La vita è esperienza, cioè improvvisazione, utilizzazione delle occasioni; la vita è tentativo in tutti i sensi. Donde il fatto, a un tempo imponente e assai spesso misconosciuto, delle mostruosità che la vita ammette
Georges Canguilhem



mercoledì 26 dicembre 2012



Manifesti, manifestini, manifestacci, pretonzoli, pretucoli, pretacci…

Povero idiota in tonicella che durante le festività natalizie cerca un po’ di notorietà, affiggendo sulle mura di quella che dovrebbe essere la casa di tutti, un volgare manifesto dal retrogusto fascista che ci fa ripiombare indietro nel tempo più di ottant’anni. Volgare, razzista, xenofobo e immorale. Mi chiedo come si possa consentire ad uno che già in passato aveva attaccato l’islam e gli immigrati con analoghi manifestini apocalittici, di indossare senza remore i paramenti sacri. Curioso che un addetto ai lavori non abbia capito nulla del messaggio evangelico: messaggio di pace, di solidarietà, di comprensione e rispetto reciproco. Nella sua lettera ai Galati, Paolo di Tarso scriveva: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo”. Nessuno dunque deve sentirsi superiore o inferiore perché è bianco o nero, maschio o femmina, di una classe sociale, anziché di un’altra.

Insomma quel prete (?) è un vero disastro. Peccato che non leggerà mai questo post e quindi non potrà mai conoscere il suggerimento che mi piacerebbe procurargli al fine di tenere un po’ sotto controllo la sua coscienza. Chissà se conosce quel famoso brano dell’evangelista Giovanni, in cui si narra di una donna sorpresa in adulterio dove gli scribi e i farisei, per mettere alla prova Cristo e avere di che accusarlo, gli propongono la questione suggerendo che donne come quella andrebbero lapidate… Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei… e l’evangelista con una frase ad affetto sottolinea: “Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi”.

Non mi meraviglierò se un giorno quello stesso prete potrà essere accusato di pedofilia o sodomia.

Errata corrige: quando dico, nell'ultima frase, che il prete potrebbe essere accusato di pedofilia o sodomia (a buon ragione per tranquillizzare il mio lettore Marco! che potrà leggere la mia risposta al suo commento), non intendo affatto porre sullo stesso piano il crimine di pedofilia con l'omosessualità, forma d'amore rispettabilissima.
365 VOLTE 25 DICEMBRE

Tra le "pieghe" le idee libere nascono ogni secondo.
Nelle "pieghe" si avverte il tepore rassicurante del pensiero, mai debole.
"Miracoli, disegni e ispirazioni".
In PIEGHE LIBERTARIE è sempre Natale.
Quando il nostro percorso si fa incerto e la vita annichilisce ogni slancio mi auguro che ognuno riesca a rifugiarsi, anche solo per un attimo, in quel labirinto inaccessibile nel quale ritrovare l'essenza delle cose...

                                                                                                                                      Vincenzo





martedì 25 dicembre 2012

I più cari auguri agli amici libertari


    Benché il notiziario della sera sia un bollettino di guerra (lamiere contorte su asfalto scarlatto), ovvero una gazzetta confusa su giorni decapitati, tento di tenere a bada gli effetti dell’atrabile perturbata.  Non v’è nulla di più inattuale di una geremiade natalizia. Azzanno un panettone rigonfio di melanconia e lascio che la piccola Martina mi conduca nel suo piccolo mondo di dinosauri e topolini danzanti. La foschia della sera mi ridesta. Afferro un libro per lasciar perdere ancora le mie tracce. Auguri!

martedì 18 dicembre 2012

Horror

Ingroia, il gruppo Micromega, i veterocomunisti vinti dalla storia e slegati dal mondo, i verdi sbiaditi con i capipopolo ciarlieri di Napoli e Palermo e un Di Pietro da riciclare? Il giustizialismo fariseo e l’estremismo settario ammazzano il futuro.  D'arancione c'è soltanto il cappio.

lunedì 17 dicembre 2012

Don't lie to me




Eccomi tornato tra le “pieghe” .
Ho ri-trovato l’entusiasmo perso.  Ringrazio Francesco che ha sempre creduto nelle mie possibilità e attraverso un  “percorso ad ostacoli” sono riuscito a vincere le mie paure.
Qualcuno era riuscito a mortificare ogni mio slancio, ogni mia reazionaria voglia di difendere le idee.
Eccomi di nuovo qui … sono felice!


giovedì 6 dicembre 2012

Leibniz allo specchio. Dissimulazioni erudite
in uscita il 12 dicembre

 

Qualche giorno fa è apparso nel catalogo di Mimesis il mio secondo volume: si tratta di un’inedita introduzione antologica al pensiero di G. W. Leibniz, elaborata sulla base della piena valorizzazione di quelle che definisco (per semplificare) le autorecensioni del filosofo di Hannover. Il volume si compone di un ampio saggio introduttivo, delle traduzioni italiane corredate di un ricco apparato di note, dell’edizione critica dei documenti latini oltreché di un’esaustiva appendice biobibliografica. Il libro vale tre anni della mia giovinezza (ormai consunta). Non menziono in questa sede quanti sono meritevoli di un ringraziamento, poiché non vorrei apparire come un adulatore. Ho tributato loro la mia più viva riconoscenza a margine dell’introduzione: può bastare. Ancora non ho tra le mani il libro. Sto aspettando impazientemente che l’Editore provveda a spedirmi a casa le copie che mi spettano.

giovedì 29 novembre 2012


Quasi m'è parso di trovarmi in un Paese normale e libero in cui si riservi un certo riguardo a coloro che sono definiti cittadini non solo in senso letterario. Quasi m'è sembrato di assaporare il gusto naturale di un paesaggio pudico, scevro dalle favole intavolate intorno a contratti mefistofelici e vacui. Quasi non m'è sembrato vero di leggere, nell'angolino in alto a destra la sigla del canale nazionale che da tanto, troppo tempo, non è stato più in grado di offrire credibilità al di fuori di quello che mia nonna chiamava sceneggiato e che oggi, così esterofili, pronunciamo fiction, invenzione. Finalmente un confronto politico vero (e quanto sarebbe stato ancor più esaltante se i due fossero appartenuti a schieramenti politici opposti!) fra due candidati rispettosi, quasi paragonabili ai modelli americani, integri ed educati nei modi (e vi par poco?). Convincente anche la giornalista Monica Maggioni nel ruolo di 'arbitro'. C'è stato qualcosa di nuovo stasera in televisione.  Peccato che durante la pubblicità s'è annunciato il solito clima salottiero di Vespa che sa talmente tanto di rancido, così inzaccherato com'è di aria stantìa e repressa.

lunedì 26 novembre 2012

  Non ci si può improvvisare romanzieri dall’oggi al domani. Un mio insegnante di storia e filosofia ai tempi del liceo ha dato recentemente alle stampe, presso un buon editore napoletano, un romanzo che richiama nel titolo una memorabile canzone di Stefano Rosso (quella dei due amici, una chitarra e uno spinello…). Gli voglio bene, lo considero un interessante frequentatore di bar notturni, un libertino impertinente. Pur essendo in pensione già da diversi anni, è più giovane di me. Un decennio fa nel consiglio di classe si batteva in maniera ardimentosa per me, neutralizzando le moine della cogliona radical-chic di matematica e fisica, che non mi poteva soffrire perché (con sacrosanta ragione) la snobbavo (eppure frequentavamo la stessa sezione del PDS). In una occasione, l’insegnante di inglese mi disse: “quello pende dalle tue labbra”. Memorabili il 10 in filosofia, il 9 in storia. In classe lo chiamavamo miniocchio, per la vistosa sproporzione fra la montatura rossa degli occhiali e gli occhi infinitesimali. Caro Peppino.
   Non sono riuscito a terminare la lettura, mi sono interrotto ai tre quarti del volume. Non posso procedere oltre. Ho ritrovato situazioni e personaggi reali. L’immaginazione non ha trasfigurato la realtà, come mi sarei atteso. Il romanzo si presenta come un almanacco di pettegolezzi da bar su poveri derelitti sociali: una battona in età avanzata, uno squinternato che ulula alla luna, unanordafricana che un fallito ha acquistato da un trafficante di schiavi, vari cornuti. Che delusione! La letteratura è ben altra cosa. Non basta offrire in pasto al lettore gli orrori di una piccola comunità per erigersi come scrittore maledetto, dandy crepuscolare. Non basta sostenere che il sonno è un attentato alla vita, che è buona cosa penetrare nelle lande dell’Europa dell’Est, che occorre fare la rivoluzione per lasciare in qualche modo un segno. Mi auguro che Peppino non legga questo post. Gli voglio bene e mi spiace per un’occasione sprecata.

