La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammetteGeorges Canguilhem
domenica 28 febbraio 2010
venerdì 26 febbraio 2010
odo pace nella testa, e la melodia
ritornata per la sua via,
che non ripete il suo verso. Ecco, il piemontese
non rompe più là dalla riviera di ponente, al popol d’Italia;
si scopre la mannaia,
e più chiaro all’orizzonte il futuro appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il colorito
torna l’abitudine usata.
Il fruttarolo a mirar l’umido cielo
col frutto in man ratto al lancio
si sporge in avanti; a prova
s’allontana il pupettino che rincorre
il tron mai cavalcato;
e il giocator rinnova
di tappeto in tappeto
la puntata giornaliera.
Ecco il sol che ritorna, ecco sorride!
per le città e le campagne. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di catene; quelle che stringon di forza
l’infausto propositor dell’imbarazzante
canto sanremese.
E si rallegra ogni core…
Ma sì dolce, sì gradita
com’era prima questa vita?
Quando con tanto clamore
l’uomo insensato non si faceva presente?
Or torna di nuovo? o cosa vuol intraprender?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Figlio di padri snaturati
sovrani vani, che son frutto
del passato non tanto andato, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita non sacrificò alla corona;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudar le genti e palpitar, venendo
lasciati al proprio destino, abbandonati
alle offese e al tosto nemico.
O principe scortese,
con questo ripaghi le offese,
questo il diletto
che tu porgi ai mortali. Uscir dai
gangheri non è diletto fra noi.
Ma se tu pene spargi a larga man;
il duolo spontaneo sorge: e di piacer
quel tanto che la musica ci lascia
goder, tu non profanar, chè è per te
gran guadagno, si sa. E quell’ominide strano
che t’è caro compagno di clamor beffardo,
torni nella sua culla del piccolo cantor ignoto;
ben fece l’orchestra se gli spartiti in aria lanciò;
e noi assai felici sarem se ritornar tra i prati d’oltralpe vorrai
così nessun altro dolor procurerai.
E beato sei te che d’ogni vuoto mental
l’effige sovrana ti sa risanar.
lunedì 22 febbraio 2010
Indietro Savoia! Ritratto di un idiota
martedì 16 febbraio 2010
Afta
Se ci attenessimo alla consultazione di un buon dizionario medico, dovremmo riconoscere che l’afta è una lesione della mucosa orale consistente in una vescicola che presto si apre per dar luogo ad un’ulcerazione ovale di colore grigio-giallastro. È dolorosa (per via del bruciore che causa) e può comportare fastidi sia all’alimentazione sia alla fonazione. La guarigione avviene spontaneamente in 10-15 giorni, anche se le recidive sono molto frequenti. A volte le lesioni aftose tendono ad estendersi in superficie e in profondità, raggiungendo così dimensioni notevoli; in quei casi la gaurigione avviene più lentamente con esiti cicatrizzanti. Le cause del fenomeno sono sconosciute: esiste una predisposizione ereditaria e possono rivelarsi decisivi forti stimoli emozionali. L’afta è il segno della mia esistenza, prova tangibile della reciproche interferenze vigenti fra ciò che l’anima patisce e il modo in cui il corpo agisce, ribellandosi furiosamente. Sono nato per caso in un centro urbano che ha la configurazione paesaggistica e morale di una terrificante e velenosa afta estesa alla base di un dente cariato. Quando avevo ancora pochi mesi fui oppresso da spaventosi stati febbrili attestati sulla temperatura corporea di 40°. Un infante in fiamme che urla per un dolore sconosciuto, causato da un male invisibile. Il pediatra faticò non poco a pronunciare la condanna di un’esistenza: afta. Da allora il ciclo di un percorso esistenziale è scandito da ripetizioni cicliche (maledettamente puntuali) di violente stomatiti aftose. Sembra una maledizione celeste per farmi tacere o magari dimagrire. In realtà, si tratta più banalmente di uno sfogo che ha la connotazione di un dolore bruciante, fiammeggiante, acuto. Non è un caso, infatti, che ogni qual volta la mia bocca avviluppa quell’orrore biancastro c’è sempre a monte una