La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem
mercoledì 18 dicembre 2013
Faccio sempre più fatica a comprendere le
più varie espressioni del costume del nostro tempo. È come se le mie lenti si
fossero offuscate al cospetto di un criptogramma insolubile. Spogliate di
valore dai circuiti alienanti dello scambio telematico (che si risolve nel vano
splendore di bacheche e vetrine anteposte al niente), le relazioni si sono quasi del tutto slegate dalla
dimensione dell’autentica socievolezza, riducendosi ad esercizi strumentali
(giammai disinteressati) di simulazione o seduzione. Un aneddoto è più chiaro
di un’elaborata argomentazione sociologica.
Durante una
passeggiata serale mi imbatto, nei pressi dei giardini pubblici, in tre ragazze
dall’età indecifrabile che si dirigono proprio verso di me.
«Ciao…, tu sei
Davide, verooo?»
«A dire il vero
sono Francesco… Mi spiace. Colgo un velo di delusione sul tuo volto…»
«Oh carinooo…»
Rispondo con un
sorriso perplesso, non scorgendo nel loro atteggiamento disinvolto ammiccamenti
prostitutivi o ilarità spavalda e beffarda.
«Vabbe’, ciao
amo’…».
Torno sui miei passi e mi immergo nell’umidità
del parco, ascoltando:
Struggente e lirica, la scena
sublima – esaltandola – una condizione che di per sé sarebbe l’anticamera del
ripiegamento depressivo. Girare a vuoto di sera in auto, senza intrusi, per trovare una chiave di volta, perché non è mai
troppo tardi per decidersi a voltare pagina, facendo in modo che quel che è stato non influenzi il
presente, sterilizzando o abortendo le sue potenzialità più effervescenti. Così
anche una canzone solitaria può favorire la presa di coscienza della necessità
di rifondare il proprio mondo. Isabella Ferrari fa il resto; impersona un caso
singolarissimo di separazione della bellezza pornografica dalla volgarità o
dalla sguaiataggine. La scena è irripetibile per la sua ricercatezza: in pochi
hanno visto il film di De Maria, in pochi conoscono Bellamore di Sinigallia. È dunque vero che la poesia rifugge le
masse, declinandosi in un passatempo elitario.
sabato 12 ottobre 2013
Non è mai troppo tardi per andare all'inferno.
Una delle new hit più
interessanti del momento. Una fotografia di notevole pregio della società
postmoderna, che è certamente liquida. Che Carboni abbia letto Zygmunt Bauman?
martedì 8 ottobre 2013
Ragazzini
dal pugno chiuso
Avevo
forse quattordici anni, frequentavo il Liceo Classico della piccola città.
Ricordo bene che una mattina, a margine di un intervallo, prima di rientrare in
classe proclamai con la sicumera propria degli adolescenti, sbalordendo l’insegnante
di greco: “Io sono marxista!”. Non era ancora spuntata la barba. Avevo tanta
rabbia nelle tasche, ed ero ispirato dall’insofferenza per il provincialismo
piccolo borghese di un mondo troppo piccolo e chiuso. Conquistai l’insegnante
che, infatti, nel colloquio con i miei genitori al termine del quadrimestre
ebbe modo di dire: “Sapete, il ragazzo mi ricorda com’ero quando avevo la sua
età”. Da allora a casa i miei iniziarono giustamente a preoccuparsi.
Stamattina, entrando in Facoltà, due studenti dall’espressione vaporosa
resa più accattivante dalla Kefiah
attorno al collo, interrompono il mio passo affrettato. “Senti, seguiresti un
corso di marxismo? Un paio di lezioni settimanali…”. Resto perplesso, in attesa
di un’illuminazione. Poi sorridendo, senza voltarmi per cogliere la loro reazione,
sentenzio: “Scusate, ma non sono più un sedicenne…”
Sin dall’antichità classica la diversità
culturale è stata negata, o meglio respinta sul piano della dis-umanità. Ogni
sistema di valori dà luogo a un microcosmo culturale, in virtù del quale i
sistemi alternativi sono fraintesi o trascurati. La maggior parte dei
cosiddetti popoli “primitivi” si designa infatti come “gli uomini”, relegando
gli “altri” nella natura. Essendo balbettante, il barbaro difetta di pensiero
e, pertanto, appare come l’Altro insopportabile, che deve dunque essere
respinto: ad esempio, per Aristotele non v’è differenza fra il barbaro e lo
schiavo. Più in generale, lo straniero (in latino hostis più che peregrinus)
ha in sé l’espressione dell’ostilità.