domenica 18 novembre 2012

Primarie, le ragioni della concretezza

Sono immune dalle fascinazioni degli incantatori di serpenti, soprattutto di quanti trasudano cultura televisiva. Così gli effetti speciali di Renzi, abilmente addestrato dagli sceneggiatori Mediaset, non mi abbagliano. La politica non può ridursi a La ruota della fortuna o, per meglio dire, a Ok, il prezzo è giusto!



Domenica darò credito alle ragioni della concretezza, ciò che ci occorre al massimo grado. Il segretario del PD è al riguardo una garanzia: lo prova la sua esperienza amministrativa. Le narrazioni immaginifiche di Vendola, effusione del suo carisma poetico, sono prodotti per sognatori. Ma adesso non possiamo concederci il privilegio di fantasticare, trasfigurando il tessuto sociale in un romanzo d’appendice. Puppato e Tabacci cercano legittimamente una loro visibilità. Ma mi ostino a ritenere che la scelta elettorale debba mirare al bene comune, piuttosto che al successo di campagne marginali.

giovedì 15 novembre 2012

Il mondo salvato dai ragazzini

Senza se e senza ma, i ragazzi sono sacrosanti, inviolabili. Chi fa violenza a un ragazzino commette un crimine contro l’umanità, ovvero si rende disumano, volta le spalle alla civiltà per sposare le cause oscure della barbarie.
Il profilo insanguinato del tredicenne di Terragona è sconvolgente, uno scacco matto ai princìpi della morale pubblica. È stato percosso da diverse manganellate dalla polizia. Partecipava con la madre a una marcia pacifica di protesta contro gli innominabili predatori che traggono vantaggi sconfinati dalle ingiustizie sociali. Inerme e mortificato. Lacrime e sangue. Banditi in divisa. Indignazione profondissima. L'icona di un bambino che scende in piazza per protestare contro l’austerity è quasi struggente. Dà un po’ di sollievo a quanti si ostinano a rifuggire la palude. È più forte dei lupi che agiscono negli Stati o per conto degli Stati, non solo di notte. Abbiamo bisogno di icone. Possiamo ancora credere che il mondo possa essere salvato soltanto dai ragazzini. L'icona di un bambino ferito è un urlo contro il cielo che esige giustizia.

domenica 4 novembre 2012


La scena è tanto coinvolgente e ricca di significati da rendere struggente persino un improbabile Bowie in italiano. Nella versione di Mogol l’immagine lirica di un uomo che galleggia nello spazio stellato è stata tradita dal “dolore” del “ragazzo solo” che ha perduto senza dubbio un “grande amore”. Una soluzione piuttosto elementare che richiama il Battisti più adolescenziale. “Un homme a disparu dans le ciel” (1971) di Gérard Palaprat è invece un capolavoro dimenticato. Tuttavia il ragazzo solo di Bertolucci che si rifugia in una cantina dà un senso postumo e rende forse commovente la vecchia canzone italiana di Bowie.

venerdì 2 novembre 2012

La caduta di Titano

C’era una volta Titano, un medico di campagna che riuscì ad asservire ai comodi propri e della propria famiglia un’intera regione, per quanto piccola sia. Il gioco ha funzionato per più di 10 anni. Il suo regime era molto pervasivo: non mancavano funzionari fiduciari, vassalli e valvassori, in ogni paesotto, finanche in quelli più nascosti fra le montagne. Il governo dei maiali di Orwell ne è una rappresentazione plastica, tutt’altro che caricaturale. Titano ha mangiato l’intera regione, senza che l’irrefrenabile ingordigia causasse reflussi gastroesofagei. Perché i sudditi vincessero l’intorpidimento causato dall’assuefazione (favorita dalla stampa e dalle TV locali) doveva consumarsi un decennio di miserie e di impoverimento morale e materiale della comunità. Così, un anno fa hanno iniziato a ribellarsi: non hanno accettato l’asservimento della terza città della regione alla sorella di Titano, e hanno voltato le spalle ai maiali nei centri più popolosi. Titano è riuscito a resistere per una manciata di voti, raccolti in località dimenticate da Dio, dove le notizie arrivano quando è sempre troppo tardi.
Poi la TV nazionale ha denunciato i suoi orrori, rendendo frustante il sentimento di vergogna covato a lungo da quanti hanno saputo resistere al dolce canto delle sirene, dietro il quale Titano celava le bramosìe inconfessabili della sua cricca spensierata. Pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha abbattuto il governo dei maiali. Quel che ne resta è lo sterco nei palazzi e nelle piazze. Ma l’aria è già più fresca.

venerdì 26 ottobre 2012

Ho ancora pochi minuti a disposizione per dire la mia sulle ormai imminenti elezioni regionali siciliane. Come molti osservatori, anch’io credo che l’esito della consultazione avrà inevitabili ripercussioni sugli incertissimi equilibri politici nazionali. Se avessi diritto di voto, sceglierei senza esitazioni Rosario Crocetta. La sua esperienza amministrativa nel difficilissimo tessuto sociale di Gela, infestato dalla mafia, è stata tanto ardimentosa ed efficace, che può senza dubbio scusare una sua certa vocazione al narcisismo e all’autocompiacimento. Che sia sostenuto anche dall’UDC, a lungo il referente partitico di gruppi di potere impresentabili, non mi turba più di tanto: i sodali di Cuffaro e di Lombardo si annidano sotto le insegne di Musumeci e di Micciché. L’UDC cerca la catarsi attraverso l’espiazione. Trovo sconcertante, piuttosto, la vocazione suicida della sinistra radicale e del gruppo di Orlando. Sciocchi capricci, ripicche da tre soldi. Che senso ha ostentare una presunta verginità, per favorire il gioco delle destre? Se i siciliani premiassero Crocetta, che ha fatto della lotta alla mafia una ragione di vita, e che per giunta non dissimula la propria omosessualità in una terra ancora infervorata da oscuri pregiudizi, avrebbero compiuto davvero una rivoluzione culturale.

sabato 20 ottobre 2012

La carriòla



 La nostra povera libertà si lega all’umile libertà

di una vergine che nel milleseicentoundici non ha

se non quella del proprio corpo integro e

non può capacitarsi in eterno di averla perduta.

Per tutta la vita essa si adoprò a sostituirla con un’altra,

più alta e più forte, ma il rimpianto di quell’unica restò:

mi pareva, con quei fogli scritti, d’averlo quietato”.

(Anna Banti - Artemisia)


Bevo con avidità ardente le parole di Anna mentre racconta, ormai in un tutt’uno con l’anima di Artemisia, il fuoco e la passione che sublimano e innalzano, confondendola come una divinità in terra, l’arte della pittrice nel momento in cui, sofisticata e maestosa, prende le sue armi e con la stessa crudeltà che si riflette negli occhi di Giuditta, dipinge il corpo dalla testa all’ingiù del generale supremo, Oloferne, immaginandolo Agostino Tassi, il traditore che ha rubato la sua libertà di donna deflorandola quando aveva quattordici anni.

