Quindici anni senza Charles Bukowsky*
Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere. La bottiglia vicino, i portaceneri pieni, i pensieri in volo. Charles Bukowski. Il primo bicchiere, come sempre, era il migliore. Serviva a far scivolare le idee, a donare l'ispirazione, a disfare matrimoni e convenzioni, a lasciare dietro le spalle tutti quelli che non l'avrebbero seguito. Quindici anni fa, Hank se ne andò per una leucemia. A San Pedro, in California, circondato da gatti, fiori e poesie. Nasi e occhi umidi e la processione degli amici, quelli incontrati sul bancone di bar dalle grandi speranze e quelli raccattati per strada, quando l'alba si avvicinava e bastava una poltrona per appoggiare il corpo per qualche ora. I primi e gli ultimi. Nell'indistinto universo di Bukowski, gli ordini di arrivo si invertivano. Perchè a tagliare il traguardo, dopo gli applausi, rimaneva solo la disperazione. In stanze disadorne, dove il delirio si fonda con una realtà che si vorrebbe non vedere ma che Bukowski assaporò fino in fondo. Il futuro era un minuto dopo, e le expertations non erano poi così sconfinate. Uomini. Condannati a stare sulla terra, circondati, anche fisicamente, da dinamiche terrene, piccole miserie, desolanti orizzonti. Della sua esistenza, di tutte le storie di ordinaria follia, delle fantasie sessuali sublimate e di quelle che albergavano il tempo giusto per immaginarne altre, Bukowski fu insuperabile araldo. Le dipanò, una dopo l'altra. Con una prolificità senza pari. Tra le pagine, raramente lievi, senza sconti, spesso surreali, Bukowski aveva portato ciò che aveva annusato. I colpi duri e le delusioni, le botte del padre (disoccupato durante la grande depressione) e gli amori svaniti dietro l'ennesima curva sghemba. Ogni sera faceva cadere le stelle per poi raccoglierle il mattino dopo. E ricominciava. Postino nei primi anni '50 a Los Angeles, quel figlio per caso della Germania, capì in un tempo relativamente breve che il lavoro fisso non avrebbe mai fatto per lui. E salutò. Sposò la pittrice Barbara Frye e la lasciò. Abissi, non solo letterari, a separarli. Poi con Frances Smith, nel 1965, mise al mondo Marie Louise e incontrò l'ultima donna. Il cielo era areonautico, vuoto e a Hank, Linda Lee sembrò un giardino. Un incanto cui avvicinarsi con circospezione nuova. Se "L'uomo era la fogna dell'universo", non tutti gli esseri umani erano uguali. La persona che gli permise di approcciare con prospettive differenti il suo mestiere fu invece John Martin, editore e amante della sterminata opera bukowskiana. Un assegno mensile fisso, l'agio di poter eliminare dalla propria vista il problema economico e un'approvazione piena, anche del mercato europeo, che dalla metà degli anni '70 lo lanciò al livello dei Miller e dei Mailer. Linda ne placò la cupio dissolvi e gli permise una vecchiaia serena. Nonostante la Tbc, i dolori e il conto, presentato in anticipo (o in ritardo, questione di punti di vista) a 73 anni. A sud di nessun Nord, ora Hank riposa. I compagni di sbronze, li guarda dall'alto, col bicchiere sempre alzato.
Avrà pubblicato anche la storia della sua morte? Da mesi non riuscivo a parlargli; rispondeva al telefono una voce femminile, forse era una governante, o un'infermiera, mai quella di Linda. Quando fecero a Venice un manifesto per la guerra del Golfo, Silvia Bizio, nostra comune amica, mi disse che Bukowski non andò, ma per la prima volta scrisse tre poesie contro la guerra. Le recapitò a Linda e Linda le lesse forte per lui. "Non stava bene", disse; e a Natale mandò a Silvia un biglietto di auguri, spiegando che Hank non era ancora guarito.
Voleva essere chiamato Hank; Henry non lo voleva perché glielo avevano dato i genitori, Charles era troppo solenne e poi quello preferito dagli editori. Questi erano Barbara e John Martin della Black Sparrow di Los Angeles, una piccolissima casa editrice di Santa Barbara nata nel 1966 quando Martin, allora capo di una ditta di forniture per uffici, vendette la sua collezione di "prime edizioni" e pubblicò il primo libro di un bevitore famoso, di quelli che bevono nei bar dei marinai, si azzuffano con tutti e finiscono a bere da soli distesi sul pavimento: era poesia esplicita e la prosa ricordava lo stile di Henry Miller. Martin gli offrì 100 dollari al mese perché lasciasse il suo lavoro di fattorino alle poste e lavorasse soltanto a un romanzo. Bukowski lo ascoltò e abbandonò l'impiego: alla fine di un gennaio telefonò dicendo che il romanzo era finito.
Con quella telefonata iniziò la sua carrira di scrittore e anche la fortuna dell'editore. John Martin così sintetizzò il loro incontro: "Il signor Rolls incontra il signor Royce". Intanto Bukowski si conquistò un pubblico facendo uscire qua e là frammenti e racconti sulle riviste che allora si chiamavano underground. La collaborazione più regolare fu quella con Open city, dopo quella al Los e al Los Angeles Free Press; su quel giornale tenne una rubrica chiamata Note di un vecchio sporcaccione che segnò il suo ingresso (1969) nella galleria di letterati della casa editrice di Lawrence Ferlinghetti, la City Lights Books. Il libro fu accolto con disprezzo dalla critica dell'establishment ma Bukowski aveva ormai un suo pubblico che lo andava ad ascoltare ai readings di poesia e non cercava soltanto in lui il "poeta" ma il "poeta maledetto".
*Ma. Pa, L'Unità, 9 marzo 2009
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