Recessioni economiche, crisi politiche e
mutamenti sociali provocano insicurezza nel sentimento dell’identità. La
condivisione della lingua, della confessione religiosa e di un passato comune
non soddisfa più l’esigenza identitaria, per la quale occorre riscoprire le
radici culturali. Eppure si trascura che, come ha avuto modo di osservare Enzo
Bianchi, si danno radici soltanto nel regno vegetale. In un’epoca segnata dalla
crisi dell’identità collettiva, occorre un nemico verso il quale rivolgere le
tensioni interne. Come ha sostenuto Umberto Eco, il nemico offre un ostacolo rispetto
al quale misurare la solidità del sistema valoriale. Diventa nemica una figura
estranea, non necessariamente proveniente da un altrove indefinito (si pensi
all’extracomunitario immigrato o al gay), che di per sé rappresenta tutt’altro
che una minaccia. Ma Spinoza ha insegnato che quando gli uomini non sono grado
di prendere una decisione e fluttuano miseramente fra la speranza e la paura
(che sono due passioni tristi, che inibiscono la potenza di agire), allora sono
disposti a credere a qualsiasi cosa. Anche al Telegiornale meno attendibile. In
accordo al principio classico della kalokagathia,
secondo il quale quel che è buono è necessariamente anche bello, il nemico non
può non risultare ripugnante (essendo privo di integritas) e maleodorante. L’invenzione del nemico si avvale dei
pregiudizi negativi. Ogni pregiudizio marca una distanza rispetto all’oggetto
della svalutazione e rafforza al contempo il soggetto prevenuto. È radicato e
profondo, perché deriva da cliché di maniera che potrebbero avere anche un
fondo di verità e che di certo àncorano a una cultura di base, favorendo
sentimenti di appartenenza. Prontamente confermati dagli organi di
informazione, i pregiudizi lasciano emergere dalla loro latenza subculturale
timori ancestrali e notturni. Il cittadino inquieto si reca alle urne ed è
pronto a sostenere il Reggente Forte.
Ho
visto anche degli zingari felici
Il nemico classico è l’ebreo. La
letteratura concernente l’odio antisemita e la Shoah è esaustiva e variegata, estendendosi dalla narrativa alla
cinematografia. V’è invece un’altra figura estranea,
storicamente discrimanata, che è avvolta dal silenzio: quella dello zingaro.
Nell’età moderna l’assassino di uno zingaro poteva farla franca a Venezia e in
altre città: nessun tribunale lo avrebbe infatti condannato. Nel XVII secolo i
nomadi venivano scacciati di villaggio in villaggio in Germania in quanto
ritenuti spie al servizio dei Turchi; nel secolo successivo Kant avrebbe
scritto che «l’uomo del non luogo è criminale in potenza». Del resto si sa per
tradizione che gli zingari sono sicuramente imbonitori furfanti e ladri di
bambini. Dato che il furto non rientra fra quanto essi ritengono mallipé (ovvero impuro), qualcuno ha voluto credere che si debba riconoscere una
predisposizione gitana alle ruberie. Si tratta di un argomento superficiale e intessuto
di stereotipi. Un rom non trufferebbe mai un rom. Derubando un gagé, riscatta invece una lunga storia
di negazioni. Agli zingari sono negate la privacy (di qui le recentissime
schedature di polizia in Svezia), la proprietà privata (di qui gli assalti e i
roghi dei campi nomadi), e finanche la memoria (di qui la rimozione del Porrajmos, la grande devastazione
nazista che ha comportato lo sterminio di circa cinquecentomila zingari nei
campi di concentramento). Essendo orale, conchiusa in sé, la cultura romanì non ha condiviso con il mondo la
sua oscura tragedia.
Un
paradosso educativo
La paura del barbaro rende barbari, come
prova l’esempio delle ronde di quartiere organizzate alcuni anni or sono da
militanti della Lega Nord e di altri movimenti xenofobi e razzisti o
neofascisti. Ma, come ha suggerito Claude Lévi-Strauss, è proprio del barbaro
respingere quanti esso stesso considera barbari. Pertanto i nuovi barbari sono
facilmente riconoscibili, e non possono più nascondersi dietro il velo
rassicurante delle loro presunte buone intenzioni. In conclusione, bisogna
essere riconoscenti nei confronti dello straniero
postmoderno, chiunque esso sia, poiché è soltanto con lui che si può
tentare di decifrare lo sviluppo precario e confuso dei modelli sociali di
un’epoca dominata dalle passioni tristi.