Impugno una penna, un tratto, per onorare l’estro delle due supreme donne: l’impareggiabile bellezza dell’arte pittorica di Artemisia e l’inequivocabile abilità letteraria di Anna, riproducendo su un taccuino personale le frasi e i pensieri più reconditi di due anime intrecciate e complementari. Superba m’assale la vorticosa gioia che promana dalla mia eccelsa lettura. L’onore che diletta il mio spirito nel maneggiare quest’opera si mescola al sapore antico delle pagine ingiallite di un libro stampato l’anno precedente la mia nascita.

Mai, giuro, mai prima d’ora m’era accaduto di trasfondermi ed unirmi quasi anima e corpo alle lettere silenti impresse a stampa sulle pagine di un libro. E quando per via degli occhi stanchi e sprofondati nel rosso della luce opaca di un una misera lampadina, chiudo il mio buon compagno e vado a dormire, allora mi risveglio e m’accorgo di essere ritornata nella mia realtà feriale.

Un senso d’indulgenza diffusa, allegra come un volo, la faceva nel sonno, sorridere. Nel sonno il sorriso è quasi difficile come il pianto e bisogna liberarsene. «Ma io dipingo» scopre Artemisia, risvegliandosi: ed è salvata.

E poi, quando perduta nella tua storia senza tempo mi ritrovo a leggere questa fatua esclamazione esplosa all’alba in un risveglio di lagrime abbondanti, calde, covate nel sonno: Figlia mia, figlia mia che sei una donna e non capisci tua madre, ecco che ritrovo un’altra maestra, un’altra donna che se non fosse volata via in una primavera lontana avrebbe saputo ingioiellare con i suoi capaci versi il corpo possente di Artemisia: mia eterna, sublime signora Alda Merini. Chi altri avrebbe saputo confondersi con tale abilità nell’anima nerboruta della pittrice al pari della sua biografa? Sollevo il velo del tempo e dello spazio e sono colpita dalla luce abbacinante che promana dalle figure vostre di inveterate artiste sovrane.

Anna ritrae, attraverso le parole, il disagio e la tristezza di una donna sola ed inquieta. Magnifica rappresentazione di uno stato d’animo che non passa inosservato, che non può non attirare su di sé lo sguardo attento del lettore, in quanto anch’egli si riscopre, sfidando la sua meraviglia, nella turba di sensazioni che invadono clamorosamente l’altera, la superba, la passionale pittrice. Realtà e immaginazione si confondono fino a saltare fuori dalle pagine come un trompe-l’oil che sfida la capacità di discernimento dello spettatore. A questo punto non mi rimane che sublimare la mia verace scrittrice, ché mi offre così quasi inconsciamente, le indagini psicologiche di magnifica perfezione che solo l’immortale maestro russo può offrire ai suoi lettori più diligenti. E si leggerebbe d’un fiato questa storia, se non fosse per la smania di annotare tutto: parole, espressioni, frasi, sublimazioni d’artista e verecondia d’altri tempi.

Così si diviene complici della protagonista, si avverte l’amaro di una vita che si disperde anno dopo anno con vigore, regalando semmai quel poco di saggezza in più. Artemisia che apre a Napoli una scuola di pittura e accademia di disegno. Lei, una donna del diciassettesimo secolo. È forte Artemisia, dura come una roccia e debole anche, così spaurita quando apprende che il marito l’ha lasciata, sola con la sua arte e la sua ostinazione. …Mentre il dolore, questo terribile infante, si agitava nel suo seno succhiandole il sangue e mandandole in bocca l’amara saliva del pianto. Per allontanarsi da una vita che corre imbizzarrita e non soccombere al vorticare delle vicissitudini alle quali vuole proclamarsi estranea, la mia pittrice sceglie di imbarcarsi, allontanarsi per lasciar tutto alle spalle e dimostrare la virilità femminile che sempre l’ha contraddistinta. Qualcosa esiste a dimostrare che Artemisia ha vissuto, che una donna sa dipingere come un uomo, meglio, magari.

E così Artemisia parte. Parte per raggiungere suo padre, in Inghilterra. Eppure chiede in cuor suo che qualcuno la trattenga, che qualcuno le impedisca di mettere in esecuzione la sentenza d’esilio volontario. Chi può trattenerla? Il marito no, ché ormai, uomo cambiato dagli eventi, non s’accorge di non poter vivere senza la difficile compagna dalla matita veloce. Immagina allora, addirittura, un ammiratore remoto che arrivi in carrozza, che ne scenda e le dica: “No Signora, non dovete spatriarvi, son qua io per voi e guai a chi vi tormenta”. Artemisia si ritrova a fissare Porziella, sua figlia. Ecco chi è venuta a salutarla, ma non per scongiurarne la partenza e trattenerla con sé. Figlia ingrata e fredda, allevata in monastero per volere della madre e che non ha più nulla a che spartire con quei pezzenti di pittori che vuol proprio dimenticare. E Artemisia ne fissa a quel punto il profilo, il colore delle carni, lo sporgere dello zigomo che al suo somiglia, e il portamento delle spalle rotonde fuor della rigidezza del corpetto: un bel ritratto sul gusto fiammingo, non manca che la finestra aperta da cui si vede il mare. Ecco cosa significa andare in Inghilterra: guardare il viso di una figlia e vederlo come un oggetto distante, completamente staccato da sé, raggiungibile solo per effetto di memoria. E così nessuno la tratterrà. Avessi potuto trattenerti io… Eppure qualcuno l’ha fatto, t’ha ospitato nella sua quotidianità e t’ha offerto ristoro. T’ha dato ascolto, t’ha consentito lo sfogo e ha placato le tue attese. E a chi ti ha accolto, trecento anni di maggiore esperienza hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E colei che ha saputo ricordarti, perdendoti, ritrovandoti e proporti al lettore tanto ostinatamente e magnificandoti, merita anch’essa un premio, un’ approvazione che non s’è ancora dichiarata e tale sarebbe la nuova ristampa di un libro che non ha mai smesso di palpitare di vita negli ameni luoghi di una biblioteca lontana e solitaria. Ma esso sopravvive. Al tempo, allo spazio, all’incongruenza editoriale.

Sì, signori. Ella vive. Mentre coloro che dovrebbero offrirle un riconoscimento dovuto, s’adagiano candidi nei loro sarcofaghi, ricoperti solo dalla coltre della ricchezza e del potere. Inetti esperti e zotici conoscitori dell’arte letteraria, danno spesso alle stampe curiose opere di cattivo gusto perché non possono far altro che assecondare le proprie passioni subdole e senza spessore. Storica, senza alcun dubbio, è la conosciuta casa editrice M., ma anche stimata oltre il dovuto se mostra una così matura ottusità nell’individuare quelle opere che andrebbero sottoposte ad una dignitosa ristampa. Opere come Artemisia. Cecità che si sublima nell’incompetenza degli addetti ai lavori, una genia di parassiti amorfi che lievitano stando seduti nelle loro poltrone, dietro le scrivanie a far finta di saper discernere ciò che è arte letteraria pura, da quell’altra arte degli pseudo scrittori portati alla ribalta da chissà quale sinistro intento.

Scopritori di talenti letterari, riuscite a sentire il grido di una scrittrice che reclama il suo estro e il suo giusto rispetto? Rendetele giustizia e forse sarete graziati. Da chi? Dal pubblico di lettori, che non raramente mostra di essere un passo avanti a voi. Onorate il sacrosanto diritto che vantiamo di poter leggere i veri capolavori della letteratura italiana, e per una buona volta fatevi amministratori seri di un patrimonio inestimabile che pensate di saper curare. Cercate d’aver sempre presente il benessere del lettore, perché ci sono libri da cui non si può non trarre giovamento: la ristampa di ‘Artemisia’ è un dono che non si può negare a coloro che davvero non possono fare a meno di leggere.

