La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



mercoledì 12 agosto 2009

Война и мир


Quando si dedica del tempo alla lettura di un libro e in special modo quando il libro presenta tutte le fattezze di un capolavoro letterario, di un’opera d’arte della letteratura mondiale, quando dunque si dedicano quaranta giorni alla lettura di tal genere di composizione, inevitabilmente, quasi senza esserne consapevoli fino in fondo, si subisce l’influenza subdola e pure curiosamente gradevole di tutti gli avvenimenti, di tutti gli intrecci e di tutte le matasse districate che le pagine laboriose scaturite dalla penna dell’autore sciorinano nella fantasia del lettore.
S’instaura così un tale legame di complicità, di strizzatine d’occhio tra scrittore e lettore che par quasi, senza esagerare, che tutti i personaggi descritti con minuzia di particolari, saltino fuori dalla carta stampata per far sì che il loro ricordo non svanisca nel momento in cui, terminata la lettura del libro, se ne chiudono per sempre le pagine schiacciando gli ologrammi dei protagonisti come fossero fiori messi ad essiccare tra i pesanti volumi rinchiusi nella libreria.
Anche stavolta non potevo esimermi dal fenomeno appena descritto. Devo inoltre aggiungere che anche stavolta non solo i personaggi d’autore son saltati fuori dalla carta stampata, ma con mio vivo stupore sono stati talmente bravi da coinvolgermi nelle loro vicende private, che anche lasciando il libro da parte e mettendo il naso fuori di casa ho immaginato d’incontrare per strada la figura incarnata di Nataša, di Pierre o di Andrej. Mi son trovata, a volte, ad osservare un viso piuttosto che un altro perché magari vi riscontravo l’anima di un personaggio, le sofferenze di quel protagonista, le gioie e le paure dello stesso autore che, acutamente, le aveva sistemate ben bene sotto il velo di un nome diverso dal suo.
Quando tutto ciò accade non è merito dell’oppio (non ne faccio uso) e neanche del sonno etilico; quando tutto ciò accade la responsabilità è da attribuirsi al genio di uno scrittore che in quest’ultimo mio viaggio letterario corrisponde al patronimico di Lev Nikolevič Tolstoj.
Il romanzo intorno al quale sto tergiversando da oltre dieci minuti è il famosissimo Guerra e pace, mostro sacro della letteratura mondiale. Naturalmente non ho alcuna intenzione di star qui a far l’elogio di un libro che tutti conoscono e di cui chiunque può trovare notizie, dritte e quant’altro nel vortice informativo di Wikipedìa. Su questo libro è stato detto tutto, sono state persino girate diverse pellicole cinematografiche (che evito di guardare per non stravolgermi quel gusto di esclusività che traggo dalla ‘mia’ fantasia piuttosto che da quella di un regista qualunque), e dunque non è mia volontà ripetere pedissequamente che “sullo sfondo di grandi avvenimenti storici (battaglie di Austerlitz e di Borodino, incendio di Mosca) ove campeggia la figura di Napoleone, quale idolo polemico dell’autore, si inseriscono le vicende delle famiglie Bolkonskij e Rostov, appartenenti all’alta società russa”. E nemmeno approfondirò le mie ricerche su quello che è il filo conduttore di tutto il romanzo: la rassegnata sottomissione alle circostanze, all’ordine delle cose, alla volontà del destino. “E continuava a compiersi quella terribile cosa che non si compie per volontà degli uomini, ma per volontà di chi regge le sorti degli uomini e dei mondi” (Libro III, Parte seconda, Cap. XXXIX). No, niente di tutto questo.
Solo mi piace osservare come nel titolo dell’opera possa ‘anche’ eventualmente rintracciarsi il percorso psicologico, di maturità spirituale dei personaggi che più di altri emergono per la loro personalità, per le loro complesse interiorità.

