La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



martedì 17 marzo 2009

Pane e libertà

Devo dire che la fiction non mi ha mai attratta in modo particolare. Tranne qualche caso sporadico, come la narrazione ben fatta sulla vita di Perlasca o di Caravaggio, ribadisco che non mi mai completamente rapita. Come dite?, ho adoperato la parola ‘narrazione’ piuttosto che quella più di tendenza: fiction? Eh lo so, avete ragione, ma che farci se io trovo molto più elegante e prestigiosa la nostra lingua italiana? Prego, non abbiate timore ché sulla questione non intendo soffermarmi di più, e ce ne sarebbero di cose da scrivere! Ritorno al punto principale, tentando di non uscire fuori tema, dunque.
Ammetto di essere stata colpita positivamente dalle puntate andate in onda domenica e lunedì sul primo canale (quello della rete nazionale, per intenderci!). Mi riferisco alla - ecco ci siamo, mi concentro e scrivo!: - fiction ‘Pane e libertà’, biografia perfetta di un uomo chiamato Giuseppe Di Vittorio. Voglio rendervi partecipi della biografia rintracciata tra le pagine svolazzanti del web scritta da Felice Chilanti:

«Giuseppe Di Vittorio nasce a Cerignola il 13 agosto del 1892 [in realtà la data è l'11 agosto, dichiarata all'anagrafe di Cerignola il 13 agosto, ndr] . Il padre Michele è un lavoratore dei campi e tutta la famiglia è costituita da braccianti agricoli. La madre si chiama Rosa Errico.
Nel 1902 il padre muore in seguito a malattia contratta nel suo lavoro di curatolo, e lui è costretto ad abbandonare la scuola elementare per essere avviato al lavoro nei campi.Nel 1904, nel maggio, partecipa ad una manifestazione di lavoratori agricoli, durante la quale interviene la polizia. Quattro lavoratori vengono colpiti a morte. Fra questi un suo giovane amico quattordicenne, Antonio Morra.Nel 1910, alla fine di novembre, diventa segretario del circolo giovanile socialista di Cerignola, che prende il nome di "XIV maggio 1904", per ricordare l'eccidio consumato in quell'anno. Il circolo prende ben presto un indirizzo a carettere sindacalista rivoluzionario, staccandosi dal PSI e aderendo alla Federazione di Parma della gioventù socialista. Partecipò all'esperienza del sindacalismo rivoluzionario e aderì all'USI (l'Unione Sindacale Italiana, nata nel 1912 dalla scissione con la CGdL riformista), ricoprendone dal 1913 la carica di membro del Comitato Centrale. Nel 1913 diventa segretario della Camera del Lavoro di Minervino Murge, mentre si sviluppa in parecchi centri della Capitanata e della provincia di Bari l'influenza del sindacalismo rivoluzionario. Nel 1914, ricercato dalla polizia in seguito ai fatti della "settimana rossa", è costretto a riparare a Lugano. Quindi prende contatto con molti fuoriusciti italiani e ne approfitta per studiare in modo sistematico. E' quello che Di Vittorio ricorderà come il suo "liceo". Nel 1915 è richiamato in guerra e dopo aver partecipato a parecchie azioni rimane ferito. Per il suo passato di "sovversivo", dopo un lungo peregrinare, viene inviato a Porto Bardia, in Libia. Rientrerà in Italia tra gli ultimi, nell'agosto del 1919. Il 31 dicembre sposa Carolina Morra. Avranno due figli: Baldina, che nasce a Cerignola il 6 ottobre del 1920, e Vindice che nasce a Bari il 21 ottobre 1922.
Nel 1921 viene eletto deputato mentre è detenuto nelle carceri di Lucera. La elezione a deputato avviene in circostanze del tutto eccezionali. Esse ci offrono un quadro della situazione non solo personale, ma ci indicano lo scontro sociale in atto tra la fine del 1920 e la metà del 1921. In questo periodo dilaga il fascismo, con la violenza più spietata, in molti centri pugliesi considerati le roccaforti del movimento socialista e, soprattutto, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Queste fanno capo, in parte, alla CGdL, di orientamento socialista, e in misura consistente (Cerignola, Minervino, Corato, Bari) all' Unione sindacale italiana, di cui Di Vittorio è il maggiore e più qualificato esponente. La resistenza al fascismo era molto forte in Puglia e Di Vittorio ne era uno degli animatori più convinti e deciso. Ed è proprio in seguito ad uno sciopero regionale antifascista, in un momento in cui il movimento operaio è più in ritirata, che Di Vittorio viene arrestato. Nel 1921 lo scontro in quella campagna elettorale è totale: i fascisti provocano una strage a Cerignola (nove lavoratori uccisi). Nonostante il clima di violenza e di intimidazione Di Vittorio viene eletto. Per tutto il 1921 e fino ai primi mesi del 1923, l'attenzione preminente di Di Vittorio è rivolta alla situazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni in Puglia, sottoposta ad un'opera di logoramento fino alla distruzione. Egli stesso è bandito dalla sua città, dai fascisti di Cerignola. Ma è a Bari che egli mette a profitto tutta la sua esperienza, nella Camera del Lavoro. L'occasione e' offerta dallo sciopero nazionale, detto "legalitario", dell'estate 1922, che ha luogo in tutta Italia per imporre la fine delle violenze fasciste ed il ritorno al rispetto della legge. Indetto dall'Alleanza nazionale del lavoro lo sciopero si risolse in una amara sconfitta: furono poche le realtà nel quale si costituì un ampio schieramento antifascista. Una di queste è stata Bari e la sua Camera del Lavoro che riuscì a costituire un ampio schieramento di forze (socialisti, sindacalisti, anarchici, comunisti, ufficiali fiumani, arditi del popolo) e tenne in scacco i fascisti fino all'ottobre del 1921, quando intervenne l'esercito a conquistare e sciogliere la Camera del Lavoro. Sul finire del 1922 per Di Vittorio non è più possibile vivere in Puglia. Si trasferisce a Roma.Nel 1924 avviene l'incontro con Antonio Gramsci e con Palmiro Togliatti, che lo porta ad aderire al Partito Comunista. Insieme con Ruggiero Grieco, dirigente comunista pugliese, avvia un'interessante lavoro per gettare le basi di un'organizzazione autonoma dei contadini italiani, in primo luogo nelle regioni meridionali. Il clima è quello della semilegalità che ben presto diventerà, ai primi di novembre del 1926, illegalità piena e totale.Fra il 1928 ed il 1930 è in Urss, rappresentante del Pcd'I presso l'Internazionale Contadina. Nel 1930 va a Parigi per far parte del gruppo dirigente del PCI e per assumere l'incarico di responsabile della CGIL clandestina. Nella primavera del 1935 muore la moglie di Di Vittorio. Nel 1936 è fra i primi ad accorrere in Spagna ad Albacete partecipa all'organizzazione delle Brigate Internazionali con Luigi Longo e Andrè Marty ed altri dirigenti. Nel 1939 dirige "La voce degli italiani", quotidiano antifascista. Il 10 febbraio 1941 è arrestato a Parigi dai tedeschi. Assieme a Bruno Buozzi e Guido Miglioli viene consegnato alle autorità italiane, che lo condannano a 5 anni di confino che sconta sull'isola di Ventotene.
Nel 1943 viene liberato e partecipa alla lotta di Liberazione. Firmatario del Patto di unità sindacale di Roma del 1944 con Achille Grandi per i democristiani e Emilio Canevari per i socialisti, diviene segretario generale della Cgil unitaria e poi, dopo la scissione, della Cgil fino alla sua morte.Nel 1946 viene eletto deputato dell'Assemblea Costituente. Tra le sue innumerevoli iniziative, va almeno ricordato il Piano per il lavoro, del 1949. Nel 1953 viene eletto presidente della FSM (Federazione Sindacale Mondiale). La convinta adesione agli ideali comunisti fu sempre contraddistinta da una totale autonomia che ebbe il suo momento più noto nella condanna decisa della feroce repressione sovietica in Ungheria nel 1956. Un altro punto fermo del suo pensiero fu il rifiuto della violenza nelle lotte di massa e nell'azione del movimento sindacale, convinto come era che nel nuovo regime democratico ai lavoratori erano dati gli strumenti pacifici per sviluppare le loro rivendicazioni e per allargare la loro influenza sugli altri ceti della popolazione italiana. Non ebbe esitazioni ad ammettere pubblicamente gli sbagli della organizzazione che dirigeva, e memorabile in questo senso rimane il discorso al comitato direttivo della Cgil dell'aprile del 1955, dopo la sconfitta alle elezioni dei rappresentanti dei lavoratori alla Fiat.Muore il 3 novembre del 1957 a Lecco, dopo un incontro con i delegati sindacali.
L'affermazione del valore sociale e culturale del lavoro è stato il principio che ha sempre ispirato e accompagnato l'azione sindacale di Di Vittorio; l'autonomia, la democrazia e l'unità del sindacato sono stati i suoi principali obiettivi. La CGIL doveva restare rigorosamente plurale e apartitica, senza per questo venire meno ad una sua naturale vocazione politica, centrata sulla difesa e lo sviluppo della democrazia e della Costituzione repubblicana, che aveva nella solidarietà e nei diritti i suoi principali valori. Pur vivendo una stagione assai difficile, segnata da tensioni ideologiche stridenti legate al sottile equilibrio bipolare della guerra fredda, Di Vittorio lavorò sempre per l'unità di tutti i lavoratori, dalla quale faceva derivare anche l'unità sindacale; a suo avviso, solo in questo modo sarebbe stato possibile difendere l'interesse generale della classe lavoratrice, lottando efficacemente per la sua emancipazione.»