E per finire, permettetemi di riportare le parole che Anna Banti rivolge al lettore prima di cominciare il suo concitato, appassionato dialogare con Artemisia:

“Un nuovo accostarsi e coincidere fra vita perenta e vita attuale; una nuova misura di connivenza storico-letteraria; il tentativo d’immettere nella palude bastarda dell’italiano letterario in corso, vecchie e potabilissime fonti dell’uso popolare nostrano: tali erano le ambizioni del racconto che, intitolato Artemisia, era alle ultime pagine nella primavera del 1944. In quell’estate, per eventi bellici che non hanno, purtroppo, nulla di eccezionale, il manoscritto veniva distrutto. A giustificare l’ostinazione accorata con cui la memoria non si stancò, negli anni successivi, di tener fede a un personaggio forse troppo diletto, queste nuove pagine dovrebbero, almeno, riuscire.

Ma perché, questa volta, l’impegno del narrare non sosteneva che la forma commemorativa del frammento, e il dettato si legava, d’istinto, a una commozione personale troppo imperiosa per essere obliterata – tradita - : credo che al lettore si debba qualche dato dei casi di Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi.

Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi. ”. A.B.



“…una donna che dipinge nel milleseicentoquaranta

è un atto di coraggio, vale per Annella e per altre cento

almeno, fino ad oggi. «Vale anche per te», conclude, al

lume di candela, nella stanza che la guerra ha reso fosca,

un suono brusco e secco. Un libro si è chiuso, di scatto”.

Anna Banti, Artemisia




sabato 22 settembre 2012

Mi fa piacere comunicarvi che sono uno degli autori de L’età moderna e contemporanea, curata da Umberto Eco, che a partire da lunedì 24 settembre sarà offerta in abbinamento facoltativo con La Repubblica e L’Espresso. Il mio contributo, concernente la scoperta del calcolo infinitesimale, è contenuto nel quinto volume dell’opera (Il Seicento. Arti visive, scienze e tecniche), la cui uscita è prevista per il 22 ottobre. Trovo sorprendente che un mio testo circolerà ovunque, raggiungendo finanche le più remote edicole di provincia oltreché gli Autogrill. Si tratta di una prospettiva che mi procura emozioni coinvolgenti, suggestioni fantasiose, ragioni per intensificare il mio impegno intellettuale.


venerdì 14 settembre 2012



Provate a sfogliare il suo libro fra le mani, lasciando andare i fogli sotto le dita… si libreranno nell’aria i profumi, le sensazioni, le verità di una storia raccontata con grazia, perfezione e passione.



Il mio segreto è una memoria che agisce a volte per terribilità. Isolata, immobile, sul punto di scattare, sto al centro di correnti vorticose che girano a spirali in questa stanza dove i miei cento orologi sgranano battiti diversi in diversi timbri. Se alzo il capo le vedo fiammeggiare, e ad ogni tocco di fuoco corrisponde un’immagine. Sempre sono trascinata fuori di me dalla tempesta di vivere. Che cosa è il tempo, e perché deve considerarsi passato? Fino a quando viviamo esiste un solo tempo, il presente. Una forza struggente mi prende alle viscere: costruttiva o devastatrice non mi è dato sapere; è senza regola, almeno apparente”.



Incedo con cautela, non riconoscendo più il mio solito profilo di lettrice assennata e rapida nelle sue letture. Assaporo parola per parola, rileggo anche più volte la stessa pagina, mi soffermo a riflettere sulla profondità delle frasi, mi incanto nell’ammirare lo stile superbo della scrittura. Capolavoro assoluto, tesoro indiscusso riposto nello scrigno della letteratura italiana. Ci sono libri che richiedono attenzione, che pretendono di essere ‘divorati’ con circospezione, non vogliono essere considerati un semplice strumento di svago, non amano esser portati in spiaggia per rischiare di perdere il loro valore assoluto tra la sabbia, le urla e i gridolini dei bimbi e dei bagnanti… Io ho rischiato di offenderlo, questo caro libro, proponendogli l’aria marina e il sole allontanato stando seduta sotto l’ombrellone. Quante volte ho pensato d’aver sbagliato compagno. Già, perché ho preferito la compagnia di Maria avendo già consumato il mese precedente quella di Alessandro. E Maria che chiedeva tranquillità e concentrazione! Ma ora chiarirò tutto.
Maria Bellonci è la signora che ha elaborato ‘Rinascimento privato’, romanzo in cui si narra la vicenda di Isabella d’Este Gonzaga, marchesana di Mantova. Maria Bellonci è anche colei che insieme a suo marito Goffredo ha ideato, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quel riconoscimento letterario che s’esprime nel famoso premio Strega. Casa Bellonci era il ‘covo’ di letterati, intellettuali, scrittori: i cosiddetti ‘Amici della domenica’ (dal giorno prescelto per le loro riunioni). Proprio da questo sodalizio nasce l’idea di contribuire, attraverso un premio, alla diffusione della narrativa italiana. Nel 1947 si tiene la prima edizione del premio Strega, dal liquore prodotto dalla famiglia di un giovane industriale, Guido Alberti, che per spirito mecenatesco e amore per la cultura si è unito al gruppo. Non pensiate che il premio riconosciuto a Maria nel 1986 sia una ovvia vittoria dovuta al ruolo avuto in ordine all’esistenza del premio suddetto. Maria muore nel maggio del 1986 alla vigilia della presentazione del quarantesimo premio Strega, a cui con sofferta decisione ha accettato di concorrere incoraggiata dal sostegno di amici ed intenditori. Ma Maria è davvero una signora del bello scrivere, una superba scrittrice e una instancabile studiosa. Donna d’intelligenza pura e verace, immersa completamente nei libri che ha saputo giovarsi, nei primi anni di matrimonio con Goffredo, di quell’apprendimento libero e personale ispirato all’educazione alla bellezza, all’arte e alla letteratura che il marito seppe impartirle attraverso la lettura dei classici e delle visite a chiese e musei di Roma.
A questo punto vi state chiedendo chi è Alessandro. Alessandro Piperno è lo scrittore romano che quest’anno ha vinto il premo Strega. Ma avrei potuto citare Baricco, Ammaniti, Mazzantini, tutti scrittori contemporanei che propongo uno stile moderno e lontano anni luce da quello profondo, articolato e strutturalmente complesso della Bellonci. Ma questa non vuole essere una critica. Gli scrittori sono cambiati perché forse sono cambiati i lettori. Dicevo più su che ‘Rinascimento privato’ è stato il mio compagno durante la settimana di vacanza al mare. Grave errore! Perché il capolavoro di Maria avrebbe richiesto un contesto ambientale completamente diverso! Ovvero, una poltroncina accanto alla finestra, un taccuino di appunti (che comunque non m’è mancato, essendo il fratello siamese di ogni libro di turno), silenzio, animo teso alla lettura e libri storici da consultare. Bé, so cosa state pensando, che se bisogna attrezzarsi a questo modo per rilassarsi con un libro allora è meglio lasciar perdere. Ma così ragionate alla istessa maniera di quella persona che recensendo il libro in questione avvertiva la necessità di sottolineare quanto fosse pesante andare a ricercare sul dizionario termini sconosciuti e parole inusitate. Invece io credo che sia anche questo il bello della lettura! Esplorare concetti e pensieri imparando a conoscere anche parole nuove e diverse da quelle che si spendono a vuoto sui giornali o nella televisione. Con la crisi che c’è oggi della lingua italiana! Non sarebbe ideale cercare d’esprimersi in un italiano più forbito e meno squallido? Non ho alcuna intenzione di sminuire i recenti romanzi a cui è stato attribuito il riconoscimento letterario ‘stregato’, tra l’altro ho apprezzato oltremisura il buon Pennacchi col suo ‘Canale Mussolini’ di qualche anno fa, anzi, guai a chi reclama! Posso riuscire a comprendere questo salto di stile, salto nel vero senso del termine, ovvero, salto in lungo tanto da superare lo stile perfetto della scrittura soltanto richiamando alla memoria ciò che è accaduto nel Duecento. Sì, sì, chiarisco.
Come sapete l’uso del volgare, nella letteratura, nacque nel corso del Duecento e fu indice di cambiamento profondo nella struttura sociale italiana, ma rivelò e condizionò un rapporto nuovo fra scrittori e lettori, e segnò e provocò la formazione di un pubblico nuovo. Chi scriveva in volgare rinunciava, per questo fatto, ai suoi lettori transalpini, e non parlava più che ai soli Italiani, i soli in grado di intenderlo, tanto che Dante nella sua gioventù potè scrivere, con ingenuità giovanile, che i primi a poetare di amore in volgare lo avevano fatto perché altri mentile donne, che ormai non conoscevano più il latino, non lo avrebbero inteso (“Vita nuova”, XXV). Chi dunque, scriveva in volgare da una parte restringeva il suo pubblico, ma, da un’altra parte, lo allargava, potendo essere compreso da tutti gli Italiani, anche da quelli – e ormai erano i più – che intendevano solo il volgare. Ma appunto per questo, per questo rivolgersi ad un pubblico italiano e non più supernazionale, la nuova letteratura assumeva un carattere nazionale e si faceva interprete delle esigenze, degli interessi, dei sentimenti dei soli Italiani, sicché può essere detta Italiana (G.Petronio – L’attività letteraria in Italia).
È per questo dunque che il libro di Piperno l’ho letto in tre giorni e quello di Maria Bellonci in quattro settimane! È dunque cambiato il pubblico di lettori se oggi si propone una scrittura più veloce che corrisponda anche ad una lettura più rapida. Va bene così purché si legga, però, miei cari, non tralasciate di dare spazio anche a letture un po’ più impegnate, più corpose, più superbe che possano migliorare i contorni del pensiero e delle facoltà intellettive. Leggete ‘Rinascimento privato’, non lasciatelo marcire nello scaffale dimenticato di una libreria! Neghereste a voi stessi l’incanto di una storia mai raccontata prima con tanta raffinatezza e capacità d’espressione.
Bene, e adesso, dopo Maria mi attende un’altra signora dallo stile inconfondibilmente elegante: Anna Banti. Se avete letto ‘Noi credevamo’ dovete assolutamente leggere ‘Artemisia’. Ah, già e come fate… ‘Artemisia’ non è più in ristampa dagli anni ’70… Dovete sapere che ho provato a contattare via e-mail la casa editrice Mondadori, provando a sottoporle la possibilità di ristampare questo libro che io sono riuscita a trovare su e-bay in una edizione tascabile del 1974. Cos’ha risposto la segreteria letteraria della Mondadori? Attraverso un messaggio preordinato m’ha scritto che se saranno interessati mi contatteranno. (!!!) Se saranno interessati mi contatteranno? Ma non devono dare alle stampe un mio libro!! Che il diavolo se la porti! Sono davvero consapevoli ed esperti coloro che dovrebbero avere una visione totale della letteratura italiana! Vergogna indicibile non provvedere alla ristampa di opere così valide come quelle di Anna Banti. Ne trarrebbe giovamento quell’ampia fetta di pubblico di lettori appassionati e volendo anche la scuola, perché alcuni libri dovrebbero entrare a far parte del programma didattico nel settore della narrativa da proporre agli studenti. Ma tant’è.
E voi, miei cari, leggete, leggete sempre senza stancarvi mai!



