La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



venerdì 23 ottobre 2009

La carriòla
I contorni dell'anima


LIBRO PRIMO


III - Bel modo d'esser soli!


Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser solo, almeno per un’ora. Ma veramente, più che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla rabbia.
- Hai sentito, Gengè, che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d’urgenza.
- Guarda, Gengè, se a tenermi così la veste mi paiono le gambe.
- S’è fermata la pèndola, Gengè.
- Gengè, e la cagnolina non la porti più fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina… dico… non pretenderai che… Non esce da jersera.
- Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa più vedere da tre giorni, e l’ultima volta le faceva male la gola.
- È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà più tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che nojoso!
Oppure la sentivo cantare:
E se mi dici di no,
caro il mio bene, doman non verrò;
doman non verrò…
doman non verrò…
Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?
Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.
Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittojo, ma anche lì senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch’era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l’uscio all’improvviso, m’avesse scoperto?
No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittojo non c’erano specchi. Io avevo bisogno d’uno specchio. D’altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.
Ah sì, v’assicuro ch’è un bel modo, codesto, d’esser soli. Vi s’apre nella memoria una cara finestretta, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all’uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale jeri… no, quando fu? l’altro jeri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillìo di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c’era lui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; e che risatine si faceva sotto i baffoni peposi per la vostra disdetta allorché vi siete messo a giocare con l’amico Carlino detto Quintadecima. E poi? Che avvenne poi, uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via umida deserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia canzonetta di Napoli, che tant’anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quel borgo montano tra i castagni, ov’eravate andato a villeggiare per star vicino a quella cara Mimì, che poi sposò il vecchio commendator Della Venera, e morì un anno dopo. Oh, cara Mimì! Eccola, eccola a un’altra finestra che vi s’apre nella memoria…
Sì, sì, cari miei, v’assicuro che è un bel modo d’esser soli, codesto!



[...]


VI - Finalmente!


- Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c’è più dubbio: Anna Rosa dev’esser malata. Andrò io a vederla.
- Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.
Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?
Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo. Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.
Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio sorriso.
- Ah, ridi?
- Cara, mi vedo obbedito così…
E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:
- Un quarto d’ora, non più. Te ne scongiuro.
M’assicurai così che fino a sera non sarebbe rincasata.
Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno, stropicciandomi le mani.
“Finalmente!”

[Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila]


* * * * *

L’appuntamento settimanale mi catapulta fuori dalle coltri soffici del paesaggio mentale che mi campeggia libero e silente nell’anima.
Il fatto è che mi trovo a dover assolutamente stringere la mano al mio caro buon amico Gengè (ovvero, il signor Vitangelo Moscarda protagonista del romanzo citato e titolare del buffo nomigliolo affibbiatogli dalla moglie), e ad assecondare quella necessaria sensazione di solitudine che oggi si libra leggera attorno alle mie poche e infruttuose capacità creative. Ogni tanto si sente il bisogno di star soli. Ma anche lo star da soli a volte comporta l’invasione poderosa di pensieri e ricordi e cianfrusaglie mentali che non recano né riposo né silenzio!
Eppure oggi è venerdì. Dovrei fare il punto della settimana. Dovrei scrivere qualcosa di sensato per quei pochi cari lettori che si stancano la vista a leggere le mie pazze elaborazioni letterarie. Già. Da dove prendere spunto? Dalle notizie di cronaca riportate dai quotidiani o dalle ultime affascinanti diatribe della politica? Dalle incursioni su face-book dell’ultima associazione sovversiva che inneggia alla eliminazione fisica di un crazy horse del governo? Dalle incresciose e ossessionanti violenze perpetrate ai danni di minorenni da parte di ragazzini sciagurati che non hanno tanta intelligenza da capire qual è il modo più interessante per passare il tempo? O ancora dalla vergognosa vicenda campana? No, prego. Fate un po’ di silenzio. Spengo la televisione e chiudo i giornali. Silenzio, voglio un po’ di sacrosanta solitudine ed evasione da questa realtà così bistrattata. Cosa? Chi si chiude gli occhi e le orecchie è fuori dal mondo? Eh già, come se chi rimane invece con l’attenzione vigile dinanzi alle immagini e alle parole d’attualità possa definirsi un eroe moderno. No. Silenzio ci vuole. Bisogna, a volte, anche depurarsi l’udito e la vista, così tanto da poter riuscire ad esplorarsi dentro e a scoprire quanto faccia rumore la propria anima.
Ssst… non c’è nessuno in casa, adagiatevi sulle piume dei vostri pensieri più reconditi e aprite la finestretta sulla memoria del tempo…

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