ragione esistenziale. Il corpo è una macchina che non è regolata dal caos. Non basta uno spirito ribelle. C’è anche l’insurrezione degli umori corporei, rivolta dell’organico per vincere le frustazioni dello spirito. L’afta è un segno. Da una parte, induce a ricordare di non chinare mai il capo, dall’altra, invece, sta a significare che la vita è sperimentazione e che non tutti gli incontri giovano all’individuo. È compito della ragione distinguere gli incontri positivi (che danno gioia ed incrementano la potenza d’agire) da quelli tossici, che avvelenano la bocca, decomponendo l’anima come uno straccio steso ad asciugare al vento impetuoso della sera. Ad ogni modo, come tutti sanno, al di là del bene e del male, tradendo le vocazioni più genuine dell’inclinazione morale, la ragione può errare. Si può, in definitiva, idealizzare l’esistente e dare per scontato ciò che non è affatto scontato. Questa è la radice oscura dell’afta. Mi pare evidente che non possa essere menzionata dal dizionario medico. So sulla base degli urti subiti dall’organismo, che le cose stanno così. Di qui il bruciore infernale, che par anticipare il precipizio del cuore nelle valli crepuscolari del rimpianto.
domenica 14 febbraio 2010
Una cotonata a quadretti blu
(Nazim Hikmet)
venerdì 12 febbraio 2010
Giovedì, 11 febbraio
Mi piacerebbe poter scendere dal treno in corsa della mia convinzione. Tirare il freno, guardare fuori dal finestrino e osservare un paesaggio nuovo, immerso nella vegetazione più viva e luminosa. Eppure il treno prosegue la sua corsa, o piuttosto, la sua rincorsa verso l’insostenibile, l’inquieto, l’indicibile. Non c’è più una vegetazione folta neanche nella mia più remota immaginazione e ciò che si rispecchia sul finestrino del treno è proprio il profilo angusto della realtà più nera.
Il Paese dei santi, dei poeti e dei navigatori si confonde con l’ombra di un altro paese, quello dei corrotti, dei corruttori, dei baciapile, dei truffatori, dei ladri e degli approfittatori.
Qualsiasi categoria ormai è infranta dalla vergogna dei propri rappresentanti. Mi sembra non ci sia più scampo. E come se questo paese sia completamente sottomesso ai fantasmi dell’inganno. Fateci caso, l’onesto cittadino è continuamente tratto in inganno, e non parlo solo ed esclusivamente dell’inganno scaturente dall’infausto operato politico: questa, ormai è una certezza talmente usurata che pare quasi comico sostenere il contrario. Mi riferisco all’inganno che si consuma senza tanto pudore anche in altri ambienti, come quello ospedaliero (di routine è il falso medico, il falso dentista e Dio non voglia!, il falso chirurgo), quello degli asili nido, ai quali una madre pensa di poter affidare la custodia del proprio piccolo per poi scoprire che forse sarebbe stato più sicuro tra le mura di casa dove non avrebbe potuto raggiungerlo la follia violenta di una falsa maestra d’asilo. La parola d’ordine è: inganno. Persino nella ricostruzione di una città terremotata si è fatto strada l’inganno. Questione d’appalti truccati, di esperti approfittatori dell’evento disastroso e di giudici indagati. Ecco, ho sempre provato un certo – passatemi il termine – schifo per una categoria in particolare, quando anch’essa ha inteso perdersi nell’inconfondibile pozzo della corruzione. I giudici corrotti sono il peggio che possa esistere, perché il garante dell’imparzialità, il garante della giustizia, chissà perché, l’ho sempre immaginato come un essere superiore che, elevandosi al di sopra delle parti, incutesse rispetto e timore. La fiducia s’è frantumata cadendo sulla lastra d’acciaio dell’ipocrisia. Anche quella nelle nuove generazioni, che nell’ispirarsi alla stupidità nascosta dietro il buco della serratura, ritiene interessante crearsi un piccolo fratello all’interno delle mura domestiche e si mette in posa (scegliendo spesso quella più volgare) davanti all’occhio indiscreto di una telecamerina casereccia nascosta tra le bambole e i giornaletti. È questa l’immagine desolante che si scorge nella sfera che scruta il futuro?