Ho nell’orecchio una conversazione
di qualche anno fa […]
[…] era da presumere che avesse pensieri
tutti propri nascosti in una nicchia
o in un rifugio dai quali prendeva coraggio;
perché solo una sosta nel luogo interiore
che appartiene al nostro regno inviolato
ha il potere di restaurarci.
(M. Bellonci, Rinascimento privato)


Federica Passarelli

mercoledì 8 agosto 2012

Quel che sto per riferire non è un oltraggio a un pubblico ufficiale, poiché mi limito a riportare un fatto, lasciando libero spazio alle valutazioni dei lettori. In un piccolo centro di periferia, socialmente sano, sono frequentissimi i posti di blocco dei Carabinieri. Militarizzazione pretestuosa di un territorio ancora immune dalla delinquenza e dal malaffare. Sarei curioso di sapere se nell’hinterland di Trapani oppure nell’agro aversano, feudi mafiosi, le Compagnie militari prevedessero il medesimo servizio di vigilanza. Diversi anni fa ho attraversato in auto l’intero territorio pugliese, dalla Capitanata fino alle coste salentine, non riscontrando una sola pattuglia. Idem nel corso del viaggio più recente da Catania fino alla provincia iblea. Invece, nel tratto urbano compreso fra l’Ufficio postale e la Stazione ferroviaria del piccolo centro, racchiuso in un pugno di metri, si riscontrano ordinariamente presenze di Carabinieri. Questo è l’antefatto.
L’altro giorno un carabiniere mi intima lo stop con un vigoroso sventolìo della paletta. Indossavo regolarmente la cintura, tutto era perfettamente in regola. “Patente e libretto, prego!”. Estraggo dal portafoglio la patente e gliela consegno. Non mi dà il tempo di prendere il libretto. Mi dice: “Ma tu sei il figlio di ..?”. Chiama in causa mio padre, comandante dei vigili urbani. Non rispondo, lo fisso con rassegnazione. “Puoi andare…, vai, vai”. E io, immedesimandomi nella scena filmica che propongo di seguito, tratta da Auguri professore, rispondo: “Non le interessa più il libretto? Attenda un attimo, lo prendo…”.




Mi manda via in modo sgarbato, turbandomi. Non è cambiato nulla: l'Italietta ha radici più profonde di quanto osassi immaginare.

sabato 4 agosto 2012




Vivere significa sperimentare, ovvero favorire gli incontri che alimentano la potenza di agire. I fallimenti avvelenano il corpo, sono rudimenti di decomposizione. La vita resiste alla putrefazione: un cerino in una cavità sepolcrale.
Vivere e viaggiare. Attraversare lande deserte, folle confuse, sere anodine. La pace in sé, il caos all’esterno. Il patologico è più interessante del normale. Le ripetizioni stancano. Viaggiare per scoprire nuove Americhe. Le vele nere del ritorno. Vivere e dimenticare.

giovedì 2 agosto 2012



Ok. Ammettiamolo subito: premio meritato. Degno del profilo adunco della vecchina a cavallo di una scopa. Perfettamente conforme alle aspettative del premio di mezza estate. E pensare che sin dalle prime pagine avevo meditato di scriverne in maniera dispregiativa lusingando l’idea di stroncarlo in pieno. Da lettrice, è chiaro, non sono mica un critico letterario.