sabato 14 settembre 2013
mercoledì 11 settembre 2013
Ideato da Francesco Giampietri, Mirza Mehmedović, Martina Purificato e
Vincenzo Brusello, patrocinato dal Comune di Formia ed organizzato
dall’Associazione culturale Idest, agoràfestival
idee in movimento è un progetto culturale sperimentale volto alla
promozione di un inedito piano di intersezione di più registri tematici (l’arte,
il pensiero e la musica) intorno a un tòpos
univoco: Identità/differenze,
argomento problematico e di stringente attualità che si presta a molteplici
declinazioni, di natura estetica, antropologica, filosofica. L’idea di fondo
che ha ispirato i promotori dell’iniziativa si lega all’esigenza di tornare a
fare cultura nell’agorà, il centro
democratico della città che viene sempre più svilito a vantaggio soprattutto delle
piazze virtuali; ben rappresentata
dal Teatro “Remigio Paone”, l’agorà,
di per sé accessibile a tutti, viene pienamente ristabilita come il luogo
proprio della manifestazione delle arti e del libero scambio dei saperi, il
polo di convergenza di artisti, musicisti e filosofi. Al cospetto del
disarmante individualismo, del superficiale edonismo e della complessiva
sfiducia nel mondo, che sono fra i tratti distintivi della società postmoderna,
appare opportuno scommettere sulla valorizzazione dei talenti individuali,
soprattutto dei giovani, in un contesto pubblico.
Il
programma dell’agoràfestival idee in movimento
prevede una mostra di opere, riconducibili a vari stili, di giovani
artisti, un seminario filosofico che stabilisce un confronto fra diversi
studiosi ed animatori culturali premesso a una discussione aperta al pubblico,
nonché le esibizioni di due band musicali e di una promettente cantante lirica.
Nell’agorà dunque le idee tornano ad
essere in movimento, per la costruzione del bene comune, il benessere della polis.
martedì 6 agosto 2013
A Francesco, per il suo dottorato...
"...e io alla novità non sono
mai stato e non sarò mai
insensibile, perché la novità
è intrinsecamente avventurosa".
(De Marchi - Il talento)
Non tramonti mai la tua passione
per la conoscenza e lo studio
ma possa, anzi, inebriarsi sempre
mediante il gusto della novità,
riuscendo a carpire ispirazioni massime
anche attraverso quei dettagli quotidiani
che molti lasciano scivolare via
e pochi sanno custodire rendendoli
preziose gemme di letteratura erudita.
Un doveroso omaggio ad una band della provincia di Frosinone.
Ci sarebbe molto da dire, tuttavia basta ascoltare i loro pezzi per entrare in uno spazio di confine
meravigliosamente persi dentro quella vasta, quanto sottilissima, terra dove vivono le divinità della musica schiacciate tra prosa e poesia.
Dal vivo non tradiscono, trascinanti e comunicativi. Ferite profonde causate da taglienti colpi di rock.
Johnny Freak nascono nel Novembre del 2005 dall’unione di diversi musicisti della provincia di Frosinone, i quali, dopo diverse esperienze artistiche e live nei migliori locali italiani, trovano la giusta alchimia e dimensione nell’unire il feeling del grunge dei primi anni novanta al rock made in Italy degli ultimi tempi, traendo il loro nome dal più famoso e, al momento secondo gli appassionati, migliore albo di Dylan Dog mai pubblicato: “Johnny Freak”.
Nell’Agosto de 2007 i Johnny Freak autoproducono il loro primo lavoro dal suggestivo titolo Sognigrafie”, dal quale è stato tratto anche un videoclip del singolo “Martin”avvalendosi della collaborazione con i ragazzi della YOU.DE.ZA Filmmaker.
Il successo di “Sognigrafie” viene sancito, oltre che dalle critiche positive, anche dalla ristampa quasi immediata dell’album, vendendo in poco tempo oltre mille copie.
Nei loro concerti i Johnny Freak narrano di disincanto, di sogni trasfigurati dalla realtà e di intima fragilità, ricercando la giusta fisicità del suono: il tutto è sorretto da un tappeto sonoro che si fa diluito e compatto a un tempo, non evitando chitarre abrasive e tensioni elettriche anche nelle ballad. Ciò ha consentito ai Johnny Freak di conquistare una posizione di tutto rispetto: numerose sono le esibizioni in alcuni dei migliori locali, radio e festival italiani.
