La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



venerdì 18 settembre 2009

La carriòla
Al di là dello specchio
'Silhouette consuete di parvenze'

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso. Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto”.

È questo l’incipit della novella pirandelliana intitolata La carriola. Oggi, dunque, tenterò di spiegare il motivo che m’ha spinta a scegliere questo titolo per la rubrica settimanale.

La novella si apre con la descrizione di un avvocato, padre di famiglia, che si sta recando nella propria abitazione dopo una lunga giornata di lavoro. Il protagonista sta viaggiando in treno, e mentre attende che il viaggio si concluda, cerca di trovare una soluzione ad una causa inoltrata da un suo cliente. Mentre sfoglia le carte da studiare ad un certo punto alza gli occhi e inizia a guardar fuori dal finestrino. Guarda, ma non vede nulla, assorto com’è nella difficoltà di quella causa. "Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità dalla campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano". Piano piano, però, quasi si fosse allentata l’attenzione rivolta alla difficoltà che l’occupava, il protagonista comincia ad immaginare di vivere una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, là, in quella infinita lontananza scorta attraverso il finestrino del treno. S’addormenta e continua a sognare "quella vita che non era nata". Quando il treno sta per giungere a destinazione egli si ritrova "d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come votati di senso". Poco più tardi, mentre l’avvocato si accinge ad aprire la porta della sua abitazione, resta come impietrito ad osservare la targa ovale, d’ottone, sulla quale è riportato il suo nome, i suoi titoli, i suoi attributi scientifici e professionali e ad un tratto comincia a ‘vedersi da fuori’, ad osservare la sua vita ‘da fuori’ per non riconoscersi e non riconoscerla sua. Dunque, si chiede, chi è quell’uomo fermo dinanzi alla porta di casa con la busta di cuojo sotto il braccio, chi lo ha voluto così, chi lo fa muovere e parlare e chi gli ha imposto tutti quei doveri uno più gravoso e odioso dell’altro? “Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro - ero io? io? propriamente? ma quando mai?”. Anche il pensiero della moglie e dei figli gli si rivela gravoso, quasi non gli appartenessero, perché lui non è l’uomo che essi credono di conoscere. Ma proprio il pensiero dei ragazzi, del fatto che avessero bisogno delle sue cure, dei suoi consigli e del suo lavoro riesce a farlo rientrare in se stesso, nell’uomo insoffribile che sta davanti alla porta.
Nel momento in cui apre la porta egli non solo entra nella sua casa ma rientra anche nella vita di prima. Si rifugia così nel suo studio e comincia a rendersi conto di non poter liberarsi dalla forma che gli altri gli hanno dato; può soltanto ribellarsi, vendicarsi, per un attimo solo, ogni giorno con quell’atto che compie nel massimo segreto e cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, perché nessuno lo veda. Anzi! Guai se lo vedessero!
E a questo punto non posso assolutamente privare il lettore del fascino letterario che emerge dalla penna dello scrittore agrigentino. Non proverò a riassumere nulla, ma riporterò il finale della novella così com’è stata scritta dal maestro:

Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja. Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire: ‘Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno’. Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardato così. Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro. Questo è tutto. Non faccio altro. corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile. Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere - ripeto - che non è nulla, che stia tranquilla, che non mi guardi così. Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio. Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita”.

L’umorismo pirandelliano non è solo poetica; è anche l’espressione coerente del pensiero e della cultura del relativismo filosofico. Lucido interprete della crisi dell’uomo contemporaneo angosciato dalla solitudine e dall’alienazione, Pirandello, nelle sue opere, mette a nudo il vuoto e la falsità di un mondo fondato più su ciò che appare che non su ciò che è e avvia una spasmodica ricerca della verità fino ad arrivare a concludere che non esiste una sola verità, ma ne esistono tante quante sono le situazioni e gli individui. Questa concezione relativistica della vita e dell’uomo si esprime, nelle sue opere, attraverso una serie di situazioni paradossali e assurde a cui l’autore guarda con amara ironia, ma anche con un sentimento di umana pietà.
Il titolo della rubrica è dunque una forma d’omaggio all’arte letteraria di Pirandello, ma è anche un modo d’ intendere la mia scelta di collaborare allo sciorinamento telematico delle pieghe libertarie!
Come il protagonista della novella, che col suo gesto quotidiano si libera della realtà soffocante che lo attanaglia senza requie, afferro la mia penna e lascio che scorra veloce sul foglio bianco, così, per avvalermi di una certa capacità di movimento, di una certa sensazione di libertà. Penna e foglio dovrebbero essere gli unici testimoni di questa folle corsa alla libertà, ma il delirio peggiore sta proprio nel fatto di scrivere, così, liberamente davanti a tutti. Scrivere è un po’ guardarsi dal di fuori, è un po’ evadere dalla realtà, per sentirsi liberi, per guardarsi vivere e non morire di noia.

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