Una quantità esagerata di turpiloqui e volgarità e oscenità. Se non avessi avuto la patente di ‘lettrice indefessa e ostinata’ non penso che sarei riuscita ad apprezzarlo. Ed è stata questa la vera fortuna. Perché dopo un universo mondo di sottolineature sull’ossessione primaria dei protagonisti, dopo il linguaggio scurrile in cui ho navigato per tutta la buona metà del romanzo, finalmente sono approdata su qualcosa di essenziale, di più profondo, di più interessante. Non intendo affatto star qui a proporvi un riassunto ben congegnato dell’ultimo romanzo di Piperno: sarebbe eccessivamente noioso e oltremodo inutile. Il fine di questa recensione è esclusivamente quello di puntare una lucina verso un romanzo che riesce a carpire l’interesse del lettore grazie alla sua scrittura scanzonata, rapida, pungente, irriverente ma anche sensibile e tale da pizzicare le corde dell’emotività insita in ciascuno di noi. Non solo cinico e perverso, strafottente e megalomane, solitario (l’ho detto, la prima buona metà ti sconcerta al punto da farti credere che un’opera buona sarebbe quella di diseredarlo nel punto più nascosto della tua personale mini biblioteca casalinga!) ma anche un bontempone: ecco il ritratto del libro, da cui salta fuori, come in un trompe-l’oil, la natura più marcata del suo autore. Già, Alessandro Piperno. Insegnante di letteratura francese a Tor Vergata. Di solito, ciò che accade quando si legge un libro è di figurarsi talmente bene il protagonista, grazie alla descrizione minuziosa offerta dall’autore, che quel personaggio pare entri a far parte della nostra vita, per cui si può avere l’impressione di scovarlo in un angolo della strada che stiamo percorrendo, o di confonderlo col destinatario di una canzone trasmessa alla radio, di attribuirgli, insomma, una vita propria che si districa nella nostra quotidianità di lettori appassionati. Bè, quello che mi è capitato leggendo ‘Inseparabili’ è un fenomeno opposto: perché quello che m’è sembrato rivivesse in assoluto è l’impronta dello scrittore. Ecco, già vi vedo mentre vi dimenate dalla sedia!, lo so, pare una banalità perché è ovviamente ragionevole rintracciare il profilo dell’autore nei suoi personaggi. Eppure ciò che intendo io è un’altra cosa. Piperno si confonde e si fonde nei due fratelli, Filippo e Samuel. Inseparabili perché insiti in una stessa persona. Samuel-Piperno-Filippo. È l’eterno dualismo che imbratta il sottosuolo di ognuno di noi. Piperno s’incarna in Samuel, ma Samuel cerca di assomigliare a Filippo? E’ così che stanno le cose? Oddio!, possa io scampare da ragionamenti cervellotici che turbino l’attenzione dei due miei lettori!

Ma torniamo ad Alessandro Piperno. Schivo, quasi costretto ad imbrogliarsi in quell’evento mondano, così estraniato dal turbinio mediatico che caratterizza la serata. Ma quanto il suo aspetto è anche mostruosamente aderente alla sua anima! Avreste dovuto vederlo durante la serata della premiazione!, (chiariamo che la sottoscritta non era seduta tra i ben educati ministri della nobiltà romana, quelli che applaudono con morigeratezza perché temono che possano spellarsi le mani ad ogni battito della palma contro l’altra, mettendo così a repentaglio l’esistenza dei loro gioielli o dei loro orologi super costosi. No, io ero a casa ad onorare il mio sacrosanto posto in prima fila), e non potete sapere come mi gongolavo nell’osservare lo scrittore romano quando veniva proclamato vincitore dell’ambito premio Strega! Un attimo prima completamente distaccato, così noncurante del fatto di essere finalista con altri quattro colleghi-scrittori, capitato quasi per caso in quel contesto tanto salottiero e distante anni luce dalla sua vera natura, e poi!, benedetto clamore della vittoria! Eccolo lì, imbambolato (è questa la doppia essenza che vivacchia nel nostro seminterrato dell’anima?) più del dovuto che pare non credere alle proprie orecchie e agli urli e applausi da stadio che gli provenivano da una ristretta cerchi di amici, veri sostenitori in carne ed ossa, che davano uno scossone agli impomatati esseri inerti che occupavano le prime file lasciandosi andare all’unica espressione consona alle loro facce: sbalordimento per tanta ‘caciara’ in un posto altolocato come quello! E dovevate vederlo, il vincitore, come tracannava la sua buona bottiglia di liquore ‘Strega’, onorando così nel miglior modo possibile, la sua meritata vittoria letteraria!



Bene, questo è tutto quello che avevo da dirvi, miei cari due lettori. Tenete d’occhio Piperno, il moderno scrittore decadente, maledetto al punto giusto come solo i poeti francesi hanno insegnato ad essere.

P.S.: chissà che Ferzan Ozpetek non decida di ricavarne un film! Dico Ozpetek per scongiurare qualsiasi intervento di Luchetti, il regista che ha stravolto, con molta cura e devozione, il mio caro fasciocomunista Accio Benassi nel suo improbabile ‘Mio fratello è figlio unico’. E quindi, se mai qualche regista intenderà ispirarsi all’ultimo premio Strega, non escluda l’intervento dell’autore che saprà bene offrire il suo prezioso contributo!


Ah, tanto per: Pierfrancesco Favino nel ruolo di Samuel, Michele Riondino nel ruolo di Filippo, Virna Lisi nel ruolo di Rachel, Barbora Bobulova nel ruolo di Silvia, Martina Stella nel ruolo di Anna, Barbara Tabita nel ruolo di Ludovica…

lunedì 30 luglio 2012

Il mostro al di là del mare, dirimpettaio pestifero, non può essere abbattuto. Inietta in corpi rassegnati tarli indomabili, che dissanguano le aspettative. Ma mantiene ventimila cucine. Uccide e al tempo stesso è ragione di sopravvivenza. Si presenta, fra le sirene della notte e gli ululati delle corsie, come il più riuscito monumento alle miserie dei nostri giorni. Nubi rosse strozzano i cuori e si posano nella penombra delle sacrestie.


lunedì 23 luglio 2012



L’anniversario della strage di Utoya è stato macchiato dal dispiegamento pubblico dell’odio corvino coltivato a lungo da tal James Holmes, ventiquattrenne disadattato e misantropo. Se Breivik era animato dal livore manicheo proprio dei fanatici, armato dai deliri omicidi dell’ideologia nazista, il ragazzo di Denver confondeva videogame e realtà, finzione cinematografica e quotidianità. Commemoro le vittime sacrificali della loro vacuità esistenziale, proponendo il momento culminante di una manifestazione tenutasi nella scorsa primavera ad Oslo: quarantamila cittadini hanno intonato, seguendo Lillebjørn Nielsen, cantore di pace e uguaglianza, la canzone più detestata dal nazi-killer. Il gesto può valere anche per l’alienato americano. Bisogna reagire contro l’esibizione dell’intolleranza violenta, riaffermando, con convinzione ma pacificamente, i princìpi minacciati dagli assassini.

domenica 8 luglio 2012

Il cielo capovolto Quel che ho visto o sentito negli ultimi giorni mi fa sorgere il sospetto di essere un marziano catapultato in una galassia aliena. In primo luogo, pensando a un piccolo arrampicatore sociale, che ha a lungo beneficiato della mia disponibilità, sono quasi sospinto a credere che il soccorso disinteressato sia un atto dovuto. Già, un insieme di gesti da tributare a personalità confuse che si ricordano di un’esistenza soltanto allorché hanno un bisogno da soddisfare, e per le quali si può anche marcire in una cunetta, fra licheni e salici selvatici, tanto il mondo va comunque avanti. Rievocando uno dei racconti più crudi di Hugo, mi viene da definirli comprachicos, gente così priva di scrupoli che, pur di trarre un tornaconto, è disposta anche a “lavorare l’uomo come i Cinesi l’albero”. Adieu comprachicos!
In secondo luogo, ho notato che la stampa locale ha elogiato con enfasi da rotocalco le capacità organizzative di alcune associazioni giovanili che sono riuscite ad allestire una manifestazione, spacciata per notte bianca (!), che ha fatto convergere una massa ingente di persone nel corso principale della città. Notizia superficiale, dovuta a una considerazione istintiva o distratta dello stato effettivo delle cose. Quali sono i meriti dei sodalizi tanto celebrati? Sono fittizi, virtuali, privi di una sede e di regolamenti ufficiali. Sul fondo della loro ambiguità istitutiva, svolgono apparentemente funzioni di volontariato. In realtà si tratta di conventicole di disoccupati che traggono vantaggi della gratitudine dei mercanti del corso, che, nascosti dallo scudo benemerito ma falsario del no profit, incrementano gli interessi per la moltiplicazione prodigiosa degli avventori, e al tempo stesso sono esenti dal vincolo dell’occupazione di suolo pubblico. La consueta confusione fra pubblico e privato, sigillo mortifero del berlusconismo più pornocratico, che – ahimé – ancora persiste. Come se non bastasse, gli organizzatori hanno tradito le tradizioni locali, inscenando riti e mitologie salentine come se fossero tracce di un passato immaginario, e hanno conferito alla città un’anima contadina e cafonesca che non ha riscontri nella storia. Al limite potrebbe essere un triste presagio del domani.

venerdì 6 luglio 2012



La sua grazia è tanto oscena da lasciarmi sgomento.