Nel contempo entrano in contatto con Mauro Marcheselli, caporedattore di Dylan Dog, che manifesta un apprezzamento tale a “Sognigrafie” da dedicare alla band la rubrica Horror Club all’interno dell’albo n° 256 “Il Feroce Takurr”.
Nel Natale 2008 l’ Elevator Records pubblica i singoli “Martin” e “Ansia&Caffè” sui cataloghi digitali di Mondadori, TV Sorrisi & Canzoni, I-Tunes, Messaggerie Musicali.
Nell’Estate del 2011 parte un mini tour di venti date nel quale girano il territorio nazionale, provando e testando nuovi brani. Si ricorda l’esibizione al “Lazio Wave”, festival rock di notevole rilevanza (De Gregori, Verdena), esibendosi come opening act di Morgan, e quella agli “Archi Village”, dove sono la support band di Raf, riuscendo così a suonare davanti a 24.000 persone.
Tra il Settembre e il Dicembre del 2011 i Johnny Freak per il loro secondo album entrano nello storico studio di registrazione del RED HOUSE RECORDINGS di Senigallia (AN), dove si avvalgono della collaborazione artistica di David Lenci e Andreas Venetis (CharlotteHatherley, Linea77, Uzeda, One Dimensional Manecc.), registrando un disco contenente undici tracce di rock emozionale e di forte impatto sonoro. Nel Gennaio del 2012 il nuovo disco viene masterizzato da Giovanni Versari a “La Maestà studio” di Tredozio (FC).
Nello stesso anno è quasi immediato l’interesse dell’etichetta tedesca Antstreet Records, che nota la band e non tarda a metterla sotto contratto. A Novembre esce finalmente, dopo cinque anni di attesa, il nuovo album dal titolo “Tra il Silenzio e il Sole”, dove vengono a galla le grandi potenzialità compositive della band, capace di coniugare la tradizione rock italiana degli ultimi 15 anni con il suono più autentico del grande rock internazionale.
La
notizia è mortificante, profondamente deprimente. Mi tingo il volto di
vergogna.
domenica 21 luglio 2013
MEMORIA DOMENICALE DEGLI SMITHS
The
Smiths, «il gruppo più snob della scena musicale anglosassone», si distinguevano
anche per un certo radicalismo (reso emblematico dal titolo del quarto album),
tutt’altro che scontato se associato allo svagato disimpegno dei Duran Duran e
di altre celebri bands coeve. Erano
intransigenti da un punto di vista letterario, e così sedussero Tondelli e
altri profondi conoscitori dei costumi e delle mode del postmoderno. La scrittura di Morrissey era ricercata, talora
ispirata fino all’iperbole sentimentale (si pensi al seguente passo:
And if a double-decker bus
Crashes in to us
To die by your side
Is such a heavenly way to die
And if a ten ton truck
Kills the both of us
To die by your side
Well the pleasure, the privilege is mine
tratto
da There is a light that never goes out).
«Un modo celestiale per farla finita…» esprime bene l’edonismo
sprezzante, disincantato, inconsapevolmente decadente degli anni ’80, così
lontani, ma rievocati nelle parvenze e nelle maniere attuali (come il taglio
dei capelli e la montatura pesante degli occhiali). E la voce di Morrisey,
«sensuale, strascicata e maledetta: l’unica un po’ perversa che questi primi
anni ottanta – obsoleti, invece, di falsetti e mezzeseghe – ci abbiano dato». E
infine le contaminazioni eleganti fra generi distanti (di qui il cosiddetto indie pop), espressione mirabile del
gusto postmoderno, di per sé irripetibile, e pertanto dannatamente (in)attuale,
al di là dello scadimento dell’edonismo in pornografia, vicenda piuttosto
recente.
PS: Le citazioni sono tratte da P. V.
TONDELLI, Un weekend postmoderno. Cronache
dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano 2009 (1990), p. 300.
venerdì 19 luglio 2013
FENOMENOLOGIA DEI GIORNI DELL’ABBANDONO
Rientrando a casa di notte sono stato
sedotto, dieci giorni fa o giù di lì, dall’ultimo singolo di Gazzè. Avevo appena
lasciato le note ricercate di RadioTre, perfette per un notturno di mezza
estate, per distendermi con le trasmissioni più pop di una radio commerciale. Incuriosito, ho concentrato l’attenzione
sul testo, ispiratissimo fino al virtuosismo poetico, facendo astrazione dall’eccellente
arrangiamento, espressione di uno stile ormai inconfondibile e degno di
apprezzamenti critici.
