La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



giovedì 27 agosto 2009

Siringhe di umanità disinfettata


Basta un attimo di distrazione per ritrovarsi ricoverato in una sala asettica d’ospedale. Non notare una piccola buca perforante il manto stradale di una via cittadina ne è una ragione sufficiente. Le deficienze amministrative spezzano le ossa. Un volo acrobatico – effetto catapulta – per ritrovarsi arreso al suolo trafitto da fitte di morte. Immagini opache, voci gitane di soccorso nel quartiere proletario. Dal sudore nero della strada assassina al neon indifferente del lazzaretto il passo è davvero molto breve.
Metto piede nel reparto dopo le nove di sera. Non c’è alcun bagliore di luce artificiale. Tutti dormono, c’è chi piange per la solitudine del suo dolore, una vecchia invoca disperatamente una mamma morta nel dopoguerra. Vincere la diffidenza del compagno di stanza richiede poche ore. In ambienti sofferenti ci si affratella con semplicità più scontata. La consapevolezza dell’emergenza favorisce la costruzione di legami filantropici. Solitamente vado a letto molto tardi, in ogni giorno della settimana. Coricarsi al termine del programma TV mi sembra una consuetudine da fallito o da travet incupito. Evado dal reparto. Uscendo noto l’unica fonte di luminosità: la corona della statua della Madonna posta accanto all’ingresso della sala infermieri. Ho avuto la tentazione disperata di staccare quella presa illusoria che – in quel preciso momento – era attiva solo per me, per sancire la mia autosufficienza dalle morali consolatorie, ma ho pensato bene di lasciar perdere, dacchè avevo le mani in fiamme e il cuore accasciato sul crinale della stanchezza. L’infermiera di turno non nota il mio passo clandestino. Passeggiare di notte per le corsie deserte di un ospedale di periferia è un’esperienza oltremodo filosofica. Non c’è nessuno a cui mendicare una sigaretta. Apologia della solitudine e del disincanto. In una struttura vocata ad una funzionalità razionalistica (l’apparenza architettonica lo lascerebbe intendere) non sempre tutto funziona come dovrebbe. Le operazioni non seguono sempre implicazioni meccanicistiche. Penso al tentativo che ha impegnato un alveare di infermiere obese: impalare una flebo nel mio piede sinistro. Sangue e chirurgia talebana. I miei occhi seguivano orbite celesti irregolari come se fossi stato un mistico medievale. Si sono decise poi - bontà loro - a squarciare il gesso dell’avambraccio destro. Rientro in corsia rassegnato a non chiudere occhio: il sonno profondo degli altri mi inquieta alienandomi. In corsia raccolgo diverse storie al neon. Dal momento che le gambe mi funzionano non riesco a domarmi e vado a caccia di cronache di vita disperata. Rientro sempre più tardi la notte in reparto. Due notti mi chiudono a chiave fuori bloccando anche la porta d’emergenza. Maledizione: mi devo scusare senza imbarazzo sostenendo che esco per non soffocare di torpore ed amuchina. Una notte, invece, l’infermiera di turno mi sguinzaglia alle costole le colleghe del PS perché c’è “un ragazzo che non si trova, che non è a letto”. L’ingegner Y è ricoverato per la frattura del femore. È una bellissima pianta ornamentale, che ogni tanto garantisce lampi di genialità. Gli hanno rapito la vita una ventina d’anni fa a Torino. Era ricoverato alle Molinette per via di una banale operazione di appendicite. L’anestesia è l'anticamera della discesa all’Ade, iniezione di un veleno che gli ha consumano il corpo sfumando progetti nucleari e le condizioni efficienti per avviare una promettente carriera ad alti livelli. Mi vede arrivare.
“Salve Dino”
“Buongiorno professore”
Con un movimento repentino delle dita mi lascia intendere che vorrebbe una cicca. Giro per tutto l’ospedale per procurargliene una. Dovevo garantirgli un attimo effimero di fottuta felicità.
“…accendere Dino accendere”
“Professore, è accesa, fumi pure”
Lo lascio a baciare il filtro, venerazione del passatempo.
Un addestratore di cavalli selvatici ha il corpo che è una cucitura di morsi terrificanti.
“Non sono mai caduto da cavallo in vita mia. Ho domato bestie che non avevano mai visto un uomo prima di me. Sono qui per una caduta accidentale in bagno. Esiste la sfortuna?”.
Ci sarebbero altre storie da raccontare. Non le posso presentare. Non voglio stuprare ferite ancora aperte e sanguinanti. Mi interessa la possibilità di fondare una comunità provvisoria sulla base della condivisione di valori altruistici e filantropici. Sono tornato in corsia pochi giorni dopo le dimissioni. Non ho trovato nessuno. Quelle storie sono evaporate nelle iniezioni della sera. Altri volti, solitudini da esplorare. La comunità perfetta può durare solo pochi giorni. Fuori è vita, pericolo subdolo, morte.

2 commenti:

  1. Capisco la malinconia nascente dalle turbe dell'estasi ospedaliera... capisco. Intanto, però, i pasti che avete consumato erano quasi da ristorante! Ricordo un altro ospedale e ben altre pietanze - precotte - inquietanti, servite in altrettanti indicibili piatti di plastica sigillati da pellicola trasparente. Sapore di plastica è una critica sin troppo delicata. Anche il mio cane avrebbe rifiutato una simile ciotola. Santa Misericordia! l'ostello per i poveri m'avrebbe consolata senza fallo!

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  2. Mi spiace davvero per l'esperienza delle pietanze di plastellina...

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