Mi sfida a temere l’intemperanza.

La fermentazione del cuore dà luogo
a putrefazioni crepuscolari,
che sfumano nel sonno.

Venerazione dell’incanto,

trionfo terrestre di un Nume ignorante e beffardo

all’oscuro delle mie preci imprecise,

sussurrate, dimenticate. Tradite.

Ignora l’ara del disincanto,

violata da attese disarmate.

mercoledì 9 maggio 2012



Avrei tante cose da scrivere, ma non mi va, potrei rivelarmi più spigoloso del solito. Potrei tentare di abbozzare un'analisi sociologica sulle fortune del movimento di Grillo, spiegando le ragioni per le quali sarebbe un errore tentare di ridimensionarlo mediante l'attacco frontale, argomentando che bisognerebbe piuttosto adottare nei suoi confronti la stessa strategia con la quale la DC dissolse l'Uomo Qualunque di Giannini. Ma non mi va. Avrei voluto scrivere qualcosa su uno degli eventi delle ultime settimane che mi colpito di più, vale a dire la straordinaria manifestazione contro lo squinternato esecutore della strage di Utoya: migliaia di persone che intonano all'unisono la canzone che più detestava:bellissimo. Ma non mi andava. Meglio una canzone...

lunedì 23 aprile 2012

Potessi riascoltare la canzone di Guccini ‘Il vecchio e il bambino’… Troppo struggente, tessitrice di trame commoventi a cui non so ancora dare un nome. Gli odori della natura, i giaggioli fioriti, il colore delle viti e l’oro degli alberi d’ulivo: in qualunque cosa si ritrae il tuo volto mentre il vento mi precipita in un’altra dimensione che contrasta con la realtà. Un mese, domani. Un soffio, tanto mi pare sia durata la nostra compagnia, le nostre giornate, il nostro parlare. Tutti quegli anni volati via nel soffio di un sabato mattina… Un mese domani, eppure debbo ancora abituarmi al pensiero che non potrò più abbracciare il mio amato nonno. Io, che lo paragonavo ad un albero secolare, resto ferma a guardare il tramonto coll’idea di poterlo ritrovare nel bagliore che attraversa le nuvole…

sabato 31 marzo 2012



Un omino ha perso la via di casa, all’alba di un sabato troppo mite per essere vero. Giaculatorie, nenie, paternoster, benché non avesse mai creduto nelle ragioni del cielo. Le sue attenzioni erano per la terra, e i suoi prodotti, e prima ancora per la calce, e la sue polvere grigiastra. Guardava con sospetto alle astrazioni, non sapendo cosa fossero. Si orientava sul fondamento delle ripetizioni, non solo della Natura, ma anche delle sue giornate. Agiva sempre induttivamente. Seguiva il TG4, nonostante avesse detestato Berlusconi con tutte le sue forze. Era troppo scaltro per farsi ingannare. Rientrando a casa dall’orto impiegava più tempo del dovuto: ogni passo una memoria, una battuta un sorriso smaliziato.

giovedì 15 marzo 2012

Reagire, per potermi dire vivo




Non sono così malconcio da ridurmi a sfruttare questo spazio «pubblico», aperto alla condivisione delle idee, per fare un po’ di autopromozione di terza fascia. Del resto, ho sempre guardato con sospetto gli spiriti più istrionici, ovvero quanti sanno vendersi con maestria. Tuttavia, chi mi conosce sa che coltivo nella quotidianità una morale piuttosto semplice, ispirata a princìpi di reciprocità solidale non immuni da scrupolosità. Tuttavia, così procedendo, non rivendicando nella durezza di legittime opposizioni, ragioni abusate, molestate, stuprate, calpestate, logorate, mortificate, morirei, sopraffatto dalla violenza del mondo. Al diavolo gli scrupoli, retaggio dell’etica della consolozione, logica della rassegnazione, codice del gregge!

mercoledì 7 marzo 2012


Enzino Ottaviano, pater patriae





Quando in una cittadina di provincia diverse centinaia di persone si radunano spontaneamente per accompagnare un feretro in chiesa, vuol dire che l’oggetto della commemorazione funerea era stato in vita un soggetto speciale, al di là dell’infusione del carisma e delle qualità professionali. Se si intendesse il contesto locale come un microcosmo sociale, Enzino Ottaviano potrebbe essere inteso, con sacrosanta ragione, come il «pater patriæ», un’icona. Amministratore generosissimo, provava un’autentica passione per gli strati più umili della fauna cittadina. È difficile immaginare un valido docente di storia e di filosofia dialogare con persone che consumano il vernacolo nel lessico della rassegnazione. Seppe farsi carico di bisogni che erano finanche ben distanti dalla prerogative che solitamente spettano al Sindaco. Se il sindaco è colui che amministra con giustizia (syn-dikaios), allora è stato il Sindaco, nel senso che non scontentava nessuno, nella sua vocazione profondamente altruista, che non era né democristiana né populista, ma autenticamente «popolare». Certamente, l’amministratore che sa accontenare tutti, non sempre riesce a costruire il bene comune, che presuppone rinunce, sacrifici. L’eccesso di generosità è un boomerang. Tuttavia, agì sempre in buona fede, con la mente sgombra da secondi fini. Alcuni mestieranti della politica continuano maldestramente ancora oggi, soprattutto oggi, a rivendicare un’eredità politica che non gli compete. Ottaviano non ha lasciato eredità, dato che il suo impegno sociale sfuggiva ai precetti più elementari dell'amministrazione pubblica. Non ha formato eredi. L’oscura mediocrità dei suoi successori, lontanissimi dall’ideale che animava le sue giornate, acuisce il rimpianto sul fondo di un’inesorabile nostalgia. Purtroppo non seppe o non volle riconoscere (o ammettere) la bassezza dei suoi collaboratori, gli sparvieri in giacca e cravatta che ieri ruotavano incessantemente attorno al suo sepolcro di fiori e rimorsi. Addio Enzino, non dimenticherò l’unica lezione (sulle mitologie delle antiche civiltà) che ebbi modo di seguire, così come il riconoscimento pubblico di una passione che rispondeva soltanto alle ragioni del cuore.



giovedì 1 marzo 2012



«Come ad esempio una canzone mentre la stai cantando, di là qualcuno muore, qualcun altro sta nascendo: è il gioco della vita, la dobbiamo preparare che non ci sfugga dalle dita come la sabbia in riva al mare».

Ciao Lucio,

grande cantautore che ha saputo farsi amare anche dalle massaie.

lunedì 20 febbraio 2012



Sono in viaggio, per tornare dopo quattro mesi, sempre per ragioni filosofiche, in Emilia. Attraverserò di nuovo Modena, spingendomi sulla via Emilia fino a Reggio. L’occasione del ritorno è oltremodo stimolante: nel corso del XXI Convegno Nazionale dei dottorandi in Filosofia presenterò (per essere preciso, giovedì mattina) una relazione sull’interesse di Leibniz per la medicina (La cura del mondo). Si tratta di un interessante banco di prova, dato che mi viene offerta la prima opportunità per esporre, al cospetto di un pubblico qualificato, le intuizioni che stanno facendo lievitare la tesi di dottorato.

sabato 11 febbraio 2012

La carriòla


Per Lisbona. Perché nel titolo rivive Lisbona e dunque Pessoa. Pessoa in realtà viene citato non molto spesso, due sole volte: una nel racconto, l’altra sul frontespizio del libro.