Mi piacerebbe poter scendere dal treno in corsa della mia convinzione, tirare il freno e…
Venerdì, 12 febbraio
Stamattina guardando fuori dalla finestra di casa mia ho potuto ammirare, con sommo stupore, un paesaggio innevato estremamente inconsueto, almeno per me che vivo in un paese vagamente restio alla possibilità meteorologica della silenziosa coltre bianca. Che strana sensazione di pace ovattata. Ho un paesaggio del tutto nuovo da osservare al di là del vetro. L’occasione buona per dimenticare, nascondendola sotto la neve soffice, la mia turbata convinzione che il poeta per eccellenza esprimeva con le parole nave senza nocchiere in gran tempesta non donna di province ma bordello.
Si scioglierà presto questo biancore candido che riflette tutto intorno. Ma per oggi posso immaginare che quei delicati batuffoli di cotone hanno fermato, anche per un solo giorno, la marcia pazza del mio treno in corsa.
sabato 6 febbraio 2010
venerdì 5 febbraio 2010
Insomma, vogliamo proprio occuparcene? L’ho detto, preferirei starne alla larga, perché ne va del mio equilibrio mentale; volentieri aderirei al partito dell’indifferenza e, perdonate il termine acre, allo snobismo più cruento. Ma tant’è. Mi butto nella bagarre, rischiando di perdere la mia integrità e tento di srotolare qualche pensiero sull’insolito caso Morgan v/s Sanremo.
Il cantante ha dichiarato di ricorrere alla cocaina quando deve lottare contro le sue crisi depressive. Morgan è un tipo fuori dal comune, un originale, un musicista interessante a parer mio e il modo con cui ritiene opportuno risolvere le sue angustie personali non mi riguardano né mi condizionano. Con questo non intendo affatto giustificare il rimedio con cui ha cercato d’alleviare le sue sofferenze, ma c’è da dire che chi adopera simili deterrenti è chiaramente immerso in uno stadio di profonda perdizione. Credo che il paradiso artificiale in cui ha trovato rifugio sia espressione di debolezza e di fragilità. Saper conquistare il proprio paradiso senza sostegni stupefacenti è la grandezza degli uomini forti. Chi, nelle angherie della vita, si basta per se stesso senza perdere l’equilibrio sul filo delle droghe è un valoroso.
Banale la sua esclusione dalla manifestazione canora. Hanno subito gridato allo scandalo - ipocriti! - quando è risaputo che nell’ambiente la droga non è poi così sconosciuta e demonizzata. Bisognerebbe allora iniziare anche ad escludere i calciatori dai campi di calcio, gli atleti dalle piste olimpiche, i ciclisti dai giri d’Italia, le modelle dalle sfilate di moda, i diversi professionisti dalle loro più svariate attività, i politicanti dalle aule parlamentari.
Curioso che abbiano preso tanto a cuore la faccenda proprio quegli sfaccendati della classe politica che si sono mostrati scandalizzati dall’infausta confessione del cantante milanese. Non sarà per caso che tale accanimento sia dovuto alla ben nota appartenenza del musicista a quell’ideologia politica che non s’incontra affatto con quella dei signori ministri intervenuti sulla questione? Mah, chi può dirlo. Mi pare, ad ogni modo, una ipocrisia sostenere che l’ammissione di far uso di droga possa influenzare le menti degli spettatori. Ciò potrebbe voler dire che chi legge i Paradisi artificiali di Baudelaire non è altro che un sicuro estimatore, nonché fumatore, di hashish, oppio ed eroina!