I tuoi
maledettissimi impegni è la sintomatologia del logoramento sentimentale. La lacerazione di
un legame affettivo è sempre premessa da segni troppo evidenti per essere
fraintesi, e quindi inequivocabili: il compagno o la compagna indossa una
maschera, si allontana, moltiplica le occasioni per ritardare o annullare gli
incontri; per non parlare dei «discorsi strani» dietro i quali si nasconde,
frasi svagate e distratte, che marcano la profondità della distanza e gettano
il cuore in un pozzo. Si tratta della liturgia, ipocrita ma elegante, dell’abbandono:
se non ho il coraggio di dirti che per me qualcosa è cambiato, non calpestando
il tuo sguardo avido di riscontri, allora provo a fartelo capire… L’amante non
ha che una soluzione a disposizione, vale a dire la mortificazione suprema, l’annichilimento
del risentimento dovuto alle provocazioni, il declassamento ad accessorio
occasionale («e non c’è che una soluzione se non quella/di rimpicciolirmi a
dismisura/fino al punto di traslocare nella/borsa tua con gran disinvoltura»),
l’adesione cieca agli atteggiamenti dell’amato di un tempo («cambiando se tu
cambi posizione»), al di là del gusto personale, dannando le inclinazioni per
le quali era stato apprezzato. L’amante soccombe nella dialettica amorosa, si
immola per una causa che ritiene superiore, inconsapevole di essere il guscio
fragile ed effimero, l’«involucro di ogni funambolico pensiero che ti viene». Si
pensi a una caramella: l’involucro è l’ultimo ostacolo frapposto al godimento, e
pertanto va soppresso, stropicciato, gettato via. La cupio dissolvi si addice a personalità straordinarie, predisposte
per vocazione all’amore puro e
incapaci di temere di non essere ricambiate. L’amore disarmato che in una
dimensione teologica costò a Fénelon accuse di eresie, diviene sul piano
sentimentale la scena chiaroscura di un olocausto erotico, che è autentico
proprio perché inutile (non conduce a nulla) e massimamente ingiusto (l’amato
indifferente è indegno della mia mortificazione). La rinuncia all’autodafé di
sé lascia rispondere all’indifferenza con l’indifferenza, nella sospensione del
linguaggio e dei gesti, che favorisce automatismi silenziosi. Colti i segni ineluttabili
dell’abbandono imminente, si gioca d’anticipo, cancellando un nome fra i tanti dalla
rubrica, voltando le spalle ai rimorsi (morsus
conscientiae), anonimo nella folla anodina della bella estate.
giovedì 11 luglio 2013
ADDIO
COMPAGNI (S)PREGIUDICATI!Nella
piccola città mi trovo in una condizione di ineluttabile isolamentopolitico, la
conseguenza inevitabile delle elezioni amministrative di maggio. Non subisco la
relegazione alla marginalità con rassegnazione, come un colpevole che, dopo
aver preso coscienza dei suoi sbagli, accetta col capo chinato il peso
dell’espiazione. Io stesso mi pongo fuori dal campo, all’opposizione della
maggioranza e dell’opposizione. I conoscenti di sinistra, vagamente
radical-chic, disinvolti e liberissimi da legami partitici, hanno conquistato
per un pugno di voti la Casa
comunale. Ma a quale prezzo? Alleandosi con fascisti, arrivisti senza né arte
né parte, affaristi di professione, vale a dire con gli avanzi della peggiore destra locale. L’alchimista che vende l’anima
al diavolo pur di conseguire un obiettivo irrinunciabile vive nella fantastica
illusione di aver dato un senso ai suoi giorni, e si bea della sua vanagloria,
non sapendo che è destinato a dissolversi nell’athanor. Una svolta monca non dà espressione a una rinascita rivoluzionaria ed è soltanto
il preambolo di un fallimento necessario. L’ottusità egocentrica e paranoica di
un Savonarola di provincia ha precluso l’affermazione di valide soluzioni
alternative, all’insegna del buon senso e della decenza amministrativa. I suoi
compagni, accecati dalla lealtà settaria, lo hanno sostenuto e incoraggiato fino
al sacrificio supremo, convinti sul serio di poter cambiare il mondo. Per ora
hanno perso la faccia. Avranno tutto il tempo di perdere tutto il resto.
* * *
L’INNOCENZA
DELL’OBLIO Mia nonna paterna crede
che ci troviamo nella tarda primavera del 1999. Non c’è verso di convincerla
dell’evidenza delle sue disfunzioni mnemoniche. “2013? Vuoi prendermi in giro?”.