Rua dos Douradores. E se Bernardo Soares avesse deciso così, all’improvviso, di cambiare vita, di lasciare il suo lavoro e il suo ufficio e saltare sul primo treno in partenza alla stazione? Ecco, allora non avremmo avuto il Libro dell’Inquietudine. Dilaga il respiro del poeta portoghese e gonfia le pagine di quest’altro libro di cui vi scrivo e in cui si narra la storia di un professore svizzero di lingue morte – latino, greco, ebraico – che una mattina, mentre percorre la strada che lo separa dal suo liceo, s’imbatte in una donna che, a giudizio di Raimond Gregorius, pare voglia gettarsi da un ponte. Il professore scoprirà che la giovane donna è portoghese. Português. “La o, che lei sorprendentemente aveva pronunciato come una u, la sonorità stranamente soffocata e in crescendo della ê e la sc strascicata e morbida si fusero per lui in una melodia che echeggiò più a lungo di quanto non fosse accaduto in realtà, e che avrebbe amato poter ascoltare tutto il giorno”.


“Delle mille esperienze che facciamo, riusciamo a tradurne in parola al massimo una e anche questa solo per caso e senza l’accuratezza che meriterebbe. Fra tutte le esperienze mute si celano quelle che, a nostra insaputa, conferiscono alla nostra vita la sua forma, il suo colore e la sua melodia. Allorché ci volgiamo, quali archeologi dell’anima, a questi tesori scopriamo quanto sconcertanti essi siano. L’oggetto che prendiamo in esame si rifiuta di stare fermo, le parole scivolano via dal vissuto e alla fine sulla carta rimangono pure affermazioni contraddittorie. Per lungo tempo ho creduto che questa fosse una mancanza, una pecca, qualcosa che si dovesse superare. Oggi penso che le cose stiano diversamente: che il riconoscimento dello sconcerto sia la via regia per giungere alla comprensione di quelle esperienze tanto familiari quanto enigmatiche. Tutto ciò può suonare strano, anzi singolare, lo so. Ma da quando vedo la faccenda in questo modo, ho la sensazione di essere per la prima volta davvero vigile e vivo”.


Questa è l’introduzione del libro scovato per caso da Gregorius in una vecchia libreria antiquaria. AMADEU INÁCIO DE ALMEIDA PRADO, UM OURIVES DAS PALAVRAS, LIBSOA 1975, gli pronuncia a voce alta il libraio. L’orafo delle parole, non è un bel titolo? Allusivo ed elegante. Come argento opaco. Spesso, nell’osservare i suoi alunni, Gregorius s’era perso in un pensiero, sempre più frequente e tanto lontano da lui: “Quanta vita hanno ancora davanti a sé; come è ancora aperto il loro futuro; che cosa ancora può attenderli; quante esperienze possono fare ancora!” e adesso lì, in quel rifugio avvolto nell’odore di polvere e di rilegature in pelle, il libraio gli traduce un’altra frase dell’autore ignoto: “Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto?”


Il romanzo narra l’esperienza di un uomo ordinario che ad un certo punto della sua vita, contro ogni aspettativa che avrebbero potuto offrirgli il suo carattere e la sua prevedibilissima volontà, decide di darle una sterzata, di seguire l’istinto, di fidarsi della sua voglia di evadere dal mondo stantìo che lo circonda, di allontanarsi dalla sua amata Bubenberghplatz, dove aveva trascorso tutta la sua vita, dove sapeva orientarsi, dove era a casa… Il libro di Prado gli fornisce l’ingresso in un altro se stesso e il viaggio che lo condurrà a Lisbona avrà il merito di forgiarne il carattere e l’aspetto (gli occhiali ne saranno una prova). Ecco perché in qualche modo il gusto pessoiano non può che essere avvertito in ogni alito delle lettere stampate. Nel suo Livro do Desassossego il poeta scriveva: - Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera, perché nessuno sapeva che a questo mondo esistono i mascherati. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. - (Libro dell’Inquietudine, annotazione del 7 aprile 1933).


La struttura del romanzo è un classico libro nel libro, perché la narrazione è intercalata dalle continue annotazioni di Prado. Ma c’è qualcos’altro. Non è solo un racconto nel racconto, ossia il narrare della vita di Prado e le conseguenti rivoluzioni che essa provoca nella vita di Gregorius. Il professore, infatti, si insinuerà talmente bene nel passato del portoghese - conoscerà gli amici più cari dello scrittore affratellandosi con alcuni di loro - che arriverà a scoprire sempre più nuovi volti anche nella pedissequa, invariata sovraccoperta della sua esistenza. Ad un certo punto Gregorius si chiederà: “Era possibile che la maniera migliore per accertarsi di esistere fosse imparare a conoscere e a comprendere un altro?”. E il mio amore per i libri non può non suggerirmi che dal racconto nel racconto, dal libro nel libro, ne viene fuori un terzo: quello dell’osservatore esterno, del destinatario delle parole scritte, del lettore che di pari passo con l’eroe del romanzo compie anch’egli un viaggio, quello dentro se stesso. Ho sempre considerato la lettura una maestra di vita perché attraverso i libri s’impara a scoprire il mondo e anche un po’ se stessi: senza un libro appresso penso di non saper camminare! Leggere è vita, è amare, è stupirsi di se stessi e anche degli altri. È, come mi ricorda un piccolo poster incorniciato che ho di fronte mentre scrivo, un guardare oltre: “Chi legge…guarda lontano”, così sentenzia il motto del quadro. E mi vengono in mente i capolavori di quel genere artistico che ci lascia sempre in qualche modo perplessi e dubbiosi: siamo di fronte alla realtà o al sogno? È un trompe-l’oeil, un’immagine che salta fuori per rubarci l’anima e i desideri nascosti per poterli realizzare.


Una frase, su tutte, ha senza dubbio punzecchiato la mia attenzione ed è quella espressa a riguardo della lealtà nei confronti di se stessi: “L’impegno a non fuggire neppure davanti a se stessi. Né nell’immaginazione né nell’azione. L’essere pronti a rimanere fedeli a se stessi anche quando ci si detesta”. Poetava il mio amato Pessoa: “Penso che esprimere una cosa sia conservare la sua forza e privarla della sua terribilità”. Dunque, per restare fedeli a se stessi anche quando si ha l’impressione di scontrarsi con i propri principi, occorre svelare l’altro nostro volto che scompare dietro la patina di deferenza che si mostra fedele alle aspettative degli altri. In una delle tante annotazioni Prado elabora questo pensiero: “Succede anche agli altri di non riconoscersi nel proprio aspetto? Di avere l’impressione che la propria immagine riflessa sia semplicemente una quinta che deforma tutto in modo grossolano?”. E perdonatemi, miei due cari lettori, se ancora una volta vi strazio con la mia fisima pirandelliana. Ma non vi sovviene il superbo ‘Uno, nessuno e centomila’?: - …Mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. […] Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando” […] “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uomo lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no. -
Ho tentato così di recensire un libro, a parer mio un buon libro, che ha nel titolo il gusto del viaggio verso luoghi sconosciuti della terra e verso altrettanti luoghi che non si finisce mai di esplorare, come quelli della propria anima. Si può essere sicuramente migliori di ciò si appare. Basta scoprirlo e rivelarlo.


Treno di notte per Lisbona.
Di Pascal Mercier (pseudonimo di Peter Bieri, docente di filosofia della Freie Universität di Berlino). Perché uno pseudonimo? Perché nel suo ambiente non si può attribuire credibilità ad uno che decide di scrivere romanzi. E allora s’inventa, riconoscendosi, un altro se stesso. Tutto qua!

Dare buoni consigli significa mancare di rispetto alla facoltà
di sbagliare che Dio ha dato a tutti noi. E poi le azioni altrui
devono avere il vantaggio di non essere uguali alle nostre.
È comprensibile solo chiedere consigli agli altri:
affinché possiamo sapere, agendo in modo opposto, chi siamo
esattamente noi, assolutamente in disaccordo con l’Alterità.
(Livro do Desassossego)