MEHMEDOVIC MIRZA
In “Nome e necessità” il filosofo Saul Kripke ha sostenuto, relativamente all’identità, la seguente tesi: Possiamo sostenere l’idea che un oggetto fisico qualsiasi abbia proprietà essenziali intrinseche, proprietà che lo distinguono da altri oggetti fisici, anch’essi dotati di proprietà essenziali. Queste proprietà essenziali possono essere considerate necessarie: tali che un oggetto non possa esser definito “quell’oggetto” o “il medesimo oggetto” mancando di tali proprietà. Esse sono perciò identificanti; definiscono l’identità dell’oggetto in qualsiasi circostanza (mondo) possibile. Qualora all’oggetto sia dato un nome proprio mediante un atto pubblico di nominazione (battesimo iniziale), il nome assegnato diventa un “designatore rigido”, nel senso che designa quello e soltanto quello tra gli oggetti esistenti.
Sebbene oggigiorno si tenda a pensare che le tesi di Kripke siano senza dubbio valide, vorrei mostrare come sia possibile immaginare (ipotizzare) circostanze nelle quali il sostenerle porterebbe ad un paradosso scettico. Non si può nemmeno negare che Kripke abbia intravisto le difficoltà relative alla sua immagine dell’identità e della questione del significato, nondimeno sembra essere sfuggito a molti il carattere attualmente problematico della sua posizione logico-filosofica.
Per cominciare, vorrei far notare quello che dice Kripke in “Nome e necessità”:
Una formulazione rozza di una teoria potrebbe essere la seguente: ha luogo un “battesimo” iniziale; un oggetto può essere denominato mediante ostensione, oppure il riferimento di un nome può venir fissato mediante una descrizione. Quando il nome “viene trasmesso da un anello ad all’altro”, il ricevente del nome deve, secondo me, aver l’intenzione di usarlo con lo stesso riferimento di colui dal quale lo ha appreso. […] Si noti che lo schema che ho delineato non si può dire che elimini la nozione di riferimento; al contrario, considera come data la nozione di aver l’intenzione di usare lo stesso riferimento. (93, 94)
Ora, cosa significa “usare lo stesso riferimento”? Questa sarà la questione principale del presente lavoro. Abbiamo appena visto che Kripke ha riconosciuto che non si può pensare che l’uso corretto di un designatore rigido sia indipendente dalle intenzioni soggettive. Perché le cose stanno in questo modo cercheremo ora di chiarirlo. Parlare, nominare, riferirsi a sono attività che riguardano propriamente l’uomo. Non è, tuttavia, superfluo soffermarci sulla problematicità di tali dinamiche, proprio perché, in primis, sono i filosofi coloro che tendono a intorbidire le acque calme della ragionevole coerenza. Immaginate un insieme di situazioni di ostensione o riferimento tipiche: molte persone tutte le sere alzano lo sguardo al cielo ed esclamano: “
Ipotizziamo e descriviamo adesso uno scenario particolare, introducendo nel mondo, o fuori di esso, l’Ente perfettissimo. Supponiamo che, contro le aspettative di Einstein, Dio sia un giocatore e che – caso vuole – giochi proprio a dadi con la realtà a noi nota. Il suo gioco, per così dire, è il seguente: Crea un oggetto fisico in tutto e per tutto identico alla Luna. Per “identico” intenderemo un oggetto essenzialmente identico alla Luna. Dio poi sostituisce un corpo con l’altro, nascondendo quello fino a quel momento presente in cielo. Invita, quindi, la comunità degli scienziati e propone di stabilire se l’oggetto presente nello spazio sia o meno
Supponevamo, ricordando la nota di Kripke, che certe condizioni andassero soddisfatte perché quello che chiamiamo “riferirci a” fosse sostenuto da una teoria rigorosa. In effetti le cose stanno ancora così. Solo che ora non possiamo affidarci all’ipotesi iniziale: che le proprietà essenziali siano le uniche in grado di metterci nelle condizioni di salvare la nozione di identità e, di conseguenza, la teoria causale del riferimento. Per quanto vi sforziate nella ricerca di un criterio indipendente dall’atto di fare riferimento secondo certe intenzioni, la vostra ricerca sarà vana. La risposta che gli scienziati possono fornire è: non ci sono condizioni sufficienti e necessarie che ci permettano di dire quale oggetto è
Quando abbiamo deciso di sostenere l’immagine fornita da Kripke, abbiamo semplicemente pensato di ignorare il ruolo che abbiamo in quanto soggetti nell’indagine empirica. Tuttavia, come ben sapete, l’indagine empirica è propriamente un’attività la cui natura implica una relazione tra soggetti e oggetti. Quando poi, sebbene impotenti, abbiamo “accettato di giocare a dadi con Dio” scommettendo sulla validità di una certa tesi, abbiamo capito di non disporre di criteri sufficienti capaci di corroborarla. Ignari di eventuali possibilità alternative dobbiamo perciò concludere: l’identità oggettiva ha a che fare con il rapporto soggetto-oggetto e il grado di conoscenza del primo relativa al secondo. Se le proprietà essenziali sono, in ultima analisi, tutto ciò di cui disponiamo per parlare di identità in termini di necessità, dobbiamo allora tenere presenti le possibili implicazioni paradossali. Il nostro paradosso è, come