Vorrei tanto che avesse ragione, che gli ingranaggi della sua memoria
opponessero qualche blanda resistenza alla deriva alienante, e che le mie poche
certezze fossero un prodotto generoso della mia fertile immaginazione.
* *
LA
CITTÀ CIALTRONESCASeconda edizione nella piccola città di “Anima
paesana” sul corso centrale, la via dei grandi bar. Le pseudo-associazioni
giovanili, prive di una sede sociale (e pertanto non presentabili come meritori
centri aggregativi), incoraggiate dai mercanti della movida locale, si sono
auto-riproposte come società organizzatrici
dell’evento, il revival campagnolo delle
tavolate prosaiche e dei balli salentini. Secondo i promotori, l’affare privato
di qualche barista spudorato può essere scambiato per un tentativo di promozione
culturale del territorio. Assurdo no? Beh, non tanto, se si tenesse conto del
solito coro di cicale eccitate dal niente,
o meglio da un segno deludente della mediocrità imperante.
martedì 7 maggio 2013
Il mondo salvato
dai liceali
Mi fa piacere segnalarvi due mie
scritti che sono usciti nelle ultime settimane, l’uno Il fondo umbratile dell’individualità. Leibniz e il principio di
individuazione (sull’ultimo numero del «Bollettino della Società Filosofica
Italiana», n. 206), l’altro Conscientia
mutabilis. I significati della coscienza nei lessici filosofici del Seicento,
incluso in un bel volume curato da Roberto Palaia (Coscienza nella filosofia della prima modernità, Olschki, Firenze).
Bellissima mattina al Liceo Scientifico “Ettore
Majorana” di Isernia, dove mi sono liberamente confrontato, nel contesto di un
seminario filosofico, con un gruppo interessantissimo di ragazzi intelligenti,
spigliati, attenti: esperienza gratificante e incoraggiante, che di certo mi ha
arricchito più di quanto io possa aver arricchito loro
domenica 24 marzo 2013
La presentazione capitolina di Leibniz allo specchio mi ha messo a dura prova dal punto di vista emotivo, dato che ha compendiato in due ore il mio percorso formativo: gli anni cassinati, le collaborazioni con l’Istituto romano, le ricerche del dottorato. Le relazioni, intense e coinvolgenti, hanno tenuto viva l’attenzione dell’uditorio per circa due ore. Poi il resto l’ha fatto di certo il Salone Borromini, ambiente al contempo sontuoso ed austero, oltremodo affascinante. E le suggestioni sono alimentate da una considerazione storica: nella primavera 1689, nel corso del suo soggiorno romano, Leibniz probabilmente ebbe modo di vedere l’Oratorio dei Filippini (la sede attuale della Biblioteca Vallicelliana), poiché era solito frequentare il Palazzo della Cancelleria vaticana, non molto di stante da lì, che ospitava l’Accademia fisico-matematica di Giovanni Giustino Ciampini. Pur essendo dotato di una fervida fantasia, non avrei mai potuto prevedere un riscontro così incoraggiante.
venerdì 8 marzo 2013
Non cogliermi rami fioriti, oggi.
Non s’adombri il profilo d’una donna
col giallo intenso d’un fiore.
Si perde nel vento e
solleva la polvere
dell’ineguaglianza sociale.
Celebrare con un solo colore
l’essenza della donna
è dimenticarsi delle
sfumature e cancellare
il riflesso di luce che
erra nel Pensiero.
Celebrare un solo fiore è
il canto incompreso d’Antigone,
non rigenera vita, ma calpesta l’onore.
Non cogliermi quel ramo fiorito,
adesso.
Inventami fiori, dèttami poesie,
domani.
Alle donne che affrontano impavide le difficoltà della
vita quotidiana, senza mai tirarsi indietro, senza mai abbassare la guardia.
Alle donne
che, con un vigore e un’energia sconosciute persino al sesso che si definisce
‘forte’, partoriscono figli che saranno il mondo di domani.
Alle donne
che denunciano soprusi e violenze, ergendosi come rocce sulla stupidità di
quelle bestie impotenti che alcuni osano chiamare ‘uomini’. Questoèper voi.
Alle donne
che sistemano all’orecchio la mimosa come una conquista da esibire in vecchie
bettole dimenticate, e celebrano l’otto di marzo sull’altare della volgarità e
della miseria concettuale: questo nonè per voi.
Perché è
brindando col calice insulso dell’idiozia che acclamate al germe della
disparità.