Ho letto Baudelaire. Anzi, devo dire di averlo apprezzato maggiormente proprio in quella che viene definita l’età critica: diciassette, diciotto anni. Si studiava il Decadentismo a scuola e il massimo esponente di questo periodo letterario è stato appunto il poeta francese. Mi entusiasmò tantissimo leggere le sue opere, eppure non mi sono mai persa nel labirinto delle sostanze stupefacenti. Inoltre, ci si ferma sempre al primo stadio. Voglio dire, Baudelaire oltre che essere un poeta maledetto è stato pure un acuto interprete di artisti quali Manet, Daumier e Delacroix. Le sue note critiche sull’arte contemporanea furono raccolte nel volume Curiosità estetiche. Gli sarà occorsa una certa sensibilità per poter scrivere d’arte. Non è stato, dunque, solo un povero diavolo alcolizzato!
Cosa temono questi valorosi prodi del falso perbenismo? Che i loro figli o i figli degl’italiani possano essere influenzati dalla ‘vita spericolata’ di Morgan? Non dovrebbero, invece, essere più attenti a controllare quali amici frequentano o i segreti nascosti in fondo allo zaino di scuola?
In realtà il musicista non ha fatto altro che dichiarare una verità, la sua verità. E’ stato sincero e la sincerità non ha fruttato nulla di buono. Quanti dovrebbero fare lo stesso e invece si nascondono dietro dichiarazioni bambinesche da riformatorio culturale?
Morgan è stato escluso dal concorso canoro, mentre magari veleggia all’orizzonte la prossima intervista televisiva del killer di turno o della pornostar all’ultimo grido. Le incongruenze della legge televisiva! Peccato, comunque. Escludendo Morgan magari ci hanno impedito l’ascolto di un buon brano musicale.
giovedì 4 febbraio 2010
mercoledì 3 febbraio 2010
IDENTITA’ E SIGNIFICATO
di
Mehmedovic Mirza
Se gli argomenti che implicano il ricorso a intuizioni modali sull’identità sono da considerarsi trascendentali a tutti gli effetti, allora tali argomenti nella loro struttura a priori implicano a loro volta certi modi di relazionarsi delle idee tra loro e, in un certo senso, la medesimezza di almeno una di queste – l’identità intesa intuitivamente dell’essenza – ma non implicano la realtà dell’idea in questione, ovvero alcun oggetto possibile dell’esperienza. Ora, sebbene sia evidente il possesso di conoscenze di individui così e così, dei quali possiamo discorrere supponendo infinite possibilità (controfattuali) per essi senza smentirci sul ritenere valida la conservazione dell’idea degli oggetti in questione, non può essere affatto tale considerazione a spiegare il rapporto semantico, che è già presupposto in qualche modo prima ancora che una qualsivoglia conferma empirica riveli la realtà esterna dell’idea, ovvero l’oggetto del quale predico qualcosa. Così da questo punto di vista non è affatto problematico se Kripke sia Kripke o Platone sia Platone, giacché essi sono già supposti – meglio presupposti – tali entro la mera considerazione intesa intensive. Dell’altro aspetto della questione, che (cioè) a tali intuizioni modali debba corrispondere “de re “ un oggetto identico a sé, di modo da non poter mai divenire altro da sé senza “perder la faccia”, è presto detto essere un argomento che fonda ontologicamente il rapporto semantico secondo catene storico causali, sicché a parlar di Platone noi avremo sempre l’idea di un oggetto ed in più un valore aggiunto, ovvero l’idea che a parlar di Platone (per sentito dire) si parli di un oggetto, ovvero di una “res”. Ma sebbene sia discutibile la spinosa questione se vi sia qualcosa nel mondo d’essenziale per gli oggetti singoli (una res appunto), l’idea di un rapporto ontologicamente fondato, permanente (fuori) e indipendentemente dall’intelletto che lo concepisce sempre e comunque reale è chiaramente assurda, poiché è facile mostrare che viceversa l’idea stessa dell’identità - cioè della cosa – è fondata intensionalmente e rende intelligibili già a priori le mere possibilità (controfattuali) per una res concepita come tale e solo intuitivamente (e quindi niente affatto semplice o composta). È inoltre plausibile la considerazione che qualora – e dunque a posteriori – un “che” d’essenziale relativamente