” Annuisco “…e mi padre sta a Campobasso”.
Banalmente chiedo: “Dove ti trovi meglio, a Roma dalla mamma, o col papà in Molise?”
“In Molise non si fa un cazzo dalla mattina alla sera. Tutto è morto. Tutto è noia. Mi scogliono e non vedo l’ora di tornà a Roma. Là si che ce sta er casino. Ogni sera una storia. La se batte…”
Sorrido imbarazzato. “Ah capisco”
Mi volto un attimo per fissarlo. Ricambia lo sguardo con freddissimi e tristi occhi di cristallo, spenti, spettrali, stupendi. Noto che le sue braccia sottilissime, il suo collo slanciato sono una ricucitura di cicatrici. Capisce la mia perplessità.
“Non te devi meraviglià. Ogni notte è na battaglia. Io cogli amici miei difendo San Lorenzo”
“Cosa c’è da difendere? È un quartiere pacifico. Cinesi, latinoamericani e slavi convivono pacificamente”.
“Tu che ne sai? Ce vivi pe caso? Ce giri de notte? Viette a fà un giro e po’ ne riparlamo”. Finge di utilizzare il cellulare. “Noi dobbiamo strappare le palle ai rumeni. Questo è quello che dobbiamo fà. Sò cattivi, stronzi, delinquenti”.
“Ho capito. Se dovessi batterti con qualche ragazzo armato di taglierino, rischi di rimetterci le penne, cerca di stare attento”.
“Io sono forte”.
Sono sorpreso da quello che sto scoprendo. Tento di indagare un po’, ma il ragazzo è scaltro, capisce il mio gioco di consenso dissimulato e si chiude.
“Quanti siete? Siete organizzati?”
“Avemo l’associazione”
“Quanti siete?”
“Non lo so, e che cagna?”
“Niente, niente, tranquillo”
Non mi va più di parlare con lui.
Spingendomi oltre, riesco soltanto a chiedergli: “Tua madre cosa ti dice quando ti vede rientrare a casa in quelle condizioni?”
“Lavora di notte, non mi vede e poi non se ne frega un cazzo”.
Capisco che devo troncare la conversazione. Sprofondo nuovamente nella lettura. Alla Stazione Tiburtina, posso richiudere il romanzo, ormai concluso. Sono stanco, oggi più che mai.
Sto per scendere. “Che fai stasera, vieni a San Lorenzo?”
Oh my God, il nazista mi vorrebbe con sé. “No, torno a casa”
“Cerca di venì”
Sorrido
“Buona fortuna, professò!”
“Ciao . . . ” Resto allibito, non vedo l’ora di farmi assorbire dall’indistinzione della metropolitana, per sparire nelle viscere dell'Urbe. Luci al neon sul fallimento delle nostre ore.

2 commenti:

  1. Caro Francesco,
    come stai? Ho letto il tuo ultimo post sul blog e mi sono divertita
    un po', anche se non avrei dovuto, immaginandoti seduto gomito a gomito
    con un nazi. Chissà quali erano le sue intenzioni quando ti ha invitato
    nel suo "regno", il quartiere di San Lorenzo, che, a differenza del
    nome, deve essere un vero e proprio campo di battaglia...

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  2. Nel gestire quella conversazione, ero più curioso che divertito.Ho riflettuto tanto sull'incontro col piccolo guerriero razzista. Le sue intenzioni? Magari tentare di dimostrarmi, immolandosi per un delirio, che con i libri non si cambia affatto il mondo...

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