Dopo aver cercato la realizzazione dei suoi sogni di gloria, ferito mortalmente sul campo di battaglia di Borodino, il principe Andrej trova la pace interiore, la verità della vita: “Sì, mi si è svelata una felicità nuova, inseparabile dall’uomo […] Una felicità che si trova al di fuori delle forze materiali, al di fuori delle influenze materiali che agiscono dall’esterno sull’uomo, una felicità che è solo dell’anima, la felicità dell’amore!…”. Il principe Andrej appartiene a una nobiltà fortemente selettiva che crede in valori autentici e a scarsi contatti con l’alta società e la corte, la cui frivolezza e corruzione sono estranee, ripugnanti: l’irritazione, il fastidio per l’ambiente che il suo grado e il suo titolo lo costringono a frequentare lo spingono a partire per la guerra. Cerca la gloria, invidia la sorte di Napoleone, cerca la sua Tolone. Guidato da un forte egoismo intellettuale, crede in un futuro di eroico combattente, ma trova il vero eroismo nel semplice capitano Tušin, che gli dà una grande lezione morale. Ferito ad Austerlitz, guardando il cielo “lontano, alto, eterno”, capisce la nullità, la vanità della gloria (anche quella di Napoleone che si ferma accanto a lui e ne ammira il coraggio). Sarà infine la morte a riaffermare nel principe Andrej la vita e ad insegnargli a superare l’orgoglio, l’isolamento, ad accettare la legge del perdono, l’amore per l’umanità. I suoi ultimi pensieri saranno infatti: “L’amore si oppone alla morte. L’amore è la vita. Tutto, tutto quello che io comprendo, lo comprendo perché amo. Tutto è, tutto esiste soltanto perché amo. L’amore è Dio e morire significa per me, particella d’amore, tornare alla fonte universale ed eterna”.

Nataša, uno dei personaggi tolstoiani più affascinanti, dopo gli smarrimenti e gli errori giovanili, raggiunge, attraverso il dolore, l’equilibrio interiore e si avvicina ai valori fondamentali della vita riuscendo a trovare la serenità nell’amore e nel matrimonio. Il cambiamento interiore di Nataša si rifletterà anche sul suo aspetto esteriore: prima esile, delicata, fasciata dal candore adolescenziale, viene poi descritta come “una femmina forte, bella e feconda”. Ella sentiva che il legame col marito si basava su qualcosa di non definibile, ma forte, come il legame della sua anima col corpo. Nataša è la gioia di vivere. La gioia di vivere nonostante il dolore e le sofferenze.

E infine, Pierre. Non nascondo a questo punto la mia predilezione per un personaggio superbo che sin dalle prime pagine viene descritto in maniera tale che il lettore non può davvero non avvertirne subito una certa simpatia, un sincero affetto e un vago senso di timore per la sua imponente figura.
Incapace di adattarsi alla facile esistenza che la sua immensa fortuna gli permetterebbe, al fine di dare un senso alla propria esistenza compie una serie di azioni sfortunate: ma non è operando sul piano pratico che Pierre troverà la soluzione, bensì nella scoperta in se stesso della “fede nella vita” e nella conquista della propria umanità.
La domanda che rincorrerà Pierre per tutto il libro è: qual è lo scopo della vita? Perché? Armatosi del suo 'cannocchiale intellettuale' Pёtr Bezuchov guarda in lontananza “dove ciò che era così meschino, quotidiano, occultandosi nelle lontananze nebbiose, gli pareva grande e infinito solo perché lo si vedeva confusamente […] Ora invece aveva imparato a vedere il grande, l’eterno e l’infinito in tutto e perciò, per vederlo, per godere della sua contemplazione, in modo del tutto naturale aveva gettato via il cannocchiale con cui sino ad allora aveva guardato al di sopra delle teste degli uomini, e contemplava con gioia intorno a sé la vita eternamente mutevole, eternamente grande, incomprensibile e infinita”.
Assolutamente geniale la penna di Tolstoj quando imbratta i fogli con una simile uscita: “Improvvisamente Pierre scoppiò a ridere colla sua risata grossa e bonaria, così forte che da varie parti gli uomini si voltarono a guardare in direzione di quella strana risata, evidentemente solitaria. – Ah- ah-ah! rideva Pierre. E disse ad alta voce a se stesso: - Il soldato non mi ha lasciato passare. Mi hanno acchiappato, rinchiuso. Mi tengono prigioniero. Chi, me? Me, la mia anima immortale! Ah, ah, ah!… Ah, ah, ah!…- Rideva con le lacrime agli occhi”.

Tutt’e tre son dunque passati attraverso uno stato d'insofferenza e d'insoddisfazione per poi giungere ad un’altra ben diversa condizione: di realizzazione, di gioia, di maturità spirituale.
Il passaggio dalla guerra interiore alla pace con se stessi.

Guerra e pace, 1865-1869

Nessun commento:

Posta un commento