ad un individuo fosse trovato, tale relazione non sarebbe affatto un argomento atto a corroborare la relazione semantica supposta in senso storico causale che, come ho detto, è già presupposta e rende possibile quest’arbitrarietà del pensiero: ovvero di insistere sulla tesi che un nome proprio designi un “che” di materiale, che nel nome si mostra e che rende incontrovertibile l’intuizione logica dell’identità a posteriori necessaria: A=A→□(A=A). Da qui, poi, consegue un’asimmetria per cui mentre l’idea (A=A) che qualcosa persista come tale secondo la considerazione di certi attributi nello spazio-tempo sia un’idea empiricamente fondabile e solo in senso temporale, ovvero per quel che il fenomeno stesso legittima a considerare, rimane di necessità un che di arbitrario nel ritenere empiricamente fondata o fondabile l’ulteriore implicazione sulla necessità dell’identità, ovvero della “res intesa indipendentemente da ogni possibile conoscenza” (asserzione totalmente contraddittoria). Nemmeno Kripke insiste sull’idea che un mutamento essenziale sia possibile e, invero, esso è del tutto concepibile. Egli insiste piuttosto sull’idea che se qualcosa che aveva peso atomico 79 ora non l’ha più, tale cosa sia da considerarsi altro, ovvero non-oro. Il che mi induce nella riflessione (interrogativo) se questo pensiero mostri solo la concepibilità della possibilità che qualcosa come l’oro possa divenire altro, o mostri piuttosto che questa stessa intuizione modale implichi un’idea trascendentale dell’identità, un’idea che se considerata mette a tacere chiaramente l’altra, ovvero quella di un rapporto rigido tra il nome proprio ed una sostanza considerata immutabile (dunque necessariamente). Di fatto questa riflessione a priori mi sembra evidenzi una certa permanenza del rapporto semantico rispetto al concetto di un mutamento della res, di modo che anche se l’essenza muta, non muta affatto la costanza del rapporto semantico considerato intensive. Detta in altro modo: considerata l’idea di un oggetto e il suo designatore, relazione che già a priori s’impone a causa di relazioni già instauratesi tra “concetti”, al mutare dell’oggetto la nostra consapevolezza non muta affatto e viene ancora concepita secondo il medesimo designatore quell’idea della mente (relativa all’oggetto) per il quale abbiamo supposto un mutamento essenziale. E con maggior chiarezza dico che, al cambiare del concetto della cosa della quale posso avere una conoscenza specifica (determinata) o intuitiva, non muta il rapporto semantico, vale a dire la consapevolezza cha al pensiero di un controfattuale per il quale (o nel quale) l’essenza in questione muta tale mutamento sia da considerarsi sempre in connessione (contiguità) col concetto della res che precede il mutamento. Così se penserò al mutamento essenziale dell’oro, l’idea del mutamento e la conseguente idea di un’essenza differente sarà sempre considerata sotto la medesima relazione intensiva: “questo è oro”, “questo era oro”. Sebbene da un punto di vista epistemologico la verità del secondo enunciato sia contestabile in assenza di un criterio empirico (che pure v’è, come quando si considera che un pezzo di grafite era un diamante) – per cui non avremo ragione a voler sostenere che qualcosa che non è oro sia oro, e non è certamente questo lo scopo – dal punto di vista semantico tale rapporto sarà conservato e, quindi, indipendente da qualunque costrutto epistemologico che intenda la disgiunzione delle idee in modo esclusivo. La conclusione del ragionamento dovrebbe condurre per mano a propendere per l’idea che se v’è sufficiente consapevolezza da poter condurre una discussione intorno ad oggetti mai esperiti come tali, ciò può essere solo a causa di certi rapporti intesi intensive e mai per ragioni estrinseche, vale a dire per scienza infusa, o intuizione di possibili res ontologicamente indipendenti. Tali intuizioni, seppure presenti, andranno considerate alla stregua di un’aspettativa epistemologicamente plausibile, ovvero di modo da associarle ad esperienze analoghe, a cui tra l’altro tali intuizioni devono la loro forma (se non anche il contenuto).