già osservato, il seguente: non esiste un criterio, o un insieme di criteri, indipendente dai parlanti che ci mettano nelle condizioni di distinguere un oggetto da un altro, qualora perfettamente identici, di modo da poter decidere qual è l’oggetto di cui parliamo. Non abbiamo ragioni sufficienti dalla nostra per affermare che “questa è la luna, quest’altra non lo è”, “questo è l’oggetto di cui parlavamo, quest’altro no”. L’uso del passato non è casuale, poiché nella situazione presentata il presente riguarda gli atti di ostensione e, quindi, la presenza dell’oggetto di cui si ha l’intenzione di parlare. Qualora decidessimo di affidarci ai criteri descritti da Kripke, dovremmo per lo meno tener presente che il farlo implica negare il ruolo del soggetto nell’osservazione. D’altra parte se facessimo il contrario cadremmo in contraddizione. Quello che non ci piace è pensare di dover affermare una tesi psicologica: la Luna è quest’oggetto che ricordiamo e che ricordiamo di avere analizzato, di cui conosciamo certe proprietà ecc. Il paradosso wittgensteiniano è in qualche modo connesso con questo modo di vedere le cose: non c’è un fatto relativo a me stesso che mi permetta di affermare con certezza che l’oggetto osservato è la Luna. Suppongo che Kripke abbia compreso sufficientemente le implicazioni derivanti dal paradosso di Wittgenstein, cosicché quello che abbiamo voluto qui fare è consistito nel mostrare le conseguenze paradossali implicite nel tener per buona l’ipotesi secondo cui le proprietà necessarie sono 1) indipendenti da noi e 2) necessarie all’identificazione di un oggetto. Necessarie forse, sufficienti, come abbiamo osservato, certamente no. Per concludere vorrei far osservare che questa ipotetica sostituzione oggettiva “della Luna con la Luna”, implica una estensione dell’applicabilità del principio di sostituibilità salva veritate. In filosofia del linguaggio tale principio è impiegato per sostenere la tesi per cui sarebbe possibile sostituire una parte di una proposizione con un’altra “salvando” la verità della proposizione espressa (possiamo sostiutire, ad esempio, "Espero è Fosforo" con "Espero è Venere"). Quella che abbiamo salvato con un certo grado di certezza, almeno entro i limiti del metodo applicato, è proprio la verità: la verità per cui l’oggetto nello spazio è la Luna, nel senso oggettivo voluto da Kripke. Tale convinzione, tuttavia, non può dirsi salda una volta imboccata una certa via: se ci sono ragioni per ritenere che un oggetto sia sempre lo stesso, esse non riguardano certo l’oggetto in sé. Il paradosso rivela proprio questo: entrambi gli oggetti soddisfano i criteri adottati, il che è inacettabile per qualunque teoria che voglia spiegare che cosa è "riferirci a" o "nominare". Quel che ci rimane è la componente soggettiva la quale, come abbiamo visto, corrobora piuttosto una tesi psicologica: abbiamo ragione di credere con un certo grado di "ragionevolezza" che l'oggetto cui ci riferiamo è l'oggetto delle nostre credenze, cioè quell'oggetto che ha storicamente impressionato i nostri sensi. Concluderò il discorso con una domanda: è plausibile sostenere una tesi psicologica per gettare le basi di una teoria del riferimento in cui le credenze dei parlanti giochino un ruolo causale ineliminabile?
Chiaro ed estremamente ragionevole. Non è certo quell'intorbidire le acque di cui hai parlato, anzi;è gettare luce.
RispondiEliminaIl tuo discorso funziona a tal punto da farmi stupire che ci possa essere qualcuno che non condivida la tua posizione o che non ti presti la giusta attenzione.
Complimenti.
Grazie, chiunque tu sia. Spero che leggerai ancora in futuro i pezzi che pubblico.
RispondiEliminaAnche io ho trovato il pezzo molto interessante, chiaro e capace di argomentare senza confondore le idee su temi comunque molto impegnativi e per cultori competenti della disciplina.
RispondiEliminaGentile Mehmedovic, ho letto con curiosità intellettuale il suo intervento, che - se devo essere onesto fino in fondo - condivido solo in parte. Ho la sensazione che lei presenti il "suo" Kripke che non coincide affatto con quello che potrei definire il "mio" Kripke. Mi ha fatto molto piacere trovarla sul blog messo su da Giampietri, dal momento che sono certo del fatto che siete due ragazzi talentuosi (se ne trovano davvero pochi . . .). Continui così perchè da quello che ho capito è davvero in gamba. Ha talento. PS: per poco non ho preso la lente per leggere il suo saggio...la prossima volta non potrebbe puntare su un carattere più grande? Grazie di cuore. Buon lavoro.
RispondiEliminaGrazie del commento, professor X. Sono contento che abbia trovato tempo per leggere il saggio. Credo tuttavia che sarebbe più proficuo per me sapere in che modo io ho presentato un Kripke tutto mio, così da capire perchè non dovrebbe (ma non è detto) differire dal suo. E' importante per me, più che ricevere complimenti, mettermi in gioco ed essere criticato. Spero che vorrà dedicare qualche altro minuto ad una risposta che sia una forma di scambio intelettuale. Grazie!
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