La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



mercoledì 3 febbraio 2010



IDENTITA’ E SIGNIFICATO

di

Mehmedovic Mirza


Se gli argomenti che implicano il ricorso a intuizioni modali sull’identità sono da considerarsi trascendentali a tutti gli effetti, allora tali argomenti nella loro struttura a priori implicano a loro volta certi modi di relazionarsi delle idee tra loro e, in un certo senso, la medesimezza di almeno una di queste – l’identità intesa intuitivamente dell’essenza – ma non implicano la realtà dell’idea in questione, ovvero alcun oggetto possibile dell’esperienza. Ora, sebbene sia evidente il possesso di conoscenze di individui così e così, dei quali possiamo discorrere supponendo infinite possibilità (controfattuali) per essi senza smentirci sul ritenere valida la conservazione dell’idea degli oggetti in questione, non può essere affatto tale considerazione a spiegare il rapporto semantico, che è già presupposto in qualche modo prima ancora che una qualsivoglia conferma empirica riveli la realtà esterna dell’idea, ovvero l’oggetto del quale predico qualcosa. Così da questo punto di vista non è affatto problematico se Kripke sia Kripke o Platone sia Platone, giacché essi sono già supposti – meglio presupposti – tali entro la mera considerazione intesa intensive. Dell’altro aspetto della questione, che (cioè) a tali intuizioni modali debba corrispondere “de re “ un oggetto identico a sé, di modo da non poter mai divenire altro da sé senza “perder la faccia”, è presto detto essere un argomento che fonda ontologicamente il rapporto semantico secondo catene storico causali, sicché a parlar di Platone noi avremo sempre l’idea di un oggetto ed in più un valore aggiunto, ovvero l’idea che a parlar di Platone (per sentito dire) si parli di un oggetto, ovvero di una “res”. Ma sebbene sia discutibile la spinosa questione se vi sia qualcosa nel mondo d’essenziale per gli oggetti singoli (una res appunto), l’idea di un rapporto ontologicamente fondato, permanente (fuori) e indipendentemente dall’intelletto che lo concepisce sempre e comunque reale è chiaramente assurda, poiché è facile mostrare che viceversa l’idea stessa dell’identità - cioè della cosa – è fondata intensionalmente e rende intelligibili già a priori le mere possibilità (controfattuali) per una res concepita come tale e solo intuitivamente (e quindi niente affatto semplice o composta). È inoltre plausibile la considerazione che qualora – e dunque a posteriori – un “che” d’essenziale relativamente ad un individuo fosse trovato, tale relazione non sarebbe affatto un argomento atto a corroborare la relazione semantica supposta in senso storico causale che, come ho detto, è già presupposta e rende possibile quest’arbitrarietà del pensiero: ovvero di insistere sulla tesi che un nome proprio designi un “che” di materiale, che nel nome si mostra e che rende incontrovertibile l’intuizione logica dell’identità a posteriori necessaria: A=A→□(A=A). Da qui, poi, consegue un’asimmetria per cui mentre l’idea (A=A) che qualcosa persista come tale secondo la considerazione di certi attributi nello spazio-tempo sia un’idea empiricamente fondabile e solo in senso temporale, ovvero per quel che il fenomeno stesso legittima a considerare, rimane di necessità un che di arbitrario nel ritenere empiricamente fondata o fondabile l’ulteriore implicazione sulla necessità dell’identità, ovvero della “res intesa indipendentemente da ogni possibile conoscenza” (asserzione totalmente contraddittoria). Nemmeno Kripke insiste sull’idea che un mutamento essenziale sia possibile e, invero, esso è del tutto concepibile. Egli insiste piuttosto sull’idea che se qualcosa che aveva peso atomico 79 ora non l’ha più, tale cosa sia da considerarsi altro, ovvero non-oro. Il che mi induce nella riflessione (interrogativo) se questo pensiero mostri solo la concepibilità della possibilità che qualcosa come l’oro possa divenire altro, o mostri piuttosto che questa stessa intuizione modale implichi un’idea trascendentale dell’identità, un’idea che se considerata mette a tacere chiaramente l’altra, ovvero quella di un rapporto rigido tra il nome proprio ed una sostanza considerata immutabile (dunque necessariamente). Di fatto questa riflessione a priori mi sembra evidenzi una certa permanenza del rapporto semantico rispetto al concetto di un mutamento della res, di modo che anche se l’essenza muta, non muta affatto la costanza del rapporto semantico considerato intensive. Detta in altro modo: considerata l’idea di un oggetto e il suo designatore, relazione che già a priori s’impone a causa di relazioni già instauratesi tra “concetti”, al mutare dell’oggetto la nostra consapevolezza non muta affatto e viene ancora concepita secondo il medesimo designatore quell’idea della mente (relativa all’oggetto) per il quale abbiamo supposto un mutamento essenziale. E con maggior chiarezza dico che, al cambiare del concetto della cosa della quale posso avere una conoscenza specifica (determinata) o intuitiva, non muta il rapporto semantico, vale a dire la consapevolezza cha al pensiero di un controfattuale per il quale (o nel quale) l’essenza in questione muta tale mutamento sia da considerarsi sempre in connessione (contiguità) col concetto della res che precede il mutamento. Così se penserò al mutamento essenziale dell’oro, l’idea del mutamento e la conseguente idea di un’essenza differente sarà sempre considerata sotto la medesima relazione intensiva: “questo è oro”, “questo era oro”. Sebbene da un punto di vista epistemologico la verità del secondo enunciato sia contestabile in assenza di un criterio empirico (che pure v’è, come quando si considera che un pezzo di grafite era un diamante) – per cui non avremo ragione a voler sostenere che qualcosa che non è oro sia oro, e non è certamente questo lo scopo – dal punto di vista semantico tale rapporto sarà conservato e, quindi, indipendente da qualunque costrutto epistemologico che intenda la disgiunzione delle idee in modo esclusivo. La conclusione del ragionamento dovrebbe condurre per mano a propendere per l’idea che se v’è sufficiente consapevolezza da poter condurre una discussione intorno ad oggetti mai esperiti come tali, ciò può essere solo a causa di certi rapporti intesi intensive e mai per ragioni estrinseche, vale a dire per scienza infusa, o intuizione di possibili res ontologicamente indipendenti. Tali intuizioni, seppure presenti, andranno considerate alla stregua di un’aspettativa epistemologicamente plausibile, ovvero di modo da associarle ad esperienze analoghe, a cui tra l’altro tali intuizioni devono la loro forma (se non anche il contenuto).

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