[dal sito http://www.cgilfoggia.it/]

Il film (stavolta ritorno alla classica terminologia britannica!) andato in onda in televisione ha davvero carpito in modo perfetto i lineamenti di quest’uomo venuto al mondo per realizzare i sogni e le speranze di quella gente lasciata ai margini della società dai padroni affamati solo di potere e di denaro. E quanta passione, che ardore nella sua lotta contro l’ingiustizia e la disuguaglianza tra potenti e servi, tra potenti e contadini, tra uomini e uomini. Ho apprezzato tantissimo una scena del film, in particolare: secondo la consuetudine di quel mondo fatto di lavoro e sudore, i figli dei contadini non avrebbero mai potuto essere degni di frequentare la scuola. Anzi, lo stesso Di Vittorio si sente rimbrottare dalla madre che solo i ‘figli dei signori possono andare a scuola, i cafoni no’. E allora sapete lui cosa fa? Si procura un abito elegante, un abito da signore e col cappello in testa e le scarpe lucide ai piedi, passeggia per le strade del suo paese mostrando come sia possibile trasformare in un signore un cafone ben vestito!
Ed ho apprezzato ancora di più il titolo della narrazione televisiva: Pane e libertà. Due tesori che non dovrebbero mancare mai sul desco dell’umanità.


Stralcio dal discorso al II congresso della cultura popolare, Bologna 11 gennaio 1953.

Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…
Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…"


E cos’altro aggiungere a questo punto? Qualsiasi altro discorso dopo quello riportato sopra sarebbe davvero inutile.

2 commenti:

  1. La scelta del quadro di Minet mi sembra molto appropriata. Brava

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  2. ERRATA CORRIGE. Pardon. Ero stanco ieri sera. Il riferimento era a Millet, l